La proposta del Governo “chiude” la riforma costituzionale italiana introducendo la Camera delle Regioni. Ma lo fa in modo sbagliato. Le regole sulla rappresentanza indicano che il nuovo Senato di federale ha solo il nome, tant’è che mantiene poteri incompatibili con una vera Camera regionale. Inoltre, crea problemi di attribuzione di competenze tra le due assemblee legislative non facilmente risolvibili. Ambiguo anche il procedimento per lo scioglimento da parte del Presidente della Repubblica “in caso di prolungata impossibilità di funzionamento”.

È opinione consolidata, tra politici e costituzionalisti, che le riforme regionaliste adottate dal Centrosinistra nella XIII legislatura avessero diversi pregi, ma una grave lacuna: non prevedevano l’istituzione di una Camera parlamentare rappresentativa del mondo delle autonomie territoriali (Regioni, province, comuni e, quando ci saranno, città metropolitane).
La bozza di revisione complessiva della Parte II della Costituzione approvata poco tempo fa dal Consiglio dei ministri vorrebbe muovere qualche passo in questa direzione, sostituendo l’attuale Senato con un “Senato federale”.

Federale solo a parole

Ma, di “federale”, questo nuovo modello di Senato ha soltanto il nome. Nel progetto il carattere “territoriale” della rappresentanza è essenzialmente legato alla limitazione dell’elettorato passivo ex articolo 4, per cui un determinato territorio può eleggere al Senato solo soggetti che abbia già eletto ad altre cariche pubbliche. E alla garanzia di almeno cinque senatori per ciascuna Regione ex articolo 3 (tranne il Molise, che ne ha due, e la Valle d’Aosta, che ne ha uno).

Il primo punto appare alquanto opaco: non sempre l’elezione di un soggetto in un determinato ambito territoriale è prova della sua connessione effettiva con questo. Sembra quasi una norma per escludere dalla “Camera federale” la “società civile”, spesso molte forte a livello territoriale.
Il secondo punto è di scarso rilievo: già oggi anche le Regioni di piccole dimensioni (Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Umbria, Abruzzi, Basilicata) hanno ciascuna almeno sette senatori, una proporzione non lontana da quella che la riforma intenderebbe assicurare loro.
Nemmeno pare significativa la regola proposta per cui le deliberazioni del Senato sono valide solo se vi partecipano i senatori “di” almeno tre Regioni (eventualità del tutto normale, il contrario sarebbe eccezionale. Anzi, semmai desta preoccupazione l’idea che i rappresentanti di tre Regioni possano assommare a un totale anche solo vicino alla metà del numero dei senatori).

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Il carattere “federale” del Senato inizia e finisce in questi pochi dati. Per il resto, dura in carica quanto la Camera ed è eletto direttamente dai cittadini, su base proporzionale (il che lascia pensare che anche le elezioni senatoriali saranno controllate dai partiti politici nazionali).
La debolezza del collegamento fra Senato e Regioni è confermata poi dal fatto che i delegati regionali continuano a partecipare all’elezione del Presidente della Repubblica: come a dire che i senatori comunque non bastano a rappresentare le Regioni in questo momento importante della vita repubblicana.
Non si capisce poi cosa stiano a fare i rappresentanti degli italiani all’estero in una Camera che, teoricamente, dovrebbe interessarsi primariamente di questioni interne al territorio nazionale, mentre restano prive di qualsiasi rappresentanza le autonomie locali (comuni e province).

Le leggi tra competenze statali e regionali

Nel disegno di riforma del Governo, il procedimento di approvazione cambia a seconda che le leggi attengano a materie di competenza statale (nel qual caso nella decisione predomina la Camera) o regionale (nel qual caso prevale il Senato).
Il problema è che dalla distinzione delle materie finisce con il dipendere il procedimento di approvazione di ogni legge dello Stato. Ne consegue che qualsiasi errore nell’individuazione delle competenze statali o regionali su di una legge potrebbe ridondare in un vizio di incostituzionalità della legge medesima per “error in procedendo”: un vizio su cui naturalmente potrebbe far leva chiunque vi abbia un qualsiasi interesse.
È vero anche che il testo proposto del nuovo articolo 70 ultimo comma riserva ogni decisione sulla procedura legislativa ai presidenti delle due Camere: ma sembra difficile immaginare che la garanzia di una regola codificata in Costituzione sia totalmente sottratta al sindacato della Corte costituzionale e affidata a organi che sono sostanzialmente controllati dalla maggioranza politica del momento.

Infine, nel nuovo articolo 88 ultimo comma della Costituzione, si legge che il Senato potrebbe essere sciolto dal Presidente della Repubblica “in caso di prolungata impossibilità di funzionamento“. Comprendere che cosa ciò voglia dire esattamente, non è facile.
L’espressione richiama il vecchio testo dell’articolo 126 della Costituzione, che, nell’interpretazione dominante, consente lo scioglimento dei consigli regionali quando risulti impossibile eleggere una giunta o nel caso (del tutto eccezionale) di assoluta e materiale incapacità del consiglio a deliberare (l’esempio che si faceva era quello del venir meno della maggioranza dei consiglieri). La migliore dottrina ha sempre messo in guardia contro interpretazioni dell’articolo 126 che consentissero alla maggioranza nazionale di accusare come “disfunzione” la semplice instabilità dell’indirizzo politico regionale.

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Gli interesse locali e il Governo centrale

Orbene, considerato che il Senato non partecipa al rapporto di fiducia con il Governo, sicché non può condizionare la formazione dell’esecutivo, in che cosa potrà mai consistere questa prolungata impossibilità di funzionamento? Viene quasi il dubbio che l’intenzione sia quella di costruire uno strumento per sanzionare e neutralizzare il sistematico rigetto delle proposte della maggioranza di Governo. Una eventualità che potrebbe verificarsi quando il sistema proporzionale dovesse dare risultati differenti da quelli del sistema elettorale della Camera.

Tutto sommato, se si avesse davvero a cuore il principio di autonomia, sarebbe già un cospicuo risultato avviare la “Bicameralina” e proseguire nella fruttuosa esperienza del sistema delle conferenze, eventualmente costituzionalizzandole.
La via prefigurata dal disegno di legge costituzionale del Governo appare perlomeno avventurosa e, per quanto si riesce a intuire sugli esiti, tutt’altro che idonea a costituire una Camera legislativa che esprima gli interessi e delle comunità regionali e locali

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