In risposta ad una lettera di Luca Paolazzi, Pietro Garibaldi torna a discutere l’impatto della riforma previdenziale sulla domanda di lavoro.
La decisione di andare in pensione rientra nella sfera delle scelte individuali. Ma un nuovo sistema previdenziale che alza l’età del pensionamento influenza il mercato del lavoro. Con due sole possibili alternative: un abbassamento delle retribuzioni lungo tutto l’arco della vita lavorativa. Oppure, se i salari sono rigidi, una diminuzione della domanda di lavoro. La terza alternativa, un aumento della produttività dei lavoratori più anziani, appare poco plausibile.

Riforma delle pensioni e mercato del lavoro

Luca Paolazzi ha perfettamente ragione (vedi Paolazzi). La decisione di ritirarsi dal mercato del lavoro è una decisione individuale. Ma questo fatto non significa che il cambiamento dell’età di pensionamento sia neutrale sul mercato del lavoro. Tutt’altro.

L’età per la pensione

Un individuo razionale affronta la decisione di pensionamento in base al seguente calcolo costi/benefici. Un anno aggiuntivo di permanenza sul mercato del lavoro produce un aumento nel livello della pensione media. Tuttavia, un anno in più sul mercato del lavoro riduce il numero di anni in cui lo stesso individuo potrà godersi la pensione. Queste due forze si contrappongono. Conseguentemente, non sarà mai ottimale andare in pensione a un’età troppo vicina alla durata della vita attesa, in quanto si finirebbe per percepire una pensione molto alta, ma la si godrebbe per un periodo troppo breve. In modo analogo, non può essere ottimale andare in pensione troppo presto, perché si riceverebbe una pensione bassissima per un periodo di vita troppo lungo.

Imprese e retribuzioni

Prendendo come data l’età di pensionamento individuale, le imprese stabiliscono le loro politiche retributive ottimali. Come avevo descritto nel precedente intervento, la maggior parte delle imprese offre agli individui un salario che cresce nel tempo. Questa crescita è spiegata in due modi. Da un lato, il maggior salario riflette un aumento della produttività individuale durante i primi anni di carriera. Da un altro lato, l’aumento del salario lungo la carriera riflette un meccanismo di incentivo. In effetti, un salario crescente permette agli individui più anziani di continuare a produrre anche quando sono vicini alla pensione, mentre induce i lavoratori più giovani a impegnarsi nella speranza di ottenere gli aumenti futuri. Ma l’esistenza di un effetto incentivo nei profili retributivi lungo la carriera ha una ovvia implicazione: i lavoratori più anziani percepiscono una retribuzione superiore alla loro produttività. E affinché il meccanismo funzioni davvero, è importante che le imprese conoscano con precisione il momento in cui i lavoratori più anziani escono dal mercato del lavoro. Un anziano che rimane sul lavoro più a lungo di quanto l’impresa si aspetti produce una perdita, perché l’impresa mantiene troppo a lungo un individuo che produce meno di quanto costa.

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Una riforma da fare

La riforma previdenziale si deve fare. Se il decreto governativo verrà convertito in legge, dal 2008 in poi il nuovo sistema previdenziale obbligherà gli individui a rimanere sul mercato del lavoro più a lungo.
E quale sarà l’impatto di questa riforma sui profili retributivi? Delle due l’una. O si osserverà una adeguamento verso il basso della retribuzione lungo la carriera lavorativa, o si osserverà un adeguamento della domanda di lavoro.
Nel mio precedente intervento (vedi Garibaldi), ho enfatizzato l’aggiustamento sul lato della domanda di lavoro.
È chiaro che se i salari sono rigidi e non si aggiustano verso il basso, l’unica via di sfogo a questa situazione sarà una diminuzione dell’occupazione. Potrà essere una diminuzione dell’occupazione dei lavoratori più anziani, oppure dei lavoratori più giovani, oppure una via di mezzo. Ma di diminuzione di domanda di lavoro dovrà comunque trattarsi.

Viceversa, se i salari si mostreranno flessibili, l’aggiustamento implicherà una diminuzione delle retribuzioni dei lavoratori lungo tutta la vita lavorativa. Morale, o diminuiranno le quantità o i prezzi. L’unica alternativa sarebbe un aumento della produttività dei lavoratori più anziani. Ma è poco plausibile pensare a un mondo di sessantenni impegnati in corsi di formazione professionale.

