Se tra banca centrale e governo nasce un conflitto sul modo di ancorare la dinamica dei prezzi si possono avere due effetti diversi, a seconda delle aspettative degli operatori su chi prevarrà. La storia economica di Stati Uniti e Brasile ne dà un esempio.
Quando governo e banca centrale hanno interessi divergenti
Un quadro credibile e indipendente di politica monetaria, anche se fortemente orientato alla stabilità dei prezzi, non è di per sé sufficiente a garantire un’ancora monetaria credibile. La capacità della banca centrale di controllare l’inflazione non può prescindere dalla solidità della politica di bilancio, che deve garantire un sostegno fiscale credibile (fiscal backing). Quando il debito pubblico cresce più rapidamente della capacità dello stato di finanziare i propri deficit, anche una politica monetaria restrittiva perde efficacia. L’aumento dei tassi d’interesse accresce infatti il costo del debito, alimentando aspettative di futura monetizzazione e, di conseguenza, d’inflazione. Lo hanno intuito per primi da Sargent e Wallace (1981) studiando il legame fra politiche monetarie e il bilancio intertemporale del governo.
Quando gli squilibri fiscali si accentuano e la credibilità fiscale si erode, la banca centrale si trova di fronte a un dilemma cruciale. Da un lato, può rinunciare alla stabilizzazione dell’inflazione e favorire lo scivolamento verso un’ancora fiscale, lasciando che il livello dei prezzi si adegui per garantire la sostenibilità del debito pubblico. In questo caso, il livello di inflazione tendenziale diventa funzionale al riequilibrio fiscale. Dall’altro lato, la banca centrale può scegliere di trincerarsi dietro la sua indipendenza formale, mantenendo ferma la propria strategia di stabilità dei prezzi anche senza un adeguato sostegno dell’autorità fiscale.
Darsi la zappa sui piedi
In quest’ultimo caso, il conflitto tra banca centrale e governo sul modo di ancorare la dinamica dei prezzi può dar luogo a due esiti distinti, determinati dalle aspettative degli operatori economici – famiglie, imprese e mercati finanziari – come mostrano Bianchi e Melosi (2019). Se gli agenti si attendono che il governo prevalga e che, al termine del conflitto, venga instaurata un’ancora fiscale, la stretta monetaria non farà altro che aggravare il quadro macroeconomico: l’aumento dei tassi d’interesse accrescerà il costo del servizio del debito, innescando una recessione più profonda e, paradossalmente, ulteriore inflazione, necessaria a ristabilire l’equilibrio fiscale. È lo scenario descritto sempre da Sargent e Wallace (1981) e, più di recente, da Sims (2011), in cui la banca centrale “si dà la zappa sui piedi” (stepping on a rake): alzando i tassi d’interesse nel tentativo di rivendicare la propria indipendenza, finisce per amplificare le tensioni inflazionistiche. In altre parole, perseguendo una stretta monetaria aggressiva, la banca centrale genera più inflazione, più debito e una recessione più grave – un esito peggiore rispetto a quello che si otterrebbe accettando di subordinare le proprie politiche alle esigenze fiscali.
Nel caso opposto, gli operatori economici si aspettano che al termine dello scontro la banca centrale riesca a riaffermare la propria indipendenza dal governo e a ripristinare l’ancora monetaria. In questo scenario, la stretta monetaria determina una deflazione persistente durante la fase di conflitto, dovuta alla contrazione dell’attività economica e all’aumento del costo del debito causato dai tassi d’interesse più elevati. In un contesto recessivo e di alti tassi, il deterioramento delle finanze pubbliche si accentua. L’aspettativa di un ritorno all’ancora monetaria implica anche che famiglie e imprese si aspettino un ampio aggiustamento fiscale per stabilizzare il debito, spingendole a risparmiare, facendo frenare la domanda aggregata. Ciò aggrava la recessione e peggiora ulteriormente la posizione fiscale, alimentando un circolo vizioso di deflazione, contrazione economica e crescita del debito pubblico.
Da entrambi gli scenari, la figura della banca centrale esce fortemente indebolita. Nel primo caso, l’aumento dei tassi d’interesse finisce per accelerare l’inflazione, evidenziando l’impotenza della banca centrale nel controllare la dinamica dei prezzi e nell’orientare le aspettative. Al tempo stesso, le politiche restrittive, attuate in un contesto recessivo, aggravano ulteriormente la situazione, alimentando critiche e minando la sua credibilità. Nel secondo scenario, la politica monetaria restrittiva trascina l’economia in recessione, facendo apparire la banca centrale come responsabile, con le sue politiche eccessivamente aggressive, della perdita di posti di lavoro e delle pressioni deflazionistiche.
