Quanto vale il patrimonio artistico italiano? Un metodo originale, basato sui prezzi relativi, per stabilire il valore economico dei nostri capolavori. Esercizio tutt’altro che facile: parte della malinconia della “Grande Bellezza” sta proprio nell’impossibilità di ricavarne qualcosa.
QUANTO VALE UN’OPERA D’ARTE?
Nei giorni de La grande bellezza, in cui il patrimonio artistico italiano fa da sfondo alle macerie di un civismo in caduta libera, e mentre Renzi cercava in Europa l’approvazione per le sue riforme e le relative coperture, ci è tornato in mente, si perdoni la citazione scacciapensieri, il celebre episodio in cui Totò, nel 1962, cercava di vendere la Fontana di Trevi per 10 milioni di lire al povero Decio Cavallo. La domanda è: vi siete mai chiesti se il prezzo richiesto fosse alto o basso?
Difficile dirlo. Se è vero che ogni cosa ha un prezzo, non fanno certo eccezione le opere d’arte. Determinarne il valore, però, sembra una questione molto più complessa che per altri beni. Spesso poi è controversa la stessa proprietà e disponibilità dell’opera: ancora oggi lo Stato e il comune di Firenze litigano sul David di Michelangelo, nonostante la natura evidentemente pubblica di entrambi i contraenti.
Un metodo di attribuzione di prezzo alle opere d’arte assai consolidato deriva dalla loro fruizione. Molte stime, cioè, si basano sul giro d’affari (legato al turismo) che una determinata opera può generare. Ma questo approccio è incompleto e, in qualche modo, troppo indiretto.
Una valutazione più articolata è quella basata sul brand index di Simon Anholt e della società Brand Finance. Si tratta di una sorta di indicatore di reputazione economica per una serie di “prodotti” italiani in senso lato. Tra questi compaiono anche il Colosseo (valutato 91 miliardi di euro), il Duomo di Milano (82 miliardi) e la Fontana di Trevi (78 miliardi, con buona pace di Decio Cavallo). Questa stima è forse eccessivamente complessa ai fini della nostra proposta ma offre uno spunto interessante: il brand delle nazioni viene valutato rispetto a sei macrodimensioni e l’Italia ottiene il podio in tre di queste e precisamente in “Turismo”, “Cultura” e “Persone”. Mediocre invece la performance in “Investimenti”, “Esportazioni” e “Governance”.
Il metodo che vogliamo illustrare in questo articolo non è, però, legato ai flussi turistici del Belpaese né alla commercializzazione del suo brand, ma risponde a un principio molto semplice dell’economia: quello dei prezzi relativi.
IL METODO
Il ragionamento si sviluppa in modo assai lineare: anzitutto, siamo partiti dalla ricerca del prezzo delle opere d’arte più costose vendute nel mondo negli ultimi 10 anni. Degli autori per i quali è stato possibile abbiamo poi rintracciato, sui siti di aste di opere d’arte più accreditati, disegni, schizzi o bozzetti, eventualmente in vendita, con il relativo valore d’asta. Per l’ultimo passaggio, abbiamo sfruttato il ritrovamento, in un inventario realizzato da Sotheby’s di una villa nel Regno Unito, di un disegno originale di Michelangelo (che raffigura una persona coperta da un mantello appena abbozzata con il carboncino), venduto dalla casa d’asta per 3,5 milioni di euro nel 2004. Partendo da quest’ultima informazione, infine, abbiamo impostato la proporzione seguente che, attraverso il meccanismo dei prezzi relativi, ci consente di stimare il valore di un capolavoro michelangiolesco, ovviamente con una serie di caveat:
Prezzo di un disegno di [Es. Cezanne] : Prezzo di un quadro di [Es. Cezanne] = Prezzo di un disegno di Michelangelo : Prezzo di capolavoro di Michelangelo [X]
Come detto, sono disponibili i prezzi dei 10 quadri più costosi venduti negli ultimi dieci anni e acquistati da privati. Per diversi autori degli stessi, sui siti di Christie’s e Sotheby’s è possibile trovare dei bozzetti o dei disegni. Individuando il valore di tali disegni, perciò, abbiamo derivato una sorta di coefficiente di moltiplicazione che, applicato a Michelangelo, ci consente di effettuare una stima del valore di un’opera finita.