Padri e figli, non c’è scontro sul lavoro

Luca Paolazzi (Il Sole 24 Ore)

Più lavoro per gli anziani uguale meno lavoro per i giovani? Un vecchio luogo comune della vulgata economico-sindacale torna a far capolino nel dibattito sulla proposta di riforma della previdenza avanzata dal Governo Berlusconi. Cosa afferma questo luogo comune? Che il prolungamento della vita lavorativa delle persone più anziane impedisce l’accesso all’occupazione ai più giovani, perché non libera posti di lavoro. In altre parole i padri tolgono lavoro ai figli. Da questa convinzione discende la ricetta delle pensioni di anzianità come strumento di creazione di occupazione giovanile.
Ciò sarebbe vero se il numero di posti di lavoro fosse fisso e immutabile nel tempo. Quasi fosse una stanza tanto stipata di persone che per farne entrare un’altra occorrerebbe che qualcuna uscisse. (Il che può accadere per alcune categorie professionali altamente protette). Questa visione ha il fascino discreto della semplicità e a ciò deve la sua popolarità.
Quanto tale visione sia però errata lo dimostra il confronto internazionale: l’occupazione tra gli anziani è maggiore negli stessi Paesi in cui c’è minore disoccupazione giovanile (vedere grafico). Ciò perché in realtà non vi è nessuna legge di natura che predetermina un numero costante di posti di lavoro. In un sistema economico esistono invece condizioni di domanda e offerta. Condizioni che cambiano, aumentando o diminuendo l’occupabilità delle persone. E l’aspetto dinamico è quello più difficile da inglobare nelle analisi. Ma è l’aspetto più rilevante, perché non solo varia la dimensione dell’occupazione ma anche e soprattutto la sua composizione tra settori produttivi, tra imprese e, all’interno di una stessa impresa, tra figure professionali. Perciò è ben difficile, e comunque rappresenta un caso particolare, che al pensionamento di una persona corrisponda l’assunzione di un’altra.
Proprio a questo caso particolare, che può essere anche importante per una singola impresa, pare si riferisca una critica, elaborata da Pietro Garibaldi su lavoce.info e ripresa da Tito Boeri su Il Sole 24 Ore, al nuovo progetto di riforma previdenziale. Sostenendo che “l’aumento della vita lavorativa determina un aumento del costo del lavoro” (per unità di prodotto, aggiungiamo) e dunque riduce la domanda di lavoro, a scapito dei giovani, essendo gli anziani “bloccati” nel lavoro dal progetto di riforma previdenziale o da qualunque intervento determini l’allungamento della vita lavorativa.
Questa critica sollecita due osservazioni. Prima osservazione. Delle due l’una: se si ritiene che le misure proposte di incentivazione al rinvio del ritiro dal lavoro siano efficaci allora porteranno a un risparmio nella spesa previdenziale, e ciò implica una riduzione del costo del lavoro via abbassamento delle aliquote fiscal-contributive (o un loro mancato aumento). Se invece si ritiene che non saranno efficaci (e vi è più di una ragione per pensarlo) allora non ci sarà “ingabbiamento” di persone anziane nell’occupazione. In ogni caso quel che rileva è il costo del lavoro e ogni riforma che, abbassando la spesa, riduca la pressione fiscal-contributiva accresce l’occupabilità delle persone di ogni generazione.
Seconda osservazione. Se anche i meccanismi di spiazzamento descritti da Boeri-Garibaldi funzionassero, e non c’è da dubitare che in alcuni casi funzionino (ma l’evidenza aneddotica evidenzia anche casi contrari: la produttività di alcune figure professionali è più alta negli ultimi anni di vita lavorativa e le imprese si lamentano di perdere per pensionamento d’anzianità lavoratori preziosi), credo che per contrastarlo occorrerebbe usare strumenti diversi dal sistema previdenziale (che incide sulla sfera della libertà personale nel suddividere la vita in tempo di lavoro e in tempo libero). Per esempio, facendo ricorso a una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, alla formazione e riqualificazione, al sostegno integrativo delle retribuzioni.
Non mi pare invece molto formativo, nella già scarsa cultura economica italiana, risvegliare antichi luoghi comuni in un paese che negli ultimi anni ha imparato finalmente che si possono aumentare assieme l’occupazione degli anziani e l’occupazione dei giovani.

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