Per tutelare la concorrenza nei mercati digitali, gli Usa confidano nelle autorità antitrust, mentre la Ue ha varato una regolamentazione specifica. Nessuno dei due approcci è del tutto soddisfacente. Poi ci sono decisioni che competono solo alla politica.

Gli approcci della regolamentazione

Proprio per rispondere al compito di provare a contenere la concentrazione senza sacrificare l’innovazione, dal 2023, nell’Unione europea è stata introdotta una regolamentazione specifica rivolta ai mercati digitali. Analoghe regolamentazioni sono state introdotte nel Regno Unito (Digital Markets, Competition and Consumers Act 2024) e in Germania (legge GWB-Digitalisierungsgesetz (10ª riforma GWB)).

In tutte le altre principali giurisdizioni, inclusi gli Stati Uniti, l’evoluzione dei comparti digitali è affidata alla sorveglianza e all’azione delle autorità di tutela della concorrenza, che operano principalmente in due aree di intervento. In primo luogo, la valutazione e l’autorizzazione delle operazioni di fusione e acquisizione promosse dalle big tech. In secondo luogo, il monitoraggio delle strategie delle piattaforme in grado di ostacolare la crescita dei concorrenti preservando la loro posizione dominante.

L’insufficiente controllo delle fusioni e acquisizioni

Il bilancio delle attività delle autorità antitrust ha poche luci e molte ombre. La valutazione dei progetti di fusione e acquisizione è stata, nella grande maggioranza dei casi, poco efficace. Per il fenomeno delle acquisizioni delle start-up innovative, l’esperienza delle industrie tradizionali ha suggerito di escludere dall’obbligo di segnalazione e dalla necessità di approvazione le operazioni che coinvolgano imprese di piccole dimensioni, evitando alle autorità di dedicare risorse a pratiche di limitato impatto economico. Nel mondo digitale, tuttavia, le limitate dimensioni iniziali possono associarsi a un alto potenziale di crescita nel giro di pochissimi anni. Molto spesso le start-up presentano bilanci in perdita o fatturati ancora trascurabili, pur avendo sviluppato innovazioni in grado di generare in pochi anni la fortuna delle piattaforme acquirenti. In alcuni casi, il vero asset delle imprese target sta nel capitale umano che portano con sé. Le acquisizioni di aziende nella loro fase iniziale rimangono quindi molto spesso al di sotto delle soglie di notifica e valutazione, e sfuggono completamente al vaglio delle autorità antitrust. 

Il fenomeno di cui stiamo parlando non è certo marginale. In un loro lavoro del 2021, MassimoMotta e Martin Peitz, pur limitandosi alle “big five” e alle operazioni maggiori, riportano negli anni dal 2015 al 2020 ben 42 acquisizioni di Amazon, 33 di Apple, 21 di Facebook, 48 di Google e 53 di Microsoft. La Federal Trade Commission, una delle agenzie federali antitrust degli Stati Uniti, nel periodo 2012-2019 ha registrato oltre 600 acquisizioni, da parte delle stesse grandi piattaforme, che cadono sotto la soglia che richiede una notificazione e approvazione dall’autorità antitrust.

Ma anche nei casi in cui le imprese coinvolte abbiano una dimensione tale da richiedere la valutazione delle autorità, l’esito è stato quasi sempre quello di un’approvazione delle fusioni proposte. In parte l’atteggiamento tollerante è stato associato, soprattutto per gli Stati Uniti, a una visione eccessivamente ottimistica del funzionamento dei mercati digitali, in cui l’effetto positivo dell’innovazione oscurava le preoccupazioni per la concentrazione crescente di questi comparti. È solamente negli ultimi anni dell’amministrazione Obama che si è avviata una riflessione sulle responsabilità dell’antitrust nella crescita marcata della concentrazione, dei mark-up e delle disuguaglianze nell’economia americana. La reazione, iniziata già con la prima amministrazione Trump, che vedeva con sospetto le big tech considerandole naturali alleati dei democratici, e poi in modo più marcato e strutturato con l’amministrazione Biden, ha portato a un maggior interventismo nei confronti dei giganti tecnologici, con alcuni importanti casi antitrust che proprio in questi mesi sono giunti a giudizio. Difficile dire, oggi, quale sarà l’impostazione della seconda amministrazione Trump, per quanto un certo pessimismo appaia naturale.

Cosa insegnano le vicende di Instagram e Whatsapp

Assieme a una visione eccessivamente sbilanciata a favore del nuovo portato avanti dalle imprese digitali, va riconosciuta la difficoltà di esaminare progetti di fusione e acquisizione in un mondo così dinamico e in continua evoluzione.

