L’aumento dei fondi nazionali per le politiche sociali ha portato in alcune aree alla riduzione del contributo dei comuni. Mancano incentivi al co-finanziamento, anche per un sistema di calcolo dei fabbisogni basato solo su spesa e numero di utenti.

Il ruolo dei comuni

Al finanziamento del welfare territoriale concorrono vari attori: stato, regioni, Ue, comuni, province. La definizione del sistema di finanziamento dei Lep (livelli essenziali delle prestazioni) è un tema annoso e quanto mai attuale: il disegno di legge di bilancio per il 2026 sembra volerlo affrontare, nel quadro del completamento della riforma del federalismo fiscale.

I comuni (singolarmente o associati in agenzie della tutela della salute) sono gli erogatori finali degli interventi sociali; possono limitarsi a impiegare i trasferimenti ricevuti da altri livelli di governo, oppure possono integrare il budget per le politiche sociali attraverso il proprio bilancio, divenendo finanziatori del settore.

Può essere utile offrire una fotografia dell’attuale ruolo di questi enti e di come il loro contributo sia cambiato nel tempo; lo faremo utilizzando, come fonte, l’Indagine Istat sui servizi sociali che consente di scomporre la spesa finale dei comuni per fonti di finanziamento. Si tratta di informazioni altrimenti non ricavabili dai bilanci dei comuni.

Chi finanzia la spesa sociale locale? 

Nel 2022, la spesa sociale locale – al netto delle compartecipazioni degli utenti e del sistema sanitario nazionale – è stata finanziata per oltre il 56 per cento con risorse proprie dei comuni o enti associati, per il 17,9 per cento da fondi regionali vincolati per le politiche sociali, mentre a circa un quarto della spesa contribuiscono sostanzialmente fondi nazionali o della Ue (figura 1). Per semplicità nella figura si distingue tra l’aggregato delle risorse proprie dei comuni e degli enti associativi (di colore blu) e quello delle restanti fonti (di colore arancio). Quanto più pesano le “altre fonti”, tanto minore è il grado di autofinanziamento e maggiore la dipendenza da altri livelli di governo.

Dal confronto tra le diverse ripartizioni geografiche risulta un netto dualismo tra il Centro-Nord, dove tendenzialmente i comuni/Ats finanziano oltre il 60 per cento della spesa, e il Mezzogiorno, dove l’autofinanziamento è molto più limitato: 27,8 per cento nelle Isole e 34,6 per cento al Sud. Nelle regioni a statuto ordinario risulta che la percentuale di autofinanziamento oscilla tra il massimo delle Marche (73,3 per cento) e il minimo della Calabria (16,9 per cento).

Le differenze tra regioni

Il livello di interventi sociali è molto variabile nel paese: tra le regioni a statuto ordinario la spesa sociale pro-capite oscilla tra i 38 euro della Calabria e i 214 euro dell’Emilia Romagna. È il risultato non solo della sensibilità dei comuni ad allocare proprie risorse per il sociale, ma anche dei sostegni delle regioni a questo settore, attraverso i Fondi sociali regionali, e di quello statale con i fondi per le politiche sociali. Proprio per evidenziare lo sforzo dei comuni al netto delle altre variabili, è stata calcolata la spesa sociale pro-capite finanziata con risorse proprie dei comuni di ogni regione (figura 2). Ne risulta che, i comuni dell’Emilia Romagna si confermano quelli con il più alto contributo pro-capite per il sociale (146 euro), seguiti da quelli del Lazio (123,9 euro) e della Lombardia (114,6 euro). Il dualismo Centro-Nord/Sud è molto evidente, tuttavia, e anche nell’ambito della stessa ripartizione territoriale risulta una forte variabilità, come si vede ad esempio nella distanza tra Veneto e Emilia Romagna, oppure in quella tra Puglia e Calabria.

