L’impatto delle riforme previdenziali degli anni Novanta è analizzato attraverso proiezioni aleatorie e focalizzate principalmente sulla riduzione del tasso di sostituzione del primo pilastro. Mentre il futuro previdenziale dei lavoratori dipenderà dall’andamento del Pil italiano e dai rendimenti dei fondi pensione integrativi. E se gran parte del reddito è investito in Italia nel primo pilastro, il principio della diversificazione suggerisce che per il secondo sarebbe meglio pensare a investimenti sui mercati esteri.

Le riforme degli anni Novanta hanno posto le basi per la creazione di un sistema pensionistico per le nuove generazioni radicalmente diverso da quello in vigore. Tuttavia, il dibattito attuale appare focalizzato su misure correttive del vecchio sistema, senza una riflessione più ampia sul nuovo modello di previdenza, che si avrebbe con la riforma Dini a regime, con un secondo pilastro, imperniato sull’investimento, magari obbligatorio, del Tfr in fondi pensione complementari.

Proiezioni aleatorie

Una delle caratteristiche più importanti di questo nuovo sistema pensionistico è indubbiamente il trasferimento dallo Stato all’individuo di una parte sostanziale del rischio derivante dall’andamento di variabili aggregate.
Nel primo pilastro del nuovo sistema, il tasso di accumulo dipende dall’andamento del Pil e il tasso di conversione dipende dall’andamento della mortalità.
Nel secondo pilastro, invece, in assenza di garanzie assicurative o finanziarie, il tasso di accumulo dipende in ultima analisi dall’andamento dei mercati e dalle scelte di investimento dei fondi pensione, mentre il tasso di conversione dipende dalla speranza di vita futura e dal livello di rischio che gli assicuratori saranno disposti ad accollarsi.
Tuttavia, la maggior parte delle proiezioni finora divulgate sull’impatto delle riforme degli anni Novanta si concentrano unicamente sulla riduzione del tasso di sostituzione del primo pilastro, e sulla
necessità di ovviare a essa attraverso l’investimento nei fondi pensione.
Un aspetto importante che rischia invece di essere dimenticato riguarda l’aleatorietà delle proiezioni, che dipendono in misura cruciale da ipotesi sull’andamento di variabili macroeconomiche (Pil) e finanziarie (rendimenti dei fondi pensione).
Riportiamo qui di seguito i risultati di un esercizio di simulazione che si propone di illustrare graficamente il grado di incertezza associato alla previdenza per le generazioni future. Una discussione completa su questi temi può essere trovata in un recente technical report di Watson Wyatt. (1)

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Il tasso di sostituzione

Il primo grafico mostra la distribuzione del tasso di sostituzione della previdenza pubblica con il metodo contributivo, in funzione dell’incertezza legata all’andamento del Pil e tenendo in considerazione la revisione dei coefficienti di conversione in rendita. Nel 90 per cento dei casi, il rapporto tra pensione e ultimo salario si colloca, con 40 anni di contributi, tra il 63 per cento e l’81 per cento, con una media di poco superiore al 70 per cento.
In altre parole, coorti particolarmente sfortunate, che si troveranno a vivere decenni di crisi per l’economia italiana, potrebbero ricevere una pensione di poco superiore al
60 per cento del loro ultimo stipendio, mentre chi vivrà gli anni del nuovo miracolo italiano potrebbe riceverne oltre l’80 per cento.

Nel secondo grafico, si mostra invece il grado di incertezza associato alla pensione di secondo pilastro. Con 35 anni di contributi a un fondo integrativo, il tasso di sostituzione, date ipotesi sui rendimenti coerenti con l’evoluzione dei mercati negli ultimi cento anni, e nonostante una strategia di investimenti abbastanza prudente (70 per cento in obbligazioni), risulta essere comunque soggetto a un alto margine di incertezza. Si va infatti dal 10 per cento, per chi vivrà in periodi di tassi di interesse bassi e mercati azionari stagnanti, a quasi il 40 per cento, per i fortunati che vivranno in periodi di boom dei mercati, simili agli anni Ottanta e Novanta, con una media intorno al 20 per cento.
Le proiezioni riportate si basano sui coefficienti di conversione utilizzati per la popolazione femminile, mentre per un uomo questi numeri andrebbero rivisti leggermente al rialzo, poiché gli assicuratori offrirebbero una rendita un po’ più elevata, data la speranza di vita più bassa.


 



Perché investire solo in Italia?

In conclusione, il futuro previdenziale dei giovani dipenderà in misura sostanziale dall’andamento dell’economia italiana e dai rendimenti dei fondi pensione integrativi.
Non sarebbe forse il caso allora di considerare questo dato di fatto esplicitamente nella pianificazione finanziaria individuale? La teoria di portafoglio si fonda sul principio della diversificazione. Pertanto, poiché una gran parte del reddito (33 per cento all’anno) è investito nell’economia italiana attraverso il primo pilastro, non bisognerebbe forse investire il resto principalmente all’estero e in mercati le cui dinamiche siano
poco correlate con l’andamento dell’economia italiana? Queste considerazioni ovviamente valgono per i lavoratori dipendenti, mentre per i collaboratori continuativi e per i lavoratori autonomi il ragionamento potrebbe essere parzialmente diverso.
Non mi sembra tuttavia che queste considerazioni siano all’ordine del giorno nel dibattito odierno
sugli investimenti della previdenza integrativa.

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(1) Mirko Cardinale, Pensioni investimento finanziario e rischio, Watson Wyatt Technical Report 2003-RU05, ottobre 2003. Una copia può essere richiesta gratuitamente, scrivendo a mirko.cardinale@eu.watsonwyatt.com

 

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