La tabella seguente mostra titolo, prezzo del quadro e prezzo del disegno:
Tabella 1
I coefficienti di moltiplicazione, ottenuti dal rapporto e da utilizzare per ottenere il prezzo dell’opera di Michelangelo, sono i seguenti:
Tabella 2
Come si nota immediatamente, si tratta di valori giganteschi, il che tra l’altro è in parte giustificato dall’esplosione del mercato delle opere d’arte e anche da una maggiore volatilità di prezzo legata ad autori contemporanei e più mediatici (basti pensare al coefficiente decisamente “pop” di Warhol).
Abbiamo perciò ripetuto l’operazione, laddove possibile, con due pittori e artisti del Rinascimento, per verificare la consistenza dei moltiplicatori in relazione a un contesto storico contemporaneo a Michelangelo e distante dalla mediaticità roboante del mercato dell’arte odierna.
In particolare, abbiamo potuto ripetere l’esercizio per due opere di Guercino e Botticelli:
Tabella 3
Innanzitutto, è interessante notare come i moltiplicatori siano più bassi in corrispondenza di autori che conservano un legame diretto con la rappresentazione naturalistica: l’astrattismo, infatti, agisce come una sorta di detonatore del moltiplicatore. I moltiplicatori ottenuti, sono comunque molto alti:
Tabella 4
UN VALORE VOLATILE
C’è ovviamente un forte elemento di soggettività nel parametrizzare un’opera d’arte e questi coefficienti, in parte, riflettono tale criticità. Anche per le opere di cui è disponibile il prezzo, infatti, c’è da chiedersi: fino a che punto si tratta di capolavori dell’artista autore del quadro e non, piuttosto, di un prezzo che riflette il brand dell’autore stesso e la possibilità che una sua opera sia sul mercato? Appare ragionevole, infatti, sostenere che un conto è parlare de Il sogno di Picasso e un altro, invece, sarebbe individuare il prezzo di vendita di Guernica.
Proprio per questo e per adottare stime tutto sommato conservative, abbiamo scelto di concentrarci sull’opera di Michelangelo forse più famosa e discussa, il David, nonostante, a rigor di logica, avrebbe più senso concentrarsi su un quadro (per esempio, il Tondo Doni).
Ora, fatte le debite proporzioni, e applicato il ragionamento qui sopra descritto, giungiamo ad un prezzo, per il David, che varia da 2,1 miliardi di euro (applicando il coefficiente di moltiplicazione più basso, quello di Guercino) a 35 miliardi di euro (con il moltiplicatore più alto, quello di Warhol)
La diatriba richiamata più sopra tra Comune e Stato e concernente la proprietà del David a questo punto varrebbe molto più dei 10 milioni di euro che ogni anno i turisti versano per ammirare il capolavoro nella Galleria dell’Accademia. Anzi, con una provocazione assolutamente naif, il prezzo individuato col criterio più prudenziale basterebbe a finanziare un terzo del piano di riduzione delle tasse annunciato dal presidente Renzi.
Più ragionevolmente, tuttavia, questo esercizio serve a mostrare l’enorme difficoltà nella valutazione e monetizzazione del patrimonio artistico, evidenziando una contraddizione di policy non irrilevante: la malinconia della grande bellezza sta anche nella difficoltà pratica di ricavarne qualcosa. Come nel film di Sorrentino, siamo spettatori/attori, quasi rassegnati, di un antico teatro bellissimo ma che non aggiunge più valore.