Il conflitto istituzionale può contribuire a spiegare le dinamiche macroeconomiche osservate in due casi: la grande inflazione seguita dalla successiva conquista della stabilità dei prezzi negli Stati Uniti (1965–1990) e il caso del Brasile tra gli anni Settanta e Ottanta.
1965–1973: la “Great Society” e la perdita del fiscal backing
Iniziamo dal caso degli Stati Uniti, nel quale è possibile distinguere cinque fasi principali. Con l’annuncio della Great Society di Lyndon B. Johnson e l’escalation della guerra in Vietnam, gli Usa entrarono in un periodo di forte espansione della spesa pubblica. La politica fiscale divenne fortemente espansiva, alimentata anche dall’uso aggressivo dei disavanzi da parte dell’amministrazione Nixon. Queste politiche indebolirono progressivamente il fiscal backing dell’ancora monetaria: la politica di bilancio non forniva più alla Federal Reserve la garanzia di sostenibilità del debito necessaria per ancorare le aspettative sui prezzi. Nonostante la Fed mantenesse tassi d’interesse reali mediamente positivi, segnalando una risposta monetaria apparentemente vigorosa – con il tasso sui federal fund medio annuo che passò dal 4,1 per cento nel 1965 al 10,5 per cento nel 1974 – senza un adeguato sostegno fiscale l’inflazione divenne via via più elevata e persistente. In questa fase, la Fed non riuscì a controllare l’aumento dei prezzi (stepping on a rake): le strette monetarie finirono per alimentare ulteriormente le pressioni inflazionistiche. L’inflazione di fondo – ossia quella basata sull’indice dei prezzi al consumo e calcolata escludendo beni energetici e alimentari (core CPI inflation) – raggiunse negli Stati Uniti circa il 7 per cento su base annua nel secondo trimestre del 1970, cioè prima dei grandi shock petroliferi che avrebbero caratterizzato quel decennio, segnando l’inizio della grande inflazione. Tra il 1970 e il 1973, prima del primo shock petrolifero, l’inflazione si mantenne stabilmente su valori superiori al 2,5 per cento, nettamente più elevati rispetto alla media degli anni Sessanta. Iniziò così un processo di ratcheting up – un progressivo incremento dell’inflazione tendenziale – che proseguì per tutto il decennio, come previsto dai modelli economici empirici quando il fiscal backing si indebolisce.
1974–1979: la politica accommodante della Fed e l’ancora fiscale
Dopo il primo shock petrolifero del 1973–1974, l’inflazione accelerò bruscamente. Sotto la presidenza di Arthur Burns, la Federal Reserve si trovò impotente di fronte all’aumento dei prezzi: lo stesso governatore sosteneva che un rialzo dei tassi sarebbe stato inefficace e preferì misure di controllo dei salari e dei prezzi, introdotte da Nixon già nel 1971. Il taglio delle tasse varato dal presidente Ford nel 1975 peggiorò ulteriormente la posizione fiscale. L’assenza di un fiscal backing – in un contesto di disavanzi persistenti – impedì alla Fed di ristabilire il controllo sull’inflazione. Durante recessione del 1974–1975 e negli anni che seguirono, la politica monetaria divenne più accomodante, con tassi reali negativi. L’inflazione corrente e quella tendenziale accelerarono, contribuendo all’erosione del debito pubblico, che alla fine degli anni Settanta raggiunse valori ai minimi storici del dopoguerra in rapporto al Pil, il 31 per cento. Questo periodo rappresenta il più chiaro esempio di ancoraggio fiscale nel dopoguerra americano: l’inflazione divenne lo strumento di stabilizzazione del debito a fronte di larghi disavanzi pubblici.
1979–1981: Volcker e la stretta senza fiscal backing
Con la nomina di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve nel 1979, la politica monetaria Usa cambiò radicalmente. Volcker introdusse una severa stretta creditizia, innalzando bruscamente i tassi nominali per domare l’inflazione. Tuttavia, nei primi anni della sua presidenza – ancora sotto l’amministrazione Carter – la mancanza di un fiscal backing efficace ne neutralizzò in larga misura l’impatto. Come nella prima fase (1965-1973), la Federal Reserve non riuscì a contenere l’aumento dei prezzi, poiché le strette monetarie, senza un sostegno fiscale credibile, finivano per alimentare ulteriormente le aspettative inflazionistiche, secondo il meccanismo della “zappa sui piedi”.
