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Quando la famiglia non basta

L’ecatombe silenziosa di anziani di questa estate dimostra che la famiglia non può più sopperire all’intervento pubblico nel fornire assistenza ai non-autosufficienti. Invece di proporre nuovi programmi da nomi altisonanti e privi di alcun finanziamento, occorre pensare a strumenti universali che consentano la cura degli anziani più bisognosi senza fare affidamento unicamente sui familiari. Da finanziare a livello nazionale, con una più accorta allocazione delle indennità di accompagnamento e con la riduzione della spesa per le pensioni di anzianità.

Da anni i giornali trattano i problemi degli anziani non autosufficienti rigorosamente solo nel mese di agosto, dimenticandosi poi di loro per il resto dell’anno. Meglio che questa volta non accada e che non ci si fermi alla demagogia e allo scaricabarile tra diversi livelli di Governo con cui sono stati accolti i dati sulla moria di anziani in questa torrida estate.

Parte delle colpe del modo in cui se ne è discusso ricade sul ministro Girolamo Sirchia, che avrebbe dovuto insediare fin da subito una commissione d’indagine sulle cause dei decessi. Addossando ai Comuni le colpe di quella che lui stesso ha definito una “tragedia annunciata”, ha trasformato una triste vicenda in un’ennesima occasione di bagarre politica. Ogni attribuzione di responsabilità presuppone l’identificazione delle cause, il metodo già seguito in passato a Filadelfia dopo la “heat-related death toll” dell’estate 1993 (115 i decessi poi attribuiti alla canicola). Un ministro “tecnico” ha, invece, agito da consumato politico, scaricando su altri responsabilità non ancora accertate.

Indagini a livello europeo

Meglio tardi che mai, comunque. La Commissione d’indagine finalmente al lavoro dovrà a breve termine rendere noti dati molto più circostanziati di quelli sin qui disponibili sull’ecatombe di anziani (il termine è di Le Monde, che ha lanciato il campanello dall’allarme in tutta Europa). Dovrà anche lavorare in stretta collaborazione con analoghe commissioni istituite in altri Paesi, perché proprio dalla comparazione tra istituzioni diverse di tutela degli anziani non-autosufficienti possono scaturire indicazioni utili a evitare che il fenomeno torni a ripetersi in futuro. Ad esempio, perché in Germania – nonostante temperature medie nei Laender dell’Ovest e del Sud nella prima metà di agosto comparabili a quelle di Francia, Italia, Spagna e Portogallo – non si è registrata la stessa intensificazione di morti di anziani registrata altrove? Sono domande legittime cui occorrerà dare risposta.

L’ecatombe silenziosa

Quali che siano le cause ultime dei decessi, il silenzio in cui sono avvenuti (molte morti sono state riscontrate con giorni di ritardo) è di per sé eloquente. Testimonia la solitudine estrema in cui vivono centinaia di migliaia di anziani in tutta Europa. Dimostra che la famiglia non può sopperire all’intervento pubblico nel far fronte alle sfide imposte dai mutamenti demografici di questi decenni.

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La cultura della protezione sociale nel nostro Paese non sembra, tuttavia, avere ancora interiorizzato i nuovi limiti della redistribuzione all’interno della famiglia, dell’assistenza dei parenti.
All’epoca dell’elaborazione del rapporto della Commissione Onofri, il sindacalismo cattolico fu assai tiepido verso l’istituzione di strumenti universali di lotta alla povertà – come il reddito minimo di inserimento – preferendo potenziare quella giungla di istituti che oggi in Italia subordinano la concessione di sussidi all’esistenza di una famiglia (per anni, tra l’altro, solo di chi lavorava).
Il Libro bianco sul welfare, che declina la filosofia di politica sociale di questo Governo, assegna alla famiglia il ruolo cardine di “ammortizzatore sociale”, dimenticandosi del fatto che molti disoccupati vivono in famiglie in cui nessuno lavora. E lo stesso Piano di azione nazionale contro la povertà e l’esclusione sociale, elaborato a luglio dal ministero del Welfare nel quadro del “coordinamento aperto” delle politiche sociali a livello europeo, attribuisce funzioni cruciali dello stato sociale alla famiglia .

Proteggere quando la famiglia non c’è

Non si vuole qui negare l’importanza della famiglia come rete di solidarietà intergenerazionale. Ma si tratta di tenere conto che le falle di questa rete sono ormai delle dimensioni di un grosso cetaceo.

Se agli inizi degli anni Settanta in Italia solo un ultra-65enne su cinque viveva solo, nel 1990 erano uno su tre, oggi sono uno su due. Negli ultimi trent’anni gli ultra-ottantacinquenni, le classi di età in cui è più alto il rischio di non-autosufficienza, sono triplicati: sono oggi più di un milione e 250mila, gli ottuagenari sono 2 milioni e mezzo. Al contempo, la percentuale di anziani che riceve assistenza pubblica domiciliare e residenziale è rimasta ai livelli più bassi in Europa: attorno al 2-3 per cento, mentre nei Paesi scandinavi è superiore al 20 per cento, in Gran Bretagna si è attorno al 15 per cento, in Germania al 10 per cento.
Quando non c’è la famiglia, da noi sono gli immigrati a prendersi cura degli anziani, come ci ha ricordato la recente mega-sanatoria delle badanti. Non tutti possono permettersele, tuttavia, soprattutto quando si tratta di un impiego regolare (1).

Rimarranno pochi a fruirne e molto lavoro di badanti tornerà a essere irregolare (il che significa minori tutele degli assistiti, in assenza di controlli sulla professionalità del lavoro di cura), a meno che si introducano trasferimenti pubblici per coloro che ne hanno bisogno.

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Meno nomi, più fondi!

Noi abbiamo un’indennità di accompagnamento che offre troppo poco a troppi individui, col risultato di essere inefficace e costosa al tempo stesso. I 430 euro mensili che in media offre non bastano a pagarsi una badante (a tempo pieno e con impiego regolare costano circa 1.000-1.200 euro al mese), servono al più a sovvenzionare il lavoro informale di qualche famigliare. Quindi l’attuale indennità di accompagnamento non protegge quando la famiglia non c’è.
Bisognerebbe offrire più aiuti solo a chi ne ha davvero bisogno, a chi ha un reddito inferiore a una soglia prestabilita. Speriamo solo che i nostri politici non si inventino nuovi nomi per programmi con nessun finanziamento! Gli stessi di cui sono lastricate le pagine del Libro bianco sul welfare. Basterebbe uno strumento universale, come un reddito minimo garantito, con adeguate maggiorazioni per i non autosufficienti, a svolgere questa funzione. Utile che sia finanziato a livello nazionale, onde garantire livelli minimi di assistenza in tutta Italia.
Per fargli spazio, occorrerà non solo una più accorta allocazione dei trasferimenti (con dunque verifiche del livello di reddito e dello stato di bisogno), ma anche una riduzione della spesa pensionistica per chi ha meno di 65 anni di età (come avviene in altri Paesi dove i pensionati contribuiscono a pagare l’assistenza dei non-autosufficienti).

Le Regioni (non solo i Comuni) potranno contribuire con servizi integrativi che si avvicinino il più possibile a quelli attivati dalle Province autonome di Trento e Bolzano, allocati prioritariamente ai beneficiari dei sussidi forniti dallo Stato. Avrebbero, dunque, tutto l’interesse a controllare che i trasferimenti statali siano dati a chi ne ha davvero bisogno. Anche perché, laddove non arriva l’assistenza, toccherà alla sanità, a carico delle Regioni, farsi carico del problema.

 

(1) Si veda, a questo proposito, Gori, C. (a cura di) Il Welfare nascosto: Il mercato privato dell’assistenza in Italia e in Europa, Carocci editore, 2002.

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sommario 28 agosto 2003

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  1. Carlo D'Ippoliti

    Nessun dubbio sulla necessità di fronteggiare il futuro aumento della spesa pensionistica. Ma sembra chiaro a tutti che la soluzione risieda nel trasferimento di una parte del sistema previdenziale al mercato.
    Non vorrei sembrarle sarcastico, credo veramente che in quanto studente io sia ancora un pò ingenuo: dov’è il mio errore quando penso che questo trasferimento sia socialmente ottimale solo se i privati si dimostrano più efficienti del pubblico? Poichè vari papers pubblicati dalla World Bank sostengono il contrario per fenomeni di adverse selection e moral hazard, e per economie di scala nei costi amministrativi, incentivare questo trasferimento mi sembra abbia basi molto più politiche che economiche.
    Le differenze che vedo tra questo provvedimento e il semplice aumento delle aliquote contributive sono due (a parte l’effetto sugli elettori di un ulteriore aumento delle tasse):
    -garantire una volontarietà del maggior risparmio, cosicchè possa dipendere almeno in parte dalle preferenze di consumo intertemporali;
    -o addossare il maggior onere sui lavoratori, in quanto i contributi (anche quelli nominalmente a carico loro) sono un costo per le imprese -senza ricorrere a contrattazione tra le parti.
    Volendo essere pessimisti e abbracciare la seconda tesi, non sarebbe almeno necessaria un’analisi dell’impatto macroeconomico della minore spesa per consumi, da comparare all’impatto che invece avrebbe un maggior carico contributivo sulle imprese?

    • La redazione

      Concordo con lei sul fatto che i guadagni di efficienza devono essere documentati. Dal punto di vista individuale, comunque, il passaggio ad un sistema previdenziale misto (con una componente privata a capitalizzazione) consente al lavoratore una diversificazione del rischio (tra cui anche il rischio politico di trovarsi in un sistema insostenibile e vedersi cambiare le regole di calcolo della sua pensione). Non mi sembra tuttavia che l’oggetto del contendere sia la privatizzazione del sistema pensionistico, quanto l’accelerazione del passaggio al nuovo regime (contributivo) introdotto dalla riforma Dini.

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