Per lungo tempo l’Europa ha usufruito di una difesa collettiva spendendo poco. L’accordo al vertice Nato sul 5 per cento del Pil per la sicurezza è una vittoria politica di Trump. Ma non garantisce lo sviluppo delle capacità militari che sarebbero necessarie.

Un’egemonia in declino

Nei mesi scorsi, gli alleati europei temevano che gli Stati Uniti potessero disertare il vertice Nato del 24 e 25 giugno in segno di disappunto verso lo scarso impegno europeo alla difesa collettiva. Alla fine, non è stato così e, anzi, si è giunti all’accordo: entro il 2035, tutti i membri dell’Alleanza atlantica si impegnano a raggiungere il 5 per cento di spesa, divisa in 3,5 per cento sulla difesa e 1,5 per cento in resilienza.

Per comprendere quanto sta succedendo è utile partire dal concetto di stabilità egemonica. In varie epoche storiche, vi sono state potenze che hanno dominato la propria era. L’ascesa economica di competitori e i costi dovuti alla difesa della propria egemonia hanno però portato, più volte, al loro declino. Secondo lo storico scozzese Niall Ferguson, che riprende il filosofo settecentesco Adam Ferguson, il declino di una potenza egemone inizia quando gli interessi sul debito raggiungono la spesa militare – punto a cui gli Stati Uniti sono oramai arrivati

La richiesta agli alleati europei di spendere di più in difesa, unita a dazi punitivi verso competitori (e alleati), possono essere letti come il tentativo americano di arrestare il proprio declino relativo, traslando verso altri il costo della difesa

Ovviamente, che i toni e i metodi dell’amministrazione Trump funzionino è un altro discorso. È un fatto, però, che la difesa è un bene pubblico, non escludibile e non rivale, così come è un fatto che la Nato ne fornisca la versione internazionale e che la difesa collettiva sia caratterizzata da free riding endemico.

L’Europa incapace di difendersi

L’amministrazione Trump non è la prima a sollevare critiche di questo tipo visto che gli Stati Uniti hanno sempre speso in difesa più dell’Europa, sia in termini relativi che assoluti. Da una parte, gli impegni militari Usa sono sempre stati più ampi della sola placca euro-atlantica. Dall’altra, soprattutto durante la guerra fredda, il confronto non era solo militare ma anche politico e i paesi europei oltre a difendersi da una possibile invasione sovietica dovevano anche mantenere la stabilità domestica, cosa che in parte si otteneva attraverso maggiori stanziamenti di welfare.

Comunque sia, l’Europa non è oggi in grado di pensare alla propria difesa: quando, in primavera, si parlava di mandare un contingente europeo in Ucraina, vari studi ci hanno detto che alcune missioni proprio non si potevano fare e, in generale, non si sarebbero potuti mandare al più qualche decina di migliaia di soldati.

Dopo l’accordo sul 5 per cento del Pil

L’accordo sul 5 per cento di spesa in difesa, raggiunto all’Aia, è una vittoria politica dell’amministrazione Trump. Il problema è che maggiore spesa non equivale a maggiori capacità militari. È vero che la Nato assegna target capacitivi ai suoi alleati, che non sono pubblici, ma è altrettanto vero che la Nato non è l’Unione europea, e quindi non ha capacità sanzionatoria verso i paesi che non seguono i piani. In altri termini, bisogna vedere quanto l’aumento di difesa si tradurrà in effettive maggiori capacità militari. 

Sulla questione, l’amministrazione Trump ha due enormi vantaggi politici. Da una parte, sviluppare capacità militari avanzate è estremamente costoso e richiede decenni. Dall’altra, anche il meno filo-atlantico dei paesi europei si rende perfettamente conto che è meglio avere gli Stati Uniti dalla propria parte, soprattutto per il ruolo preponderante della deterrenza nucleare. Realisticamente, ciò porterà molti paesi europei a considerare di destinare parte degli stanziamenti aggiuntivi all’acquisto di armamenti americani: un modo per “comprare” il contributo americano alla difesa europea, più in termini politici che militari. Altrettanto realisticamente, l’amministrazione americana continuerà a usare il tema della difesa su altri fronti, a partire dai dazi per passare alla tassazione dei big tech, per finire al fronte comune verso la Cina.

Le misure decise dall’Unione europea

Per quanto riguarda l’acquisto di armamenti, l’Unione europea ha da poco introdotto una serie di misure che dovrebbero favorire progetti comuni nel campo della difesa a livello europeo, con l’obiettivo ultimo di costruire un’industria della difesa integrata. A prescindere dalle politiche dell’amministrazione americana, è lecito nutrire qualche dubbio sul loro totale successo. Da una parte, molte delle aziende coinvolte sono campioni nazionali tra di loro in competizione. Dall’altra, parte centrale del processo dovrebbe riguardare quel cambiamento tecnologico che però in Europa non riesce a essere dirompente per via degli ostacoli burocratici e della pressione delle aziende esistenti. In altri termini, dal vertice Nato è lecito aspettarsi un’Europa militarmente più forte. In alcuni ambiti, la forza può significare autonomia funzionale. Difficilmente, invece, si otterrà autonomia strategica.

Infine, l’accordo dell’Aia include anche un 1,5 per cento in resilienza. Le ragioni dietro a questa scelta non sono note: di sicuro vi sono considerazioni di politica interna – modernizzare la rete ferroviaria o aeroportuale è politicamente meno difficile di spendere in difesa – ma è anche vero che la logistica è un punto debole della difesa europea. Per indebolire la Nato non è necessario avere le più avanzate forze armate al mondo, basta attaccare, fisicamente o digitalmente, porti, aeroporti, ferrovie e altre infrastrutture critiche. Il fatto che si sia fatto un passo in questa direzione è certamente importante.

*Le opinioni espresse sono personali e non rappresentano quelle delle organizzazioni di appartenenza.

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