Stati Uniti ed Europa hanno la principale responsabilità nellassicurare che il sistema multilaterale degli scambi sia sempre più aperto ed efficiente. Per questo devono evitare nuove possibili spinte protezionistiche che rischiano di compromettere la ripresa commerciale e la crescita mondiale. Premessa
Durante tutto il periodo post-bellico, gli Stati Uniti e l’Europa hanno stretto una forte “alleanza” in ambito economico non meno che in ambito politico. Ne è un chiaro riflesso l’elevata intensità degli scambi tra le due aree, sia in termini di commercio che di investimenti diretti. Attualmente l’Europa rappresenta il principale mercato di sbocco sia per l’export che per gli investimenti diretti degli Stati Uniti e viceversa.
Negli ultimi anni tuttavia i rapporti tra le due aree sono stati caratterizzati da una crescente conflittualità in campo commerciale. Ne sono l’esempio più eclatante le politiche protezionistiche messe in atto dall’Amministrazione Bush sull’acciaio e le restrizioni imposte dall’Europa sulle importazioni di prodotti transgenici.
Il rischio è che queste tensioni divengano esplosive nel prossimo futuro. E questo non solo perché, dopo il conflitto iracheno, i rapporti tra Stati Uniti ed Europa sono ai minimi dal secondo dopoguerra. Uno dei motivi è che il quadro macroeconomico che abbiamo di fronte contiene i germi per un aumento delle spinte protezionistiche tra le due sponde dell’Atlantico.
Il quadro macroeconomico
Tutte le ipotesi di previsione elaborate di recente, sia dagli organismi internazionali che dai centri di ricerca privati, indicano che la ripresa internazionale attesa per il 2004-2005 sarà caratterizzata dal permanere di significativi squilibri nelle partite correnti delle principali aree economiche. Stando alle ultime proiezioni dell’OCSE (v. tabella), il deficit delle partite correnti degli Stati Uniti, che in questi mesi ha raggiunto livelli record, dovrebbe segnare quest’anno -5,4% del Pil e, seppur di poco, ampliarsi l’anno prossimo. Al deficit statunitense si contrappongono i surplus dell’Europa (1,0%) e del Giappone (3,1%).
A prima vista sorprende che non si preveda alcuna correzione del disavanzo USA, nonostante la significativa svalutazione del dollaro (dall’inizio del 2002, il 20% nei confronti dell’euro e il 10% in termini nominali effettivi). Il fatto è che le cause del deficit risiedono in fattori di fondo, difficilmente eliminabili nel breve-medio termine.
La letteratura recente in materia ha messo in evidenza come il deficit corrente degli Stati Uniti possa essere semplicemente il riflesso degli elevati guadagni di produttività conseguibili nel contesto della “nuova economia” (1). Nel corso degli anni ’90, questo fenomeno ha generato negli Stati Uniti una forte dinamica degli investimenti, cui si è associata una caduta del tasso di risparmio delle famiglie, incoraggiate dalle favorevoli prospettive occupazionali e di reddito. Il deficit esterno sarebbe quindi la conseguenza diretta dello squilibrio interno tra risparmi e investimenti.
Una spiegazione più tradizionale plausibilmente anche quella che più convince i policy maker statunitensi fa invece risalire il deficit corrente al differenziale di crescita tra Stati Uniti, da una parte, ed Europa e Giappone, dall’altra. Differenziale che è destinato a permanere se non ad ampliarsi in questa fase ciclica. Prendendo a riferimento il 2004, anno in cui la ripresa sarà presumibilmente a regime, gli Stati Uniti cresceranno in termini reali un punto e mezzo percentuale più dell’Europa e circa 3 punti più del Giappone.