Interessante a questo riguardo è il caso dell’acquisizione di Instagram da parte di Facebook. Al momento dell’operazione, le due piattaforme apparivano significativamente diverse: Facebook era già il social network dominante, come possiamo vedere dalla figura 1, con un insieme di contenuti scritti, audio e video estremamente ricchi, servizi articolati e pubblicità, che veniva utilizzato prevalentemente attraverso personal computer. Instagram era invece una piattaforma di condivisione di fotografie e immagini generate da smartphone e caricate dagli utenti, con un ruolo marginale di testi e commenti. La valutazione che venne fatta sia dalle autorità americane che europee fu quella di una fusione tra due servizi differenti e in qualche misura complementari, che per loro natura non apparivano rivali e sostituti l’uno dell’altro. Pertanto, mancando una reale concorrenza tra le due piattaforme, una fusione non avrebbe avuto un impatto negativo sulla competizione nel mercato dei social network

Negli anni successivi alla fusione, Facebook si espanse da semplice social network a vero e proprio ecosistema, con l’aggiunta di molte ulteriori funzionalità, mentre Instagram, da semplice applicazione di condivisione di foto, divenne un importante social network all’interno dell’ecosistema di Meta. In particolare, si rivelò un utile strumento nella competizione con Snapchat per le storie e con TikTok per i reels.

La vicenda rende evidente come sia complesso per un’autorità della concorrenza valutare i possibili percorsi di crescita ed evoluzione delle piattaforme digitali a valle di una fusione, data la grande flessibilità nell’aggiungere funzionalità e modificare il modello di business e la rapida evoluzione del mercato. Da questo punto di vista, un’analisi pur dettagliata dell’evoluzione precedente e della situazione al momento della fusione offre pochi appigli all’autorità antitrust, con grandi rischi di prendere una decisione errata sia quando si mostra troppo tollerante sia quando segue un approccio più restrittivo.

Una seconda vicenda, che vede sempre al centro Facebook, poi rinominatasi in Meta, riguarda l’acquisizione nel 2014 di WhatsApp. Facebook disponeva già, nel proprio ecosistema, di un’applicazione di messaggistica, Messenger, che tuttavia venne giudicata differente, per funzionamento e funzionalità, portando la Commissione europea ad approvare la fusione. La Federal Trade Commission americana, invece, mise alcuni vincoli, legati alla politica di privacy che Facebook avrebbe dovuto adottare, in particolare con l’impegno a non utilizzare i dati degli utenti di WhatsApp per fini pubblicitari. Impegni che successivamente la società di Mark Zuckerberg in parte disattese, integrando i dati all’interno del proprio ecosistema oltre i limiti inizialmente sottoscritti. Le azioni a quel punto intentate dalle autorità americane ed europee arrivarono quando ormai il danno era fatto.

Questa seconda storia illustra un’ulteriore difficoltà che le autorità pubbliche incontrano quando affrontano i mercati digitali, legata alle moltissime possibilità con cui le piattaforme, con piccoli cambiamenti nei propri algoritmi, riescono ad aggirare le prescrizioni e gli impegni previsti, modificando la situazione del mercato in modi che non possono essere poi successivamente riportati alla condizione iniziale.

Le pratiche abusive delle big tech

Il secondo terreno su cui le politiche della concorrenza sono intervenute per condizionare le strategie delle grandi piattaforme riguarda le condotte volte a mettere in difficoltà i concorrenti difendendo la posizione dominante raggiunta, quello che in Europa è definito abuso di posizione dominante e negli Stati Uniti monopolizzazione. Molte sono le pratiche che, nel corso degli anni, sono state esaminate e censurate, in parte rifacendosi all’esperienza antitrust in settori più tradizionali e in altri casi adattando gli strumenti a condotte nuove e tipiche del mondo digitale.

Non possiamo in questa sede offrire un panorama completo di tutte le vicende, ma un esempio importante riguarda il caso Google Shopping promosso dalla Commissione europea, conclusosi nel giugno 2017 con una multa di 2,42 miliardi di euro e confermato nel settembre 2024 dalla Corte di giustizia. Secondo l’Ue, Google favoriva sistematicamente il proprio servizio di comparazione prezzi (Google Shopping) rispetto ai concorrenti che offrono servizi analoghi, una pratica che è stata definita self-preferencing. Avveniva mostrando Google Shopping in posizione privilegiata nei risultati di ricerca, mentre i servizi rivali venivano retrocessi nelle pagine successive. In questo modo Google sfavoriva i concorrenti, limitandone la capacità di innovazione e riducendo anche le possibilità di scelta dei consumatori. Google, dominante nel segmento dei motori di ricerca, espandeva quindi la propria posizione anche ai servizi di comparazione dei prezzi accessibili attraverso i risultati della ricerca.

Se da un certo punto di vista l’impianto accusatorio costruito dalla Commissione si è rivelato solido, risultando confermato anche nei successivi appelli, ripercorrere la timeline del caso fa emergere il problema fondamentale che l’intervento antitrust non riesce a superare quando affronta mercati dinamici come quelli digitali. Il caso, infatti, inizia nel 2010 con l’apertura formale di un’indagine. Nei successivi cinque anni l’attività istruttoria prosegue, intrecciandosi con fasi di dialogo per verificare eventuali impegni che Google sarebbe stato disponibile a sottoscrivere per limitare le condotte indagate. Nel 2015 la Direzione generale della concorrenza chiude la fase interlocutoria pubblicando il documento con le risultanze istruttorie e proseguendo in giudizio, che si conclude con la decisione raggiunta due anni dopo. Seguono i due gradi di appello previsti nella legislazione europea. Nel 2024 la decisione viene definitivamente sancita dal giudizio favorevole della Corte di giustizia. Quattordici anni dopo l’avvio dell’istruttoria.

