Molto ci si poteva attendere dalla liberalizzazione dei servizi pubblici locali. Ma le riforme sono rimaste al palo. Non è tutta colpa del Governo perché pesano sullo stop gli esiti del referendum del giugno 2011 e una sentenza della Corte costituzionale.

Una delle liberalizzazioni che aveva fatto maggiormente discutere nel passato, ma che avrebbe potuto anche dare effetti concreti e di dimensioni non banali era quella dei servizi pubblici locali. E in questo campo non si sono fatti passi in avanti. Ma  è solo in parte colpa del Governo.

COSA È STATO FATTO NEL DOPO REFERENDUM

Il referendum del giugno 2011 aveva abolito il “famoso” articolo 23 bis del Dm 112 del 2008, che introduceva il principio generale della attribuzione dei servizi pubblici locali su base competitiva e che contrastava quindi la possibilità di affidamenti cosiddetti in house, a imprese totalmente controllate dai comuni. La manovra del Governo Berlusconi dell’agosto 2011 (il decreto legge 138/2011) aveva tentato di ignorare il referendum, con una norma che semplicemente riproponeva l’articolo abrogato.
Si trattò di una decisione improvvida e sprovveduta, sulla quale il Governo Monti ha costruito i suoi interventi. Ad esempio, il decreto liberalizzazioni di gennaio (Dm 1/2012) emendava l’articolo 4, prevedendo che gli enti locali predisponessero una delibera quadro che verifica la possibilità di liberalizzare tutti i suoi servizi, limitando i casi di monopolio come un residuo da giustificare con attenzione.
Purtroppo, la sentenza della Corte costituzionale del luglio scorso ha spazzato via l’articolo 4 della ingenua manovra di Berlusconi e le altrettanto ingenue prove di costruire qualcosa su tale base. Il principio sancito dalla Corte è sacrosanto, ma il risultato finale è che gli ultimi cinque anni di tentativi di riforma del settore sono stati cancellati – insieme agli sforzi (forse generosi, ma tecnicamente molto discutibili) del governo Monti.

COSA È RIMASTO IN SOSPESO

L’unico vero passo destinato a conseguenze durature è la costituzione di vere e proprie funzioni regolatorie per il settore idrico in capo all’Autorità per l’energia. Dopo il referendum, definire le tariffe idriche rappresenta una patata bollente, che infatti l’Autorità non ha ancora saputo gestire . Ma alla lunga ce la farà, e la razionalizzazione della regolazione del settore sarà sicuramente un risultato che il governo Monti potrà reclamare al proprio attivo.
Nel frattempo, la privatizzazione langue. Anzi, l’ingresso della Cassa depositi e prestiti (attraverso il Fondo strategico italiano) nel capitale di Hera, la grande utility emiliano-romagnola, sembra funzionale a proteggere la proprietà pubblica. Speriamo che la Cassa sappia almeno portare più efficienza in questa impresa, smentendo i timori di chi vede in operazioni simili l’albore di una nuova Iri; della quale nessuno che ricordi come è finita potrebbe seriamente sentire la mancanza.

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