La pubblicità inserita nei film che passano in Tv è un prezzo da pagare. Ma è un prezzo che il consumatore-spettatore non conosce in anticipo e varia con il progredire della visione: più basso all’inizio per aumentare notevolmente verso la fine. Le emittenti dovrebbero perciò essere obbligate a annunciare il tempo totale di spot pubblicitari previsti e a distribuirli in modo uniforme. E per tutelare i titoli d’autore, divieto di pubblicità nell’ultimo 20 per cento di trasmissione.

Sono le 22,45 e Hercule Poirot sta per riunire tutti i sospetti e i familiari della vittima nel salotto di un austero castello per svelare l’identità dell’assassino. Che lo spettatore, però, scoprirà solo dopo otto minuti di pubblicità.

È normale che ciò accada seguendo i programmi di una qualsiasi delle emittenti televisive, “gratuite” e, purtroppo, anche a canone. Benché la legge 30 aprile 1998 regoli la quantità di pubblicità che può essere introdotta nei lungometraggi in modo abbastanza chiaro, fallisce in alcuni punti importanti. Prima di tutto, però, chiariamo l’interpretazione economica del fenomeno.

La pubblicità, un prezzo da pagare

Diversi economisti, come Michele Polo e Massimo Motta tra gli italiani, hanno sviluppato modelli teorici in cui la pubblicità in televisione svolge lo stesso ruolo che ha il prezzo nell’acquisto di un bene qualsiasi.

Una delle differenze tra l’acquisto di un panino al bar e di un film con pubblicità in Tv è nel mezzo di pagamento. Nel primo caso si paga in danaro, nel secondo si è costretti a subire una perdita di tempo e una diminuzione della qualità della fruizione del film. I registi cinematografici si ribellano alle interruzioni pubblicitarie dei lungometraggi, con argomenti ineccepibili dal punto di vista artistico. Tuttavia, le loro reiterate proteste non hanno potuto cambiare il corso delle cose e solo con la Tv a pagamento si può sperare di vedere un film senza spot inseriti nei momenti più svariati. Peraltro, la combinazione di pagamento monetario per la visione con la pubblicità equivale alla combinazione di diversi mezzi di pagamento per un bene di consumo ordinario. È come se per pagare un panino si corrispondesse una parte del prezzo in danaro e una parte aiutando il barista a pulire il bancone. Nulla di male, in fondo.

Ma il film non è un panino

Fin qui le analogie tra la pubblicità e il prezzo di un bene. Vi sono almeno due differenze sostanziali, però. Innanzitutto, il prezzo dei beni di consumo ordinari è noto prima dell’acquisto. La quantità di pubblicità associata alla visione di un film, no. Inoltre, per la gran parte dei beni di consumo che acquistiamo, vi è un notevole grado di concorrenza dal lato dell’offerta; nel caso delle televisioni siamo in un ibrido regime di duopolio, difficilmente riconducibile a una qualsiasi delle forme di mercato contemplate dalla teoria economica classica.
Cosa succede dunque? In nessun caso siamo capaci di stimare il costo di un film in termini di minuti di pubblicità prima di iniziare a guardarlo. Possiamo renderci conto che il costo è troppo alto per noi solo a un certo punto della visione.

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Inoltre, la pratica nefasta da parte delle emittenti di aumentare il dosaggio di pubblicità a mano a mano che il film si avvicina alla fine ottiene due scopi congiunti: da un lato, nasconde ancora meglio il vero “prezzo” della visione dall’altro, rende poco costoso il consumo iniziale, invogliando così a fermarsi su quel programma, mentre diventa più costoso l’abbandono della visione col passare del tempo. Infatti è naturale che la curiosità per la soluzione di un giallo, o per l’esito di una vicenda, aumenti con l’aumentare del coinvolgimento emotivo e razionale dello spettatore.

Dunque, lo spettatore da un lato non può farsi un’idea di ciò che sta per pagare, e dall’altro diventa a poco a poco prigioniero della scelta che ha fatto. Per usare un termine in voga, si crea un effetto di “lock-in” a tutto vantaggio dell’emittente e a discapito del consumatore, che vede crescere il prezzo del bene che acquista mentre lo consuma. È come se il gestore del bar cambiasse il prezzo del panino mentre lo mangiamo. In tutto ciò vi è qualcosa che non quadra.

Tre semplici regole

In mancanza di soluzioni alternative, una semplice proposta di regolamentazione potrebbe articolarsi su tre punti.

Primo: all’inizio di ogni film obbligare l’emittente ad annunciare il tempo totale di pubblicità in termini assoluti (esempio 17 minuti) e in termini percentuali sulla durata netta del film. L’annuncio potrebbe essere scritto e reiterato almeno due o tre volte. In tal modo il costo della visione diventa noto in anticipo e la scelta del consumatore è più informata.

Secondo: obbligare le emittenti a distribuire in modo uniforme la pubblicità nel corso del film per evitare effetti di lock-in. Niente più inizio gratuito e fine costosa. Questo permette di valutare in termini relativamente più appropriati il godimento del programma sin dalla fase iniziale o di “assaggio”.

Terzo: vietare l’inserimento di messaggi pubblicitari durante l’ultimo 20 per cento del tempo netto di trasmissione di un film. Ciò permetterebbe di salvaguardare la qualità del “finale”, che ha un ruolo prominente nelle creazioni di natura drammatica.

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Gli effetti di queste regole potrebbero risultare sorprendentemente positivi. La pubblicità inserita nei film non è solo equivalente a un aumento del prezzo della visione, ma ne deteriora anche la qualità, con effetti esterni negativi. Mentre un aumento del prezzo del panino non ne diminuisce la qualità e non ha effetti considerevoli sul desiderio di consumare cibo in generale, un aumento indiscriminato della pubblicità distrugge la qualità della visione, altera la capacità di fruizione di produzioni artistiche di qualità elevata da parte dello spettatore, e quindi diminuisce il desiderio di film (e soprattutto di film di qualità).
Inoltre, la pubblicità in dosi massicce è più sopportabile all’interno di film che richiedono poca concentrazione o che hanno contenuti poco impegnativi e, in genere, culturalmente poco rilevanti. Introduce quindi una distorsione a favore della produzione e del consumo di questo tipo di film e a danno degli altri.

Con regole chiare e con un uso meno invasivo della pubblicità il consumo di film in Tv aumenterebbe di pari passo con l’aumento del livello qualitativo della domanda di film, ingenerando un possibile circolo virtuoso.

E forse una pubblicità discreta e poco intrusiva avrebbe anche più efficacia.

 

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