Siamo indietro nella raccolta e nel riuso dei rifiuti elettrici ed elettronici. Ai danni ambientali si sommano quelli economici perché così non si recuperano le “materie prime critiche”. Si tratta di una questione da affrontare con una visione globale.
Italia indietro nella raccolta dei rifiuti elettrici ed elettronici
L’Italia svetta in cima alle classifiche europee dell’economia circolare: prima nel riciclo degli imballaggi, ottimamente piazzata in quello dei rifiuti organici, ai vertici nell’impiego di materiali riciclati.
Fa eccezione la filiera dei rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee), dove invece arranchiamo nelle retrovie. Non c’è solo la distanza che ancora ci separa dai target europei: raccogliamo poco meno del 30 per cento del totale immesso sul mercato, mentre il target è del 65 per cento; superiamo a stento i 6 chili per abitante di raccolta selettiva, quando la media europea è quasi il doppio. Sono gli stentati progressi – in qualche caso perfino i regressi – degli indicatori a far risaltare le difficoltà in questo campo. Quanto al riciclo, raggiunge valori elevati rispetto alla raccolta, ma solo perché si conteggiano le parti metalliche e di vetro o plastica, mentre si ricicla poco o nulla dei materiali contenuti nelle parti elettriche ed elettroniche vere e proprie.
Il ritardo è doppiamente negativo: sia perché i Raee non intercettati dai circuiti ufficiali finiscono (se va bene) nel coacervo dei rifiuti indifferenziati, con impatti in fase di smaltimento, e più spesso ancora nei circuiti illegali; sia perché, in tal modo, ci viene precluso il recupero di materiali potenzialmente preziosi: le cosiddette “materie prime critiche” (Crm), a cominciare dalle ormai mitiche “terre rare”. Anche per questa ragione l’Italia è sotto la lente della Commissione europea, che ha già avviato alcune procedure di infrazione.
Da tempo c’è la consapevolezza della necessità di un cambio di passo. Tuttavia, nonostante gli apprezzabili sforzi messi in campo dai sistemi di filiera costituitisi nel frattempo, i risultati stentano ad arrivare. Il decreto legge 131/2024 (“Salva infrazioni”) rappresenta un’importante svolta.
Che cosa ostacola la gestione corretta
Occorre, a nostro avviso, partire da un’analisi delle ragioni della scarsa propensione dei cittadini italiani a servirsi dei due canali che hanno a disposizione per disfarsi correttamente dei rifiuti elettrici ed elettronici. Il primo è costituito dai servizi messi a disposizione dal gestore del servizio pubblico di gestione dei rifiuti urbani. Centri di raccolta fissi o volanti, per esempio presso i mercati; servizi su chiamata; più raramente, contenitori stradali, ad esempio per le pile. Sono in genere servizi gratuiti, ma richiedono da parte dell’utente almeno la disponibilità a recarsi presso i centri di raccolta o a rispettare l’appuntamento. Il secondo canale è rappresentato dai punti vendita, che sono obbligati al ritiro gratuito dell’apparecchio esausto quando ne viene acquistato uno nuovo (“uno contro uno”) e, per gli apparecchi di dimensioni inferiori ai 25 cm, anche senza necessità di acquisto (“uno contro zero”).
Se i cittadini se ne avvalgono ancora così poco, dipende forse dal fatto che non ne sono adeguatamente informati, oppure che non sono disposti al seppur piccolo sacrificio necessario per ususfruirne.
Più ancora contano motivi di ordine psicologico: molti si vergognano di far vedere che intendono disfarsi di qualcosa che magari ancora funziona – mentre il ritiro da parte del servizio pubblico o del punto vendita è condizionato al fatto che il bene sia effettivamente un rifiuto; oppure temono di indisporre il negoziante pregiudicando il rapporto fiduciario. Non sono rari coloro che “tesaurizzano” quantità crescenti di spazzatura elettronica nel dubbio che gli apparecchi e i loro accessori possano, un domani, tornare utili.
Un altro caso è quello del “falso riuso”. Molte apparecchiature a fine vita vengono avviate ad attività ufficialmente dedite al riuso o alla rigenerazione, gestite da operatori informali, o più spesso in paesi terzi. Il riuso va comprensibilmente favorito, per ovvie ragioni; ma dalle indagini emerge che serve, più spesso che no, a fare da paravento a invii di materiali da smaltire verso qualche pollution haven asiatico o africano, dove, con trattamenti molto rudimentali (e dannosi), si cerca di ricavarne frazioni di qualche valore economico.
L’evidenza empirica suggerisce inoltre che il prezzo di mercato dei materiali recuperati sia ancora troppo basso per rendere competitivo un recupero fatto a regola d’arte, in modo rispettoso delle norme a tutela di ambiente, salute e sicurezza; ma sufficientemente alto da risultare invece di interesse per chi opera in modo informale e senza rispettare le regole. Peraltro, come alcuni operatori ci hanno suggerito, spesso l’informalità è ricercata soprattutto per alleggerirsi dal peso degli adempimenti burocratici, sempre più asfissianti, a cui le attività di recupero sono assoggettate.
Le azioni da intraprendere
Occorre quindi un insieme di misure in grado di affrontare tutte queste possibili motivazioni. Su questo versante, il Dl 131/24 rappresenta un punto di svolta?
