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La strada dei prestiti contributivi

I problemi del sistema previdenziale italiano non saranno risolti dall’intervento proposto dal Governo. È invece possibile seguire una strada diversa, in grado di affrontare due questioni cruciali: completare il processo avviato negli anni Novanta e ridare coerenza all’intero sistema, dopo le riforme del mercato del lavoro. Senza intaccare l’impianto contributivo, se ne potrebbe sfruttare la flessibilità. Ad esempio, per continuare a garantire la possibilità di anticipare la pensione o per integrare la storia contributiva di lavoratori con carriere discontinue.

I limiti dell’intervento sulla spesa previdenziale proposto dal Governo sono ormai a tutti noti.
Primo, le tendenze demografiche sono lente, ma ineluttabili e possono essere contrastate solo se sono affrontate ben prima che si manifestino con forza. Rinviare la questione al 2008 significa semplicemente non avere intenzione di affrontarla e lasciarla ad altri.
Secondo, limitarsi a innalzare, dalla sera alla mattina, l’età contributiva e, per i più giovani, l’età anagrafica di pensionamento significa costruire un sistema ibrido, privo della flessibilità del contributivo e, simultaneamente, della definizione ex ante della prestazione del retributivo.
Terzo, in questo sistema privo di una logica trasparente si annideranno, all’italiana, privilegi e iniquità di ogni sorta. Basterà un nonnulla per garantire a individui sotto ogni profilo identici, rendimenti del risparmio previdenziale significativamente diversi.
Quarto, non vi è elemento della riforma proposta che lasci trasparire una qualche capacità di guardare alle connessioni fra mercato del lavoro e istituti dello stato sociale.

La realtà è che non si intendeva rispondere ai problemi del nostro sistema previdenziale ma, molto più semplicemente, solo scambiare in sede europea la promessa di un aumento dell’età pensionabile con una manovra finanziaria incentrata, ancora una volta, sui condoni. Quelli fatti e, come vediamo in questi giorni, quelli da fare.

Un processo da completare

Eppure, una strada diversa era ed è tuttora possibile, se solo si partisse da due osservazioni. Primo, le tendenze demografiche in atto mettono e metteranno alla prova, innegabilmente, un sistema previdenziale come quello italiano che è stato oggetto di riforme anche coraggiose, ma visibilmente incomplete e di troppo lenta applicazione. Secondo, le riforme del mercato del lavoro avviate successivamente alla riforma Dini, hanno rivelato l’inadeguatezza di alcuni aspetti del nostro sistema previdenziale e hanno quindi determinato la necessità di interventi in grado di restituire una coerenza di fondo alle nostre “istituzioni sociali”.
A partire da queste affermazioni si sarebbe potuto costruire una ipotesi di intervento capace di completare il processo riformatore avviato negli anni Novanta (difendendo il principio contributivo, mantenendo ferma la libertà di scelta dell’età di pensionamento, garantendo l’adeguatezza dei trattamenti) e, contestualmente, di riallocare la spesa tanto all’interno del comparto della protezione sociale quanto all’interno di quello della previdenza (garantendo trattamenti adeguati ai lavoratori discontinui e sviluppando le funzioni assistenziali e gli ammortizzatori sociali).

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Non mancheranno le occasioni per definire i dettagli di una ipotesi di riforma complessiva in questa direzione, che peraltro non è difficile immaginare. Qui si vuole solo suggerire che un cambiamento di ottica può essere di aiuto nell’affrontare e, sperabilmente, risolvere alcune delle questioni più delicate sul tappeto.

Storie contributive diverse

Ad esempio, è forse possibile trovare un elemento comune fra tre situazioni apparentemente molto diverse: il pensionando di anzianità che, per i motivi più diversi e eccezion fatta per i cosiddetti lavori usuranti, si appresta a ricevere un trattamento previdenziale in eccesso rispetto alla sua storia contributiva; il lavoratore discontinuo il cui trattamento previdenziale rispecchierà negativamente le interruzioni più o meno frequenti della sua storia contributiva; il lavoratore dipendente a tempo indeterminato la cui storia lavorativa e contributiva può essere bruscamente interrotta in anticipo rispetto alle scadenze previdenziali.

In queste tre situazioni, l’elemento comune è rappresentato da un vuoto nella storia contributiva del singolo. Un vuoto che, nel primo caso, rende il trattamento previdenziale non attuarialmente equo e che nel secondo e nel terzo impedisce che si raggiungano livelli soddisfacenti dei trattamenti previdenziali. A questo problema, per ovvii motivi, non può rispondere il mercato. Può invece rispondere lo Stato prevedendo “prestiti contributivi” a tasso zero (e non superiori, comunque, a un numero dato di anni di contribuzione, per esempio cinque), in grