La fine del Patto di stabilità non comporterà una maggiore crescita dell’Europa. Negli ultimi anni infatti è avvenuta comunque un’espansione della spesa pubblica che non ha determinato alcuna accelerazione. Perché in Italia come altrove, la debolezza dell’economia dipende dall’eccesso di specializzazione alle esportazioni in settori maturi. In attesa dello sviluppo di una nuova domanda mondiale, i paesi europei dovrebbero perciò puntare sul mercato interno. È quindi urgente liberalizzare molte attività di servizio e costruire adeguate infrastrutture.

Era ormai risaputo che il Patto di stabilità e di sviluppo fra i paesi dell’euro fosse destinato a cadere. Dispiace vedere quali sono state le modalità con cui esso è stato fatto esplodere, così come incerti restano gli esiti sulla futura capacità operativa dell’Unione europea, dopo questa manovra quasi eversiva. Tuttavia sono pochi quelli che ritengono sia utile ripristinarlo così come era. Tanto più che nella sostanza è stato rispettato da ben pochi paesi, mentre la maggioranza ha fatto ricorso a stratagemmi e sotterfugi per rispettarlo formalmente e disattenderlo sostanzialmente.

Un rispetto solo formale

La sua definitiva uscita di scena rischia di disilludere quanti hanno creduto, in buona o in cattiva fede, che il Patto fosse il principale responsabile della scarsa crescita europea. Non accadrà naturalmente per coloro che scambieranno la prossima ripresa economica trainata dagli Usa, come il risultato dell’abbandono delle regole del Patto di stabilità nell’area dell’euro. Ma la crescita dell’Europa non potrà essere accelerata da una maggiore spesa pubblica, perché essa non ha reagito fin qui al pur importante aumento dei disavanzi pubblici.
Tra il 2001 e il 2003, Francia e Germania hanno accresciuto il loro disavanzo pubblico fino a superare il 4 per cento del Pil nel 2003, senza che ciò significasse una ripresa delle loro economie. L’Italia ha portato il disavanzo pubblico dal 2,6 per cento del Pil nel 2001 al 3,9 per cento nel 2002, fino al 4 per cento nel 2003, se si escludono le misure di carattere straordinario adottate, per un ammontare pari a quasi 40 miliardi di euro nei due anni (e vanno aggiunti oltre 13 miliardi di euro di misure straordinarie prospettate per il 2004).

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Questi provvedimenti straordinari sono serviti all’Italia per rispettare formalmente gli impegni del Patto di stabilità. Infatti, il disavanzo pubblico italiano è stato sempre inferiore al 3 per cento del Pil sia nel 2002 (2,3 per cento), sia nel 2003 (2,5 per cento), sia nelle previsioni per il 2004 (2,2 per cento).
Tuttavia, le misure straordinarie non hanno inciso sulla capacità di spesa interna né sul prelievo permanente, poiché si è trattato di cessioni patrimoniali, di cartolarizzazioni, di condoni vari, che hanno pescato più sul risparmio che sulla domanda di consumo delle famiglie o su quella di investimento delle imprese. In definitiva, il bilancio pubblico italiano ha giocato tra il 2001 e il 2003 una funzione espansiva, come giustamente reclamavano i nemici del Patto di stabilità, ma la crescita economica è stata pressoché nulla (0,3 per cento l’anno). Certo, nessuno può escludere che con incrementi del disavanzo pubblico ancora più massicci, non si sarebbe realizzata anche in Italia una maggiore crescita del Pil. In altre esperienze cicliche, però, era bastato molto meno per far crescere il nostro paese.

Perché l’Italia non cresce

Perché l’Italia non cresce? La debolezza della nostra economia deriva da un eccesso di specializzazione alle esportazioni in settori maturi e da una dinamica lenta della domanda. In queste condizioni, la ripresa italiana ha poco a che fare con la spesa pubblica, la cui crescita rischia di attivare piuttosto importazioni o di generare inflazione per le strozzature dell’offerta interna. Questa condizione di eccesso di dipendenza dalle esportazioni appare essere comune anche al Giappone e agli altri paesi dell’Europa continentale, che in questo momento stanno conoscendo una stagnazione produttiva.
Infatti, le aziende di questi paesi, per difendere le loro quote di mercato, sono costrette a delocalizzare molte produzioni e a inglobare nei propri prodotti molte parti costruite in paesi dai costi più competitivi: ciò che riduce l’effetto della crescita della domanda mondiale sulla produzione nazionale.
Queste tendenze sono irreversibili e sarebbe dannoso contrastarle con dazi e con limiti alle quote di importazione, perché si finirebbe solo per creare rendite e per abbassare la qualità e la competitività delle nostre produzioni. Testimoniano la crescita di molti mercati dei paesi in via di sviluppo che domani assorbiranno una maggiore quantità di beni e servizi.

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Ai paesi europei, che devono sopravvivere finché si svilupperà questa nuova domanda mondiale, non resta che puntare un po’ di più sulla domanda interna, favorendo la riduzione delle barriere tra Stati e costruendo realmente il mercato interno. Poiché la domanda interna è soprattutto domanda di servizi moderni (che a loro volta utilizzano beni manufatti ad alta tecnologia), appare urgente la liberalizzazione di molte attività di servizio (trasporti, professioni, istruzione, ricerca, cura delle persone, ecc.) e la costruzione delle infrastrutture relative (ferrovie, strade, porti, aeroporti, centri di ricerca, metropolitane, e così via).
Se il superamento del Patto di stabilità servirà a liberare alcune risorse per queste infrastrutture e servizi, allora potrà contribuire alla crescita dell’economia. Se invece verrà utilizzato per un rigonfiamento della spesa pubblica o per una riduzione dell’imposizione senza altra qualificazione, temo che saremo molto delusi e rimpiangeremo il vecchio Patto di stabilità.

 

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