L’amministrazione Trump presenta i dazi come una vittoria per l’economia americana, un modo per “riequilibrare” la bilancia commerciale. Ma i primi a pagare sono le aziende e i consumatori americani. In più c’è una partita di giro fiscale nascosta.
Primo errore: chi paga davvero i dazi di Trump
L’imposizione di dazi doganali – da ultimo quelli del 15 per cento sulle importazioni dall’Unione Europea – è presentata dall’amministrazione Trump come una vittoria per l’economia americana, una dimostrazione di forza negoziale e un modo per “riequilibrare” la bilancia commerciale. Ma la narrazione poggia su due gravi fraintendimenti, che vale la pena chiarire.
Imporre un dazio del 15 per cento sulle importazioni da una delle economie più avanzate, diversificate e competitive del mondo, come l’Unione europea, significa aumentare del 15 per cento il prezzo di quei prodotti per chi li acquista negli Stati Uniti. In pratica, è una tassa aggiuntiva a carico dei consumatori americani e delle imprese americane che importano. È difficile interpretarla come una “vittoria di Trump”: quando due economie complesse e interdipendenti come gli Stati Uniti e l’Europa alzano barriere commerciali reciproche, non ci sono vincitori, ma solo perdenti. Si riduce la concorrenza, aumentano i prezzi e, potenzialmente, si rallenta la crescita. L’efficienza del mercato viene compromessa, con una riduzione di benessere reciproca. Certamente, i dazi americani sulle esportazioni Ue non sono una vittoria per l’Europa. Ma di certo non lo sono nemmeno per gli Usa.
Secondo errore: le entrate da dazi non le pagano “gli altri”
L’amministrazione Trump ha spesso rivendicato l’aumento delle entrate da dazi doganali. Ad esempio, tra ottobre 2024 e aprile 2025, gli Stati Uniti hanno raccolto circa 59,2 miliardi di dollari in entrate, rispetto ai 44,1 miliardi dello stesso periodo dell’anno precedente. Solo nel mese di aprile 2025 le entrate nette hanno raggiunto 15,6 miliardi di dollari, quasi il doppio rispetto a marzo (8,2 miliardi dollari). L’amministrazione Usa prevede di incassare, entro la fine del 2025, maggiori entrate da dazi per circa 250 miliardi di dollari.
Ma chi paga veramente queste entrate? Di certo, non l’impresa italiana che esporta formaggio grana negli Stati Uniti. Nei registri doganali, il soggetto tenuto al pagamento del dazio è l’importatore americano – ad esempio, la “American Cheese Importers LLC”, con sede in New Jersey – un’azienda che impiega lavoratori americani, paga tasse americane e fa parte della catena produttiva nazionale.
La “American Cheese Importers LLC” potrà decidere di ribaltare il costo del dazio sul prezzo finale del prodotto: in tal caso, a pagare sarà il consumatore americano che troverà il grana più caro al supermercato di Chicago o New York. Oppure, potrà assorbire il maggior costo comprimendo i propri margini di profitto: in tal caso, a pagare sarà l’impresa americana stessa, con possibili ricadute su investimenti e occupazione.
L’esportatore italiano, in tutto ciò, può essere colpito solo indirettamente: se riduce il prezzo per rimanere competitivo, subisce un taglio ai ricavi; se la domanda dei consumatori americani si sposta verso prodotti alternativi non colpiti da dazio (ad esempio, il formaggio olandese), perde quote di mercato. Ma non è lui a pagare materialmente l’imposta. La tesi dell’amministrazione Trump, quindi, che il resto del mondo stia elargendo denaro agli Usa attraverso i dazi è semplicemente falsa.
Una partita di giro fiscale nascosta
C’è infine una grande “partita di giro” fiscale. La recente riforma fiscale dell’amministrazione Trump, il cosiddetto “Big Beautiful Bill”, ha fortemente ridotto le tasse sui redditi alti e sulle imprese, generando un forte disavanzo nei conti pubblici americani. Una parte di quel disavanzo sarà compensata proprio con l’aumento delle entrate doganali da dazi. In sostanza, si sono ridotte le imposte per le fasce più alte della popolazione e le grandi corporation, aumentando al contempo la pressione fiscale – seppure indiretta – sui consumatori americani e sulle imprese americane che importano beni dall’estero. E quando questi rincari si riflettono nei prezzi al consumo, l’inflazione agisce come una tassa regressiva: colpisce tutti, ma in modo più pesante chi ha redditi più bassi.