L’evoluzione delle fonti di finanziamento

Rispetto a qualche anno fa, la percentuale di contribuzione a carico dei comuni/Ats si è gradualmente ridotta: nel 2012, in un’epoca di quasi azzeramento del sostegno statale al welfare territoriale, i comuni contribuivano per quasi il 70 per cento (figura 3). Successivamente, con il rifinanziamento dei fondi nazionali per il sociale (per esempio Fnps o Fnna), il loro ruolo si è ridimensionato. 

Figura 3 – Spesa sociale per fonti di finanziamento, Italia (2012-2022)

Nell’ultimo decennio la spesa per il welfare territoriale ha conosciuto una discreta crescita in tutto il paese, passando in termini nominali dai 6,9 miliardi del 2012 agli 8,8 miliardi del 2022. Quali soggetti hanno contribuito di più all’ espansione? Nella figura 4 la crescita del settore è distinta per fonti di finanziamento: risulta evidente che la spinta propulsiva è dovuta principalmente all’incremento delle fonti esterne, quelle in arancione che includono i trasferimenti da stato/regioni/Ue) contro una sostanziale stabilità dell’autofinanziamento dei comuni (blu).

Figura 4 – Spesa sociale per fonti di finanziamento, Italia (2012-2022)

L’evoluzione è diversa per le regioni del Centro-Nord (figura 4a) e quelle del Mezzogiorno (figura 4b). Nelle prime la crescita delle risorse esterne è stata accompagnata dal mantenimento di quelle proprie. Al contrario, nel resto del paese, all’aumento delle fonti esterne è corrisposto un ridimensionamento delle risorse proprie. Se anche i comuni del Mezzogiorno avessero mantenuto il proprio sforzo finanziario, il sociale sarebbe cresciuto di più.

Figura 4a – Spesa sociale per fonti di finanziamento, Centro-Nord (2012-2022)

Figura 4b – Spesa sociale per fonti di finanziamento, Sud-Isole (2012-2022)

Che cosa succederà in futuro?

Lo sviluppo degli interventi sociali locali sembra dipendere in buona parte dal livello di sostegno assicurato dallo stato centrale. La crescita dei fondi nazionali per le politiche sociali in alcune aree ha significato una riduzione dello sforzo dei comuni per il sociale. Nel disegno del sistema di finanziamento futuro bisognerebbe includere meccanismi che premino gli investimenti degli enti locali nei servizi sociali (ad esempio politiche di matching). Questi incentivi al co-finanziamento sono finora mancati, un limite di cui soffrono ad esempio anche le misure del Pnrr Missione 5.

Neanche i tentativi di misurazione dei fabbisogni standard per il riparto del Fondo di solidarietà comunale sono riusciti a tener conto dell’intero ventaglio dei servizi sociali offerti dai comuni: le rilevazioni hanno sinora riguardato per lo più gli asili nido, limitandosi ad accertare il numero totale di utenti dei servizi sociali del municipio. I vari tipi di interventi sociali (servizi di orientamento, servizi erogativi domiciliari, interventi residenziali, e altro ancora) possono comportare un impegno economico per utente molto differenziato, ma meccanismi di stima del fabbisogno che si limitano a confrontare spesa e numero di utenti, a prescindere dall’intensità dei servizi garantiti, non sono in grado di tenerne conto. I comuni potrebbero essere scoraggiati a investire le risorse nei servizi che richiedono un maggior finanziamento per utente, dal momento che i loro sforzi non sarebbero valorizzati ai fini della determinazione del fabbisogno.

La preoccupazione è che – senza i giusti stimoli e in un panorama in cui i provvedimenti di finanza pubblica richiedono sempre maggiori sacrifici agli enti locali – si possa arrestare la crescita del sociale, anche perché, nelle proprie politiche di bilancio, i comuni non sono spinti a fare crescere lo “spazio” per il sociale.

La sfida per il futuro è quella di mantenere e anzi di adeguare gli stanziamenti ai sempre maggiori bisogni di interventi sociali da parte di tutti i livelli di governo.

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