Se prima di tutto serve una capillare azione informativa, da questo punto di vista il decreto è ancora molto carente. Prevede che i sistemi Epr (Extended Producer Responsibility) destinino almeno il 3 per cento del proprio fatturato a campagne di comunicazione in materia di corretto conferimento dei Raee; possiamo solo sperare che gli spot siano altrettanto belli ed efficaci di quelli che, negli anni passati, ha sfornato il sistema Conai, il Consorzio nazionale imballaggi, a nostro avviso autentici capolavori del genere.
Occorre, in secondo luogo, aumentare la comodità e l’accessibilità dei servizi di ritiro. Un passo in avanti, certamente, è rappresentato dall’estensione del sistema di take back (“uno contro uno” e “uno contro zero”) anche ai rivenditori online, che copre un’evidente falla della normativa precedente. Ma anche il ritiro tramite servizio pubblico andrebbe potenziato, ad esempio assicurando una distribuzione più capillare dei centri di raccolta e verificandone l’effettiva messa in opera. Arera – l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente – potrebbe inserire una voce apposita nei propri indicatori di qualità tecnica e prevedere orari di apertura adeguati. Per molti apparecchi potrà risultare opportuno istituire sistemi di deposito cauzionale, di entità adeguata a rendere conveniente il conferimento corretto.
In terzo luogo, a nostro avviso, occorre ripensare gli obiettivi stabiliti dalla normativa comunitaria. Si limita a prescrivere un target di raccolta espresso in proporzione al peso dell’immesso sul mercato, presumendo che ciò che viene selettivamente raccolto risulterà poi sufficientemente redditizio da riciclare. Ma è un criterio deficitario. Primo, perché è poco utile ragionare in termini di peso quando si tratta di Raee: per la gran parte sono composti da materiali più banali come acciaio, rame, plastica, mentre le Crm (critical raw materials, le materie prime critiche) rappresentano in peso una frazione molto piccola e tendono a scomparire dall’indicatore riferito al peso totale, rendendo più facile che se ne perdano le tracce, specie se le filiere sono lunghe e caratterizzate da molte fasi di trattamento intermedio.
Gli obiettivi dovrebbero essere espressi in modo distinto per le varie frazioni merceologiche contenute nei Raee, estendendo la responsabilità del produttore alla garanzia del riciclo (come già avviene per gli imballaggi) e alla garanzia che i flussi esportati siano trattati a regola d’arte anche nei paesi di destinazione. Target di riciclo elevati potrebbero essere accompagnati da una politica orientata a incrementare l’uso del riciclato, anche garantendo ai riciclatori un prezzo minimo tale da remunerarne le attività. Ciò si potrebbe fare anche istituendo un apposito sistema di certificati di riciclo trasferibili dedicato specificamente alle Crm.
Dal falso riuso alle filiere globali
L’aspetto più difficile, tuttavia, sta nel contrastare il “falso riuso”. Occorre certamente partire da controlli più efficaci, anche mediante sistemi di tracciamento innovativi che riducano gli oneri burocratici, che spesso spingono i detentori verso i sistemi informali. La nuova norma prevede per gli operatori che ritirano i Raee l’esenzione dall’obbligo di iscriversi all’Albo nazionale, semplificando anche i conseguenti obblighi di rendicontazione. Affinché ciò non si traduca in un ulteriore incentivo a dirottare i flussi raccolti verso canali informali, è però necessario, a nostro avviso, intervenire anche “a monte”, modificando in modo permanente il payoff delle attività illegali: chi detiene l’apparecchiatura, in ogni anello della catena, deve trovare sempre conveniente consegnarla a soggetti autorizzati, ricevendone un prezzo congruo. Ciò richiede la messa in opera di un sistema di sussidi che potrebbero essere finanziati, ad esempio, da sistemi di certificazione del riciclo effettivo analoghi a quelli utilizzati in Gran Bretagna per gli imballaggi.
Occorre infine superare una visione del problema limitata ai territori nazionali. Quella dei Raee è una filiera sempre più integrata a livello globale ed è illusorio pensare di ottimizzare i flussi all’interno dei propri confini. Serve, a nostro avviso, uno scatto a livello europeo per coordinare l’attività dei sistemi operanti nei vari paesi – cui, curiosamente, aderiscono produttori attivi sul mercato globale, scavalcando le frontiere. Ma più ancora, sarebbe auspicabile uno sforzo coordinato a livello globale. Le grandi multinazionali del settore potrebbero essere coinvolte nell’avvio coordinato di sistemi adeguati di trattamento nei paesi africani e asiatici verso i quali sono diretti i principali flussi illegali: un’operazione che potrebbe creare opportunità di sviluppo in questi paesi, ponendo fine al vergognoso traffico attuale e alle conseguenze devastanti che ha sull’ambiente e sulla salute degli operatori informali.
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Laureato in Economia Politica presso l’Università Bocconi nel 1990, è attualmente professore associato di Economia Applicata presso l’Università di Udine e fellow di centri di ricerca quali GREEN (Università Bocconi) e SEEDS (interuniversitario). La sua attività di ricerca è collocata all’intersezione tra le politiche ambientali e l’organizzazione e regolazione dei servizi pubblici ambientali ed energetici. Oltre alla ricerca in ambito accademico svolge un’intensa attività di divulgazione; tra le sue pubblicazioni dedicate al pubblico extra-accademico si ricordano i volumi pubblicati per il Mulino nella collana “Farsi un’idea” ( L’acqua e I rifiuti) e i saggi “Privati dell’acqua? Tra bene comune e mercato” e “Un mondo senza rifiuti? Viaggio nell’economia circolare”, sempre per il Mulino.
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