L’aumento dei dazi Usa sull’Ue non è una strategia “patriottica” che colpisce gli stranieri. È una tassa mascherata imposta a imprese e cittadini americani che, spesso inconsapevolmente, ne subiscono gli effetti diretti e indiretti, in termini di minore possibilità di scelta. Difficile sbandierare tutto ciò come una “vittoria di Trump”. Forse è una vittoria individuale del Trump “politico”, ma certamente non degli Stati Uniti come paese e come economia.
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Savino
Trump non ha capito che, negli ultimi 30 anni almeno, la manifattura e l’industria sono finiti e scomparsi, in America, in Europa, in Asia e in tutto il mondo. Non c’è niente da daziare o tassare se non c’è in giro trasformazione di materie prime e processo produttivo che arrivi a beni finiti, se non c’è in giro reddito (da lavoro dipendente, soprattutto), che abbia un potere d’acquisto e che generi consumo e commercio.
Quando è stata sbilanciata la bilancia commerciale altrui nessuno è andato in America a chiedere di smetterla col protezionismo, mentre, se sussiste un problema di conti pubblici, esso può avere solo una risoluzione interna cercandolo nella folle corsa agli armamenti. In Europa ci siamo svenati con 35 anni di austerity per avere questi risultati di sottomissione, causati anche da una politica consociativa, la maggioranza ad Ursula l’hanno data tutti, il partito popolare europeo ha adottato la politica dei due forni, tanto con i socialisti quanto con i conservatori e quelli di questo accordo capestro sono i risultati raccolti.
Giuseppe Tavolazzi
Un articolo bello, semplice, che spiega, anche ai non addetti ai lavori, quanto le scelte dell’amministrazione Trump non diamo alcun vantaggio competitivo agli Stati Uniti. Al contrario creeranno instabilità finanziaria globale. Complimenti all’autore.
Tiziano
Il problema siamo noi in Europa .
Invece di investire , di fare dei pani industriali a lungo termine abbiamo fatto norme, regole, imposizioni, vincoli su ogni aspetto. Il green dial è l’esempio per eccellenza. L’ Europa dovrebbe
favorire, incentivare, facilitare e non creare solo imposizioni ideologiche . La gente se ne è accorta
e infatti non va neanche più a votare : ma dove sono le riforme dei trattatati fatti un un oramai lontano periodo ? Chiedono a noi le riforme, i compiti a casa, ma le riforme in Europa dove stanno ?
L’ unica soluzione è che Ursula se ne vada al più presto e ci siano delle persone competenti come Draghi a tirare le fila.
Ultima considerazione : quando faccio queste osservazioni la sinistra mi ribatte che sono contro l’ Europa . E’ l’ errore più colossale portato avanti dalle sinistre . Ma non si può essere per l ‘Europa e criticare il suo operato che è stato fallimentare su tuti i fronti ?
Tiziano da Bologna
Francesco Aloe
-Gli importatori sono colpiti “solo” indirettamente- è come dire che se aumenta l’IRPEF del 300% e l’IVA rimane la stessa siamo fortunati! Chi esporta riduce i prezzi e il proprio margine e sembra esserne ben cosciente Meloni che dice “ora aiutiamo le imprese”. Quindi si, Trump incassa un dazio presumibilmente a costo zero e apre anche alla concorrenza interna migliorando la propria bilancia commerciale dove può. Per l’efficienza del mercato gli USA sono aperti alle nostre imprese che decidono di andare direttamente da loro a produrre. Lapalissiano
arturo giusti
Articolo “chiaro, preciso e conciso”. Conclusioni “pulite e ineccepibili”. Domanda: come mai allora il “mainstraem”, sviluppa ragionamenti di tutt’altro tenore, lasciando immaginare scenari da catastrofe? Ci sono due possibilità: 1) tutti coloro che intervengono sull’argomento non sanno di cosa parlano (faccio fatica a crederlo); 2) si delineano scenari da catastrofe, per focalizzare l’attenzione su questo argomento ed evitare altre tematiche (è possibile?).
Aldo Viapiana
Il processo non è così lineare. L’importatore chiederà all’impresa che esporta di assorbire parte dei costi, riducendo il prezzo, quindi contraendo i margini. Inoltre se l’impresa che esporta è pagata in dollari avrà ulteriore contrazione dei margini, data la svalutazione della divisa che ormai ha perso più del 10%. La capacità o meno di non subire contrazione dei margini dipenderà dal grado di monopolio con cui opera l’impresa esportatrice, ma non vedo né le auto né il tanto decantato made in Italy così forti da imporre i propri prezzi, anzi.