Appare evidente a tutti come quattordici anni nel mondo digitale equivalgano a un’era geologica, durante la quale la realtà dei mercati e la posizione dei principali attori cambiano radicalmente. I vincoli procedurali necessari per garantire i diritti delle imprese indagate, che in Europa sono particolarmente stringenti, impongono tempi del tutto incompatibili con la necessità di intervenire per tempo nell’evoluzione dei mercati.

Un nuovo strumento: la regolamentazione ex-ante

Da qui nasce la proposta di affiancare all’intervento antitrust, che agisce a valle di condotte anticoncorrenziali attuate dalle imprese dominanti e richiede tempi lunghi, una regolazione che invece condizioni sin dall’inizio le pratiche che i giganti digitali sono autorizzati ad adottare. Nel luglio del 2022, dopo una fase di discussione e consultazione pubblica, Parlamento e Consiglio europeo approvano il Digital Market Act (Dma). In estrema sintesi, la regolamentazione si applica alle grandi imprese tecnologiche (gatekeepers) che offrono un insieme di servizi digitali (core platform services) specificati nel testo (ad esempio, social network, motori di ricerca, pubblicità online e così via). Il Dma indica ai gatekeepers le condotte che non possono essere adottate e quelle che invece debbono essere seguite (i “do” e i “don’t”) su una serie di materie. Nella sua fase di implementazione, la Commissione europea ha individuato sei gatekeepers: Alphabet (Google), Amazon, Apple, ByteDance (TikTok), Meta (Facebook) e Microsoft, cui successivamente è stato aggiunto Booking.

Ai gatekeepers è stato quindi richiesto di definire una serie di impegni e regole di condotta che rispettassero i dettami del Dma, intervenendo con sanzioni nel caso di inottemperanza, come ad esempio nei confronti di Apple, che ha ricevuto una multa di 500 milioni di euro.

Sempre un passo indietro rispetto all’evoluzione del mercato

Il Dma conferma il maggiore attivismo della Commissione europea nei confronti delle condotte anticompetitive nei mercati digitali, che nel corso degli anni Duemila ha portato a numerosi casi antitrust senza che dall’altra sponda dell’Atlantico venissero iniziative simili. Solamente negli ultimi anni le corti americane hanno promosso importanti casi antitrust nei confronti dei big tech, come in questi giorni si legge sui giornali. Inoltre, nonostante alcune proposte legislative siano in discussione da anni al Congresso, non è stata sinora introdotta negli Stati Uniti nessuna regolamentazione analoga al Dma europeo. Mentre l’amministrazione Trump manifesta marcati segnali di fastidio per le misure adottate dall’Unione europea, equiparate a barriere non tariffarie nei confronti di imprese americane.

Se il Dma appare un passaggio importante nell’attrezzare le politiche pubbliche rispetto alle dinamiche negative che nascono dal potere di mercato nel mondo digitale, la sua attuazione mostra anche tutte le difficoltà della sfida. Il Dma sembra efficace nell’individuare i colossi digitali emersi negli ultimi anni, ma è per sua natura rivolto all’indietro e non adeguatamente attrezzato a cogliere le evoluzioni recenti e future della competizione digitale. Colpisce, da questo punto di vista, come quasi in contemporanea con l’avvio dell’implementazione del Dma venisse lanciato sul mercato ChatGPT, evidenziando come la sfida dei prossimi anni avverrà nella competizione sul terreno dell’intelligenza artificiale, un segmento degli ecosistemi del tutto ignorato dal Dma. Ancora una volta, l’impressione è che l’evoluzione dei mercati sia sempre un passo avanti rispetto al disegno di appropriate politiche pubbliche.

Scelte che spettano alla politica

Non possiamo poi non accennare al fatto che queste note si sono limitate a guardare alle conseguenze dei mercati digitali sulle relazioni economiche tra imprese e tra queste e gli utenti, interpretati come consumatori. Ma l’esperienza di questi anni ha messo in piena evidenza come l’impatto del mondo digitale vada ben oltre l’esperienza che ciascuno di noi vive come consumatore e utente, condizionando tutte le dimensioni della cittadinanza, dall’informazione alla cultura, all’intrattenimento e alla politica. E come i fenomeni di concentrazione del potere non si limitino alla sfera economica. Gli strumenti delle politiche pubbliche, dall’antitrust alle regolamentazioni, non possono coprire adeguatamente tutti questi aspetti e potrebbero in alcuni casi giungere a scelte e decisioni ragionevoli dal punto di vista economico, ma in contrasto con esigenze più generali: una fusione potrebbe essere giustificata per l’impatto positivo sull’innovazione, ma al contempo generare una concentrazione di potere pericolosa per il gioco democratico. Una sintesi tra queste esigenze che tenga conto della gerarchia degli interessi generali non può essere delegata alla regolazione economica e ad autorità tecniche guidate da funzionari non eletti, deve spettare alle scelte della politica.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!