(1) Si tratta del valore per cui il quadro è assicurato
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Paolo
L’esercizio è interessante e anche intellettualmente brillante. Però mi sfugge lo scopo di determinare il prezzo di un bene che non è destinato alla vendita. Anche la diatriba tra due Amministrazioni pubbliche potrebbe essere risolta attribuendo un valore collegato agli oneri gestionali e alla possibilità di incassare i biglietti dei visitatori. Altra cosa è il mercato dell’arte, che anche con le sue follie può avere una certa logica. Infine, l’attribuzione di un valore a fini assicurativi è una fictio: se un quadro importante viene prestato da un museo per una mostra dall’altra parte del mondo e va perduto per un incidente, a che serve il risarcimento?
Sebastiano
Qual’è la vera esigenza di indagare il valore economico di un bene come l’opera d’arte? Trovo sia un argomento spinoso, e allo stesso tempo molto importante. Il fatto di avere, però, un banale indicatore come quello del denaro ci fa capire bene quanto una stima come il PIL sia distante dal vero indicatore della ricchezza di una nazione: la cultura, la scolarizzazione, sanità, uguaglianza di genere e via dicendo. L’arte è essa stessa indicatore della civiltà di una società, che passa anche dal valore della propria arte, di ieri e di oggi. L’arte intesa come arte fine a se stessa, e non a una logica di mercato. A Giotto non interessavano loghi e brand, bensì un messaggio universale. Che vale ancora oggi, ecco il vero valore economico dell’arte. Il saper parlare al di là del proprio tempo.
Sergio Ascari
Interessante. Non mi sono mai occupato del valore delle opere d’arte uniche e invendibili, mentre mi sono occupato di altrettanto uniche e invendibili (o di valore inestimabile, come si suol dire) risorse ambientali, come i parchi nazionali. Per quelli è usato il metodo dei costi di viaggio, che rispetto a quello qui proposto presenta il vantaggio di essere basato su un’oggettiva valutazione del mercato, senza dover assumere una proporzione tra vendibile e invendibile come fa il metodo proposto. Naturalmente il metodo dei costi di viaggio è applicabile a Firenze nel suo insieme, non al David, ma comunque potrebbe essere interessante confrontare le due stime, anche per valutare la plausibilità dei risultati del metodo proposto dall’autore. Evidentemente, per quanto il David sia fantastico, Firenze con tutto il suo patrimonio inamovibile dovrebbe valere molto di più.
Giulio Tartaglia
Un articolo divertente e un esercizio di contabilità economica interessante. Solo, come mai la valutazione delle opere d’arte tende sempre ad andare a ricavare prezzi dalle case d’asta? Non sarebbe più accurata, qualora possibile, un’estrapolazione del prezzo basata sui cash flow derivanti dai ricavi dei biglietti, gadget e quant’altro legati a un particolare sito archeologico o ad un museo con opere ivi racchiuse? Per esempio, nel caso di Michelangelo, non sarebbe possibile estrapolare un prezzo generico delle opere dell’artista da un coefficiente di ricavo basato sul numero di visitatori alla Cappella Sistina e/o alle maggiori esposizioni in giro per il mondo, tenendo presente il costo del biglietto di entrata? In altre parole, non sarebbe possibile dare un prezzo al patrimonio artistico che rifletta il valore aggiunto insito nelle attività economiche passibili d’investimento ad esso legate, e non un prezzo che contabilizzi l’arte come uno stock che deve essere rivalutato di tanto in tanto ad ogni passaggio di proprietà, con tutte le difficoltà espresse tra l’altro in quest’articolo?
Andrea
Interessante, ma molto teorico. Non tanto perché invendibile, si potrà sempre trovare una legge del parlamento che renda vendibile il David per esempio. Ma poi bisogna trovare il cliente. Io potrei essere tanto ricco da poter comprare il David per 35 miliardi di euro ma non è detto che sia disposto a spendere quei soldi per tale opera. D’altronde sono opere fuori mercato, e i calcoli proposti sono solo una base per un ordine di grandezza del prezzo da richiedere. Io partirei da una richiesta di 100 miliardi e poi pian piano calerei per vedere quanto realmente potrei incassare. Buono il ragionamento anche di vedere il reddito che può fornire con i biglietti dei visitatori, sarebbe una valutazione più realistica e economicamente difendibile.
rob
A parte numeri e conti, dovrebbe valere il sano principio che si usa in casa o in una azienda, che bisogna vivere con le risorse disponibili ! Dettato questo principio basterebbe per ogni sito artistico impostarci su un progetto per farlo rendere al massimo. Per cui delle validissime persone dovrebbero stilare un vero piano di iniziative, opportunità, motivazioni, promozioni e una vera e propria gestione delle risorse che si hanno a disposizione. Invece a Pompei cosa si fa: una commistione tra il politico che promette posti per il voto e persone che l’accettano perché nella vita il loro unico scopo è un piatto di minestra fredda senza motivazioni e orgoglio. L’importante è “il posto fisso” senza impegni, senza responsabilità, senza un obiettivo; anzi con l’obiettivo della minestra, anche fredda.
Lucia
Non si tratta di determinarne il prezzo ma il valore. Questa tematica è da anni uno dei miei principali temi di ricerca. Esistono diverse pubblicazioni, soprattutto in inglese, sugli “heritage assets”, sul perchè e sul modo di valutarli. Al riguardo è stato emanato anche il Financial Reporting Standard 30. Mi interessa questa discussione.
a.m.orazi
Indipendentemente dalla astratta valorizzazione (dare un valore) di beni non vendibili, e che non possono che essere definiti “impagabili”, quello che tristemente ci manca è la capacità di valorizzare (estrarre valore) il nostro immenso patrimonio artistico,
(anticrocianamente) sia quello maggiore che quello minore; perché la nostra cultura di eredi infingardi di questo incomparabile retaggio, per avere
il quale non abbiamo fatto niente, ci porta a considerarlo come res nullius piuttosto che come cosa di tutti, salvo le diatribe tra gli enti pubblici, e ci
porta ad enfatizzare, con il giusto ma inadeguato supporto delle sovrintendenze, tutto ciò che porta alla tutela e alla conservazione statica piuttosto che ciò che serve alla messa a reddito o, anche semplicemente,
a ciò che dovrebbe servire a pagare le spese della tutela e della conservazione; lo Stato, che ha smesso di fare i panettoni, non capisce che dovrebbe smettere di fare il custode dei musei e dei monumenti ma dovrebbe disciplinare e controllare chi potrebbe svolgere questo semplice ma delicato compito di accoglienza e di supporto al visitatore pagante;
quante energie potrebbero essere mobilitate se si avviasse una svolta buona in questo senso?
E quanto più attraente potrebbe essere il nostro
paese per quanti, pur mettendolo in cima alla lista dei loro desideri di visita, di fatto non vengono a visitarlo? E quanto potrebbe giovarci come sistema paese un diverso approccio all’accoglienza del
turista-visitatore-acquirente dei nostri prodotti?
Marco
Volteggio senza dubbio interessante. Una domanda: quanto valevano i Buddha di Bamiyan?
Manshoon
Se vendessero un Botticelli lo comprerei subito: mutuo trisecolare senza problemi, quanti Botticelli nascono ogni secolo? Trovo questi calcoli astratti, il problema italiano non è “monetizzare” il patrimonio storico-culturale in sé. Quello che l’Italia rende tafazzianamente complicato è la fruizione del proprio patrimonio: infrastrutture vecchie, trasporti pubblici e privati male organizzati, orari ed informazioni degni del terzo mondo. Nessuno al mondo spende soldi per viaggiare male, nemmeno se in cambio ha l’Italia. Forse lo fa per Roma. E Bologna? Mantova? Napoli? Palermo?
Cavallierepallido
Un buon esercizio matematico, ma vendere l’impossibile è impossibile.
Però, questo ci fa capire ancora una volta come i grandi valori non vengano sfruttati a dovere, da chi come noi ha il compito di valorizzare un paese che si sta svalorizzando.
Sono anni che nei giorni di festa è impossibile andare a vedere un’opera d’arte perché le gallerie fanno orari d’ufficio, forse basterebbe questo per far ammirare queste cose, forse basterebbe questo per risvegliare un nome dimenticato, forse.
Mauro Artibani
Si può fare anche così:
Nell’universo del mercato non si va tanto per il sottile: un’ottima palestra per le ambizioni
dirigenti dei professional consumer.
Un bene costituisce valore, un bene scarso ancor più valore; fa prezzo, si impacchetta, si vende.
L’aria è inquinata, l’ossigeno un bene!
In un mondo sempre più complesso, talvolta oscuro, la cultura rischiara ogni direzione: un bene!
Ossigeno e cultura: business.
Per tutta risposta, le riserve di ossigeno per aria nuova e i giacimenti culturali, per non far giacere la conoscenza, stanno lì: offesi, sviliti, svalutati, deturpati.
La foresta amazzonica, depredata da allevatori, agricoltori, da quelli del legname; l’Italia dall’incuria e dall’affanno.
Il Belpaese abbrutito misconosce i suoi tesori; prima primo ora sesto tra i luoghi appetiti dai più.
Non è un bel vedere!
Quella foresta e l’incanto italico, non fanno prezzo.
Qual mercato è mai questo che svaluta valore, sottraendo ossigeno al mondo, per un
tozzo di pane?
Qual mercato è mai questo che brucia ricchezza mal usando un patrimonio culturale senza eguali?
Beni, ma non troppo, per chi li possiede; per chi li anela scarsi, scarsissimi.
Brasiliani e italiani sottostimano quei beni: di là si svende la foresta al prezzo di terreno agricolo poco fertile; di qua il costo della gestione di paesaggio,
storia, arte, cultura, risulta superiore ai guadagni.
Si assottiglia la foresta, deperisce quella cultura; quei beni scarseggiano, aumenta il loro valore: eppur si nicchia!
I politici che del mercato fanno gran vanto, silenti!
Apologeti del profitto, redistributori di ricchezza, sveglia, tocca a voi.
Con un cent in più della resa agricola di quella foresta il mercato fa il prezzo.
Al mercato si può acquistare, prima magari il diritto di prelazione, poi a pezzi a pezzi la concessione.
Si acquista per non disboscare, si garantiscono le risorse rinnovabili;
quell’ossigeno mette in garanzia l’atmosfera del pianeta. Agli indigeni tocca la salvaguardia: fatti agenti, salvaguardati anch’essi, affrancati
dall’estinzione.
Per la cultura pressappoco lo stesso giochino.
La ricchezza, estratta da quel bendiddio, solo il 2,5 per cento del Pil.
Bastano a occhio e croce 45 miliardi di euro l’anno, il 3 per cento del Pil.
3,4 euro per ogni cittadino del mondo; lo 0,004 per cento di 10 mila miliardi, il costo stimato della crisi economica, per avere in concessione quel bendiddio.
Seppur non sia tutt’oro quel che luccica, questi beni, non replicabili, si possono acquisire: un tesoro inestimabile che i cittadini del mondo possono avere a disposizione; un ricostituente per la mente.
Aumenta il capitale umano degli umani, migliora la qualità delle loro azioni.
Ai nativi resta l’incombenza della salvaguardia, la manutenzione, la
valorizzazione: oplà lavoro.
Dovranno dare pure supporto organizzativo, logistico, gestionale a vacanze da favola e a
“fermenti di acculturazione” per il resto del mondo: ancora lavoro, vieppiù ricchezza.
Avranno cash per rattoppare i buchi di bilancio.
Chi vende tali risorse?
I governatori della politica carioca e quelli dello
stivale.
Chi le acquista?
La proprietà pubblica: quelli della politica del resto del mondo
Chi organizza, gestisce, paga l’affare?
Be’, può l’Onu, il Wto, l’Fmi persino la Bri, fate voi!
Si acquista per il mondo, si restituisce ai cittadini del
mondo un diritto, l’uso gratuito; un investimento per il domani. Sotto sotto un nuovo credito alla politica.
sta in “La domanda comanda: verso il capitalismo dei consumatori. ben oltre la crisi”