1981–1983: la Reaganomics e il supporto alla stretta della Fed
Nel novembre 1980 Ronald Reagan vinse le elezioni con una piattaforma dichiaratamente anti-inflazionistica e favorevole alla politica monetaria restrittiva già avviata da Volcker. Il presidente della Fed avviò una nuova e decisa stretta monetaria per ridurre l’elevato livello di inflazione che ancora affliggeva l’economia statunitense. D’altra parte, le prime misure della Reaganomics – forti tagli fiscali e un consistente aumento della spesa per la difesa – aggravarono il disavanzo di bilancio, che raggiunse quasi il 6 per cento del Pil nel 1983, senza fornire il fiscal backing necessario all’ancoraggio monetario perseguito con determinazione dalla Federal Reserve. Nonostante ciò, il sostegno politico all’azione della Fed rappresentò una svolta nel conflitto tra autorità monetaria e fiscale e, insieme a un debito pubblico che aveva toccato uno dei livelli più bassi del dopoguerra, rese, con ogni probabilità, più credibile un esito del conflitto favorevole alla banca centrale e il progressivo ripristino del fiscal backing. La fiducia nella determinazione di Volcker favorì un rapido calo dell’inflazione già dalla fine del 1980, ma, coerentemente con la teoria del conflitto monetario e fiscale, la stretta monetaria produsse una profonda recessione e interruppe la riduzione del rapporto debito pubblico/Pil che proseguiva da oltre un decennio.
1984–1990: il ritorno del fiscal backing e dell’ancora monetaria
Dal 1984 l’amministrazione Reagan adottò politiche fiscali più prudenti, orientate alla riduzione del disavanzo e al consolidamento delle finanze pubbliche. L’aggiustamento segnò il ritorno del fiscal backing e, in combinazione con la politica monetaria restrittiva della Fed, ristabilì un solido ancoraggio monetario. Negli anni successivi, la Federal Reserve mantenne tassi reali elevati ma stabili, e l’inflazione continuò a ridursi gradualmente. L’economia statunitense entrò così in un lungo periodo di espansione che si protrasse fino alla fine degli anni Ottanta. Con un’ancora monetaria i disavanzi di bilancio portarono a un aumento del debito federale americano e alla fine degli anni Ottanta il rapporto debito pubblico/Pil degli Stati Uniti raggiunse circa il 50 per cento, un livello senza precedenti in tempo di pace.
L’iperinflazione del Brasile anni Ottanta
Diverso il caso del Brasile tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Loyo (1999) mostra che la transizione del paese verso un regime di politica monetaria più restrittivo – caratterizzato da forti aumenti dei tassi nominali per contrastare l’inflazione – coincise paradossalmente con un’accelerazione inflazionistica. Accadde perché la situazione fiscale del paese non consentiva alla banca centrale di instaurare un’ancora monetaria, che richiede un coordinamento con l’autorità fiscale o più specificatamente un impegno credibile del governo di creare avanzi primari per stabilizzare il debito pubblico. Senza un adeguato sostegno fiscale (fiscal backing), un rialzo dei tassi d’interesse accresce il valore nominale del debito pubblico e, quindi, la ricchezza finanziaria dei privati. Per mantenere la sostenibilità del bilancio pubblico, l’economia richiede un tasso di inflazione più elevato che eroda il valore reale del debito: il risultato è un circolo vizioso in cui più alti tassi nominali alimentano aspettative di maggiore inflazione, e l’inflazione effettiva accelera invece di ridursi.
L’esperienza brasiliana degli anni Ottanta rappresenta dunque un esempio emblematico di una stretta monetaria che, priva di un fiscal backing credibile, ha generato iperinflazione fiscale. La stabilità dei disavanzi primari mostrava che la dinamica inflazionistica non derivava da eccessi di spesa corrente o da monetizzazione del deficit, bensì dagli interessi crescenti sul debito e dal loro effetto sul valore nominale delle passività pubbliche. Loyo conclude che, laddove la politica fiscale non si adatta per garantire la solvibilità intertemporale dello stato, la banca centrale non può controllare l’inflazione con soli strumenti monetari: un aumento dei tassi senza un parallelo impegno fiscale finisce per aumentare, e non ridurre, la crescita dei prezzi.
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È professore di economia all'Istituto Universitario Europeo e Research Fellow del Centre for Economic Policy Research (CEPR). Ha lavorato per 11 anni alla Federal Reserve Bank di Chicago, prima come economista e poi come direttore esecutivo del Center for Applied Macroeconomic Research. È stato Research Fellow presso la Banca dei Regolamenti Internazionali, Wim Duisenberg Fellow alla Banca Centrale Europea e Houblon-Norman Fellow alla Banca d’Inghilterra. È editore associato del Journal of Applied Econometrics e del Journal of Monetary Economics. È redattore de lavoce.info.
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