Perché è possibile un aumento del protezionismo
Quale che sia la spiegazione che si dà al deficit esterno degli Stati Uniti, è chiaro che lo squilibrio non è facilmente eliminabile con una svalutazione del cambio (il dollaro peraltro si sta già riprendendo). È d’altra parte molto improbabile che nel medio termine si possa eliminare il differenziale di crescita tra gli Stati Uniti e le altre principali economie. Il Giappone attraversa una profonda crisi economico-finanziaria e l’Europa, oltre ad avere politiche macroeconomiche poco orientate alla crescita, è appesantita dalle sue rigidità strutturali.
In una tale situazione sono potenzialmente molto forti gli incentivi per gli Stati Untiti ad accrescere il loro grado di protezionismo, soprattutto nei confronti dell’Europa. Il rischio è ovviamente aggravato dalle attuali difficoltà dell’economia nordamericana, la cui crescita stenta a portarsi sul tasso di sviluppo potenziale (3,5-4,0%), se non al costo di un drastico ampliamento del disavanzo pubblico (5,0% nel 2004 secondo alcune stime).
L’Europa, da parte sua, non ha un problema di disavanzo esterno, ma ne ha uno di crescita molto serio. La domanda interna ristagna e l’euro forte rischia di compromettere le speranze di ripresa, che possono venire solo dall’export. Anche questo è, in teoria, un contesto che incentiva il ricorso a misure protezionistiche, che stimolino le esportazioni e ri-orientino la domanda verso l’interno.
Cosa si può fare
L’attenzione degli economisti si è molto concentrata sulla questione della sostenibilità del disavanzo delle partite correnti USA nel medio-lungo termine, mentre dovrebbe rivolgersi maggiormente alla possibilità che gli squilibri esistenti (nei disavanzi esterni e nei tassi di crescita) possano condurre a nuove spinte protezionistiche. Il rischio di un aumento del protezionismo non va sottovalutato: se esso dovesse materializzarsi, ne risulterebbe ridimensionata l’attesa ripresa del commercio e della crescita mondiale.
In questa prospettiva, assumono particolare rilevanza i negoziati commerciali attualmente in corso (Doha Trade Round). Stati Uniti ed Europa hanno la principale responsabilità nell’assicurare che il sistema multilaterale degli scambi sia sempre più aperto ed efficiente. Essi già si trovano a fare fronte comune rispetto ai paesi in via di sviluppo, che reclamano un maggiore accesso per i loro prodotti ma sono poco disposti ad adottare standard più elevati in materia di ambiente e lavoro. Ma non meno urgente è, nel quadro attuale, appianare le dispute reciproche: un’occasione per rilanciare, proprio partendo dall’economia, la partnership transatlantica.
(1) Per tutti si veda C. L. Mann, Perspectives on the US Current Account Deficit and Sustainability, Journal of Economic Perspectives, n. 3, 2002, pp. 131-152.
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paolo podda
Dott. Schlitzer,
nel suo articolo si legge che vi è, chiaramente,un pericolo di stagnazione della domanda interna europea…
Ma mi chiedo: l’euro più forte, se da un lato scoraggia le esportazioni, dall’altro non incoraggia le importazioni che sono, in ogni caso,una componente della domanda globale. Il dubbio è, peraltro, sistematico:come essere soddisfatti? Infatti la svalutazione della moneta renderebbe le merci estere più care, facendo calare la produttività,in senso largo… A un tempo,tuttavia, la stessa svalutazione favorirebbe le esportazioni. Fenomeno opposto per l’apprezzamento della moneta… Che fare dunque?
La redazione
Direi che più che un pericolo, la stagnazione della domanda interna in Europa, soprattutto continentale, è un dato di fatto. In questo contesto, l’apprezzamento dell’euro accrescere le difficoltà dell’Europa di ripartire. Anche se l’euro forte rende più a buon mercato l’import, l’effetto netto è normalmente considerato negativo per la crescita reale.
Quale sia, poi, il valore di equilibrio del cambio, questo lo deve
stabilire il mercato.
Giuseppe Schlitzer