L’effetto dei diversi assetti istituzionali sull’efficacia, efficienza e equità delle politiche pubbliche è incerto. Se davvero si vuole imprimere una svolta maggioritaria al sistema italiano, conviene forse guardare a “regole di minor livello”, più vicine però ai meccanismi decisionali, come i regolamenti parlamentari.

È forse arrivato il momento per ragionare con maggiore calma di riforme istituzionali, di come rendere il nostro sistema politico più “efficiente ed efficace”. Di riflettere sul contenuto stesso del dibattito, piuttosto che sulle diverse proposte in campo, cercando di mettere a fuoco ciò che sappiamo davvero sulle riforme istituzionali e sui loro esiti, al di là delle preferenze politiche di ciascuno.

Struttura e prassi

Dopo la primissima fase, parlo degli anni Novanta, in molti si sono ricordati di un dato di fatto assai semplice: non tutte le architetture istituzionali sono adatte in ogni luogo. Vi sono combinazioni improbabili e sicuramente controproducenti (un presidenzialismo a turno unico con un’assemblea proporzionale, ad esempio), ma vi sono soprattutto mix infelici e difficoltà d’impianto dei modelli istituzionali più affermati che impongono aggiustamenti il più delle volte improvvisati, e dagli esiti alquanto incerti. Se poi pensiamo che sono gli stessi attori politici che devono garantirsi la rielezione e un ruolo politico nel futuro ad approvare tali riforme, il rischio che la toppa risulti peggiore dello strappo è molto alto.

C’è poi un pericolo ancora più subdolo e nascosto: non solo le istituzioni di lunga data, quali i parlamenti, possono resistere all’innesto di logiche a loro estranee con ogni mezzo, ma lo stesso fanno le prassi politiche.

Ne sono un esempio le strategie di adattamento dei partiti al cambiamento del sistema elettorale, che ha portato alla proporzionalizzazione della quota maggioritaria attraverso la spartizione delle candidature uninominali, e all’elusione del meccanismo dello scorporo con le liste civetta.

Anche quello che è avvenuto qualche tempo fa all’interno del Consiglio e della Giunta regionale lombarda dovrebbe far riflettere sulla resilienza di dinamiche politiche consolidate. A partire da inusuali cambiamenti nella logica di riattribuzione delle presidenze delle commissioni consiliari, ha preso gradualmente corpo in Forza Italia una spaccatura che ha coinvolto sia assessori che consiglieri comunali, al punto da fare intravedere una scissione interna. La rottura formale è stata poi scongiurata grazie all’intervento del leader nazionale del partito, ma la divisione in fazioni – rimasta tuttora a livello latente – ha seriamente rischiato di mettere in crisi uno degli assetti istituzionali maggioritari considerato fra i meglio funzionanti nel nostro Paese.

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E prima, in chiave meno eclatante, l’approvazione della Finanziaria ha riproposto fenomeni altrettanto antichi: la carica degli emendamenti (anche, se non soprattutto, da parte della maggioranza); le pressioni dei diversi dicasteri, a stento trattenuti dal ministro dell’Economia Tremonti (a cui era stato affiancato Gianfranco Fini come una sorta di commissario politico); il tira e molla e gli accordi dell’ultimo istante. Il risultato? Nonostante le dichiarazioni di “blindatura” della manovra, l’iniziale testo governativo composto di quarantasei articoli, è stato riscritto con l’apporto del Parlamento e portato infine a novantacinque articoli. Anche in questo caso, una prassi consolidata ha scalzato una struttura istituzionale bipolare.

Quanto contano le istituzioni

Il secondo tema su cui non si è riflettuto a sufficienza è che, benché venga comunemente assunto il contrario, l’effetto di diversi assetti istituzionali sul rendimento in termini di efficienza, efficacia ed equità delle politiche pubbliche è un campo in cui non esistono certezze assolute, e i vari specialisti argomentano spesso in direzione diversa.

Non è questa la sede per ripercorrere la letteratura che, in campi e discipline diverse, si occupa degli effetti delle istituzioni. Ma anche riferendosi unicamente al loro rendimento macro-economico, esistono scuole di “maggioritaristi” e di “proporzionalisti”: seppure una delle due riuscisse a prevalere senza ombra di dubbio, ma finora non è stato così, rimane comunque da vedere quanto questi macro-assetti istituzionali contano a fronte di altre variabili: organizzative, settoriali, personalistiche o esogene. Il più delle volte, contano poco: è questa una seconda questione da tenere presente nel dibattito italiano, che vorrebbe trovare decisivi argomenti a favore di una o di un’altra ipotesi appartenente al medesimo campo (maggioritarista).

Le “regole di minor livello”

Tutte le istituzioni sono regole. E proprio come tali non sono meccanismi perfetti: le s’interpreta (i seggi fantasma nell’attuale Parlamento), le si aggira (in altri campi, i concorsi universitari), se ne utilizza gli inevitabili margini di flessibilità (la decretazione d’urgenza, che in questa legislatura ha ripreso vigore nonostante la sentenza contraria della Corte costituzionale).

Parliamo di ingegneria delle istituzioni, ma forse il materiale di cui trattiamo assomiglia più ai pezzi del meccano che, per quanto li stringessimo, rimanevano sempre un po’ allentati, rendendo la costruzione leggermente instabile.

Tutto ciò rende il gioco delle regole istituzionali assai complesso, politicamente costoso e con esiti non del tutto controllabili (ancora una volta, la proporzionalizzazione della quota maggioritaria del nostro sistema elettorale ne è un buon esempio).

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Forse varrebbe la pena di concentrarsi maggiormente su “regole di minor livello”, più vicine ai meccanismi decisionali, come quelle che guidano il funzionamento delle nostre istituzioni rappresentative, a partire dai regolamenti parlamentari.

Lo si è già fatto alla Camera, ma forse in modo non sufficientemente incisivo. Lo invoca dall’inizio del suo mandato il presidente del Senato, Marcello Pera. L’analisi comparata mostra che, a fronte delle altre “democrazie funzionanti”, è proprio su questo terreno che l’esecutivo del nostro Paese soffre maggiormente vis à vis il Parlamento. Se si vuole davvero imprimere una svolta maggioritaria, questo può davvero rappresentare il punto da cui partire.

Per alcuni studiosi, si tratterebbe di mera “cosmesi”, ma la mia impressione è che cosmetico sarebbe solo il pasticciato esito che si annunciava nei dibattiti fra i partiti sulla forma di governo. Nessun politico vorrà, come in passato, “ritagliarsi un vestito istituzionale troppo stretto”,

Gli studiosi di scuola rational, nelle loro tanto apprezzabili stilizzazioni, ci ricordano spesso che chi ha il potere dell'”ultimo emendamento” ha nelle mani le chiavi del gioco. È la classica questione da regolamento parlamentare: apparentemente un’inezia, ma un’inezia non sfuggita ai consiglieri comunali di maggioranza del comune di Milano.

In un’istituzione nettamente sbilanciata in senso maggioritario, alcuni consiglieri di maggioranza non si sono fidati delle proprie forze nell’approvazione del bilancio, e hanno pensato bene di predisporre in anticipo una serie di emendamenti pre-firmati in bianco, come potenziali contro-mosse a qualsiasi azione della pur debole e frammentata opposizione. Un pastrocchio politico che è finito sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e nelle mani della magistratura, e che dovrebbe far riflettere su quali siano, talvolta, le istituzioni (regole) che contano di più.

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