I diritti televisivi sono stati un fattore scatenante della crisi finanziaria delle squadre italiane. Perché le società hanno dovuto trasferire ai giocatori buona parte di questi inaspettati e improvvisi ricavi. Daltra parte, la necessità di assicurarsi le esclusive ha alzato i prezzi e diminuito la remuneratività delle partite in tv. E tutti ne hanno sopravvalutato il potenziale di sviluppo. Ma se le emittenti possono permettersi di trasmettere in perdita per un breve periodo, alle squadre per pareggiare costi e ricavi non resta che abbassare gli stipendi dei calciatori. Le difficoltà che il mondo del calcio sta attraversando in queste settimane hanno origini economiche, in particolare nello squilibrio strutturale tra costi e ricavi. Le perdite operative delle squadre di serie A sono passate da 222 milioni di euro nel 1998, a 710 milioni di euro nel 2001 (61 per cento sul fatturato) e sono state ripianate essenzialmente attraverso le plusvalenze patrimoniali derivanti dalla cessione di giocatori, una misura più contabile che sostanziale. Solo nel corso del 2003 vi sono state le prime riduzioni del costo del lavoro che dovrebbero rendere visibile qualche miglioramento nei bilanci dell’anno prossimo. Le colpe della televisione I diritti televisivi, che rappresentano ormai circa il 55 per cento dei ricavi complessivi delle squadre di calcio, sono al centro di questo processo: sono stati un fattore scatenante della crisi finanziaria, rappresentano la principale speranza di aumento dei ricavi e sono stati oggetto di una rilevante sopravvalutazione sul potenziale di crescita. A metà degli anni Novanta, quando la pay tv ha cominciato a svilupparsi anche in Italia, è emersa una domanda intermedia di diritti sportivi. Lo sport, assieme ai film, costituisce un ingrediente importante della televisione a pagamento proprio per la rigidità della domanda finale. Una rendita, dunque, che però le squadre non sono riuscite a trattenere: è passata rapidamente ai giocatori che, dopo la sentenza Bosman, hanno aumentato sensibilmente il potere contrattuale nei confronti delle squadre. Errori di sopravvalutazione Inoltre, la poca conoscenza del mercato televisivo, la corsa al rialzo tra gli operatori pay e le promesse della convergenza multimediale, hanno favorito gli errori di sopravvalutazione e spinto a trasferire ai giocatori un valore nettamente superiore ai flussi di ricavi ottenuti negli anni successivi. Con conseguente rapido peggioramento della redditività e della posizione finanziaria. Nella stagione 2001-2002, il numero di abbonati alla televisione a pagamento era circa la metà di quello necessario per raggiungere il break-even degli investimenti effettuati per i diritti del calcio. Oppure, se si preferisce, il prezzo pagato era doppio rispetto a quello che avrebbe pareggiato i ricavi. Mediaset manda in onda per ogni partita due blocchi da 240 secondi nell’intervallo, il 50 per cento dei due blocchi a inizio e fine partita e sette spot da 10 secondi per tempo. Per Rai i blocchi sono da 210 secondi e vi sono meno spot brevi durante il gioco. Le partite della Nazionale trasmesse dalla Rai sono state viste mediamente da 10,3 milioni di spettatori, con una share del 43 per cento, generando un ricavo stimabile in 1,4 milioni di euro a partita (ipotizzando un costo contatto di 0,45 centesimi di euro): molto inferiore al prezzo di 5,9 milioni di euro a partita pagato per i diritti della Nazionale. La coppa Italia ha registrato nella stagione 2002-2003 un’audience media di 4,8 milioni di spettatori, generando ricavi stimabili 600-700mila euro, inferiori al solo costo dei diritti (circa 900mila euro a partita) e ai costi complessivi di trasmissione (1,4 milioni di euro). Per quanto riguarda Mediaset l’eccezionale performance delle squadre italiane ha portato l’ascolto medio delle partite della Champions League a 9,7 milioni di telespettatori con una share del 33,5 per cento, contro un ascolto medio negli anni precedenti di 4-6 milioni a partita, generando un ricavo a partita stimabile in 1,6 milioni. Questa cifra è superiore al costo a partita, che dovrebbe essere attorno a 1,3 milioni di euro, ma inferiore al fatturato necessario per coprire anche gli altri costi della rete. Per le squadre, la riduzione delle rendite dei giocatori rappresenta la sola strada percorribile per riportare in equilibrio costi e ricavi. Potrebbero essere presi in considerazione anche meccanismi collettivi di salary cap (vedi Garibaldi)- possibilmente coordinati a livello europeo – analogamente a quanto succede in molti sport in altri paesi del mondo.
Il solo costo del lavoro ha un’incidenza del 75 per cento sui ricavi (il livello più alto in Europa), mentre il costo totale del possesso dei giocatori, inclusi gli ammortamenti per l’acquisto, supera i ricavi.
Poiché i diritti sportivi hanno valore solo se sono trasmessi in diretta, il loro possesso esclude automaticamente dall’uso gli altri operatori televisivi, anche quelli che normalmente sono poco in concorrenza con la televisione a pagamento, come le reti generaliste via etere finanziate dalla pubblicità.
Con l’arrivo di un secondo operatore, Stream, la gara per i diritti esclusivi ha spinto in alto i prezzi. Ma ha indotto venditori e compratori a sopravvalutare il potenziale televisivo delle trasmissioni calcistiche e ha spinto i prezzi a un livello non più remunerativo per le televisioni.
D’altra parte, lo sviluppo della televisione a pagamento si è rivelato più lento del previsto, anche per alcune caratteristiche peculiari del mercato italiano, tra cui l’offerta concorrenziale di programmi in chiaro e la presenza di una pirateria relativamente elevata.
Comunque sia, all’inizio sulle squadre di calcio si è riversato un consistente e non previsto flusso di ricavi, per il quale non erano stati affrontati né costi né investimenti.
Se infatti la sua strategia di successo è costituita semplicemente dall’assemblaggio di giocatori eccellenti, una squadra non ha nessuna possibilità di trattenere rendite di questo genere, che si trasferiscono rapidamente al valore scarso.
Nel caso della televisione via etere finanziata dalla pubblicità, il confronto è ancora più chiaro. Il prezzo che una televisione può pagare per i diritti di un qualsiasi programma ha un limite superiore nei ricavi pubblicitari che quel programma riesce a generare, da cui però bisogna sottrarre i costi di illuminazione e le spese generali.
In una televisione generalista, i costi per i programmi rappresentano generalmente tra metà e 2/3 dei ricavi complessivi. Quindi, nella ipotesi più ottimistica, una televisione non può pagare più di 2/3 dei ricavi pubblicitari che realizza su quel programma.
Le televisioni possono trasmettere in perdita per brevi periodi, per ragioni strategiche quali il mantenimento della varietà di programmi o la capacità di una partita di innalzare la media di rete. Ma, con squilibri del genere, cercheranno di allineare i contratti futuri ai propri prezzi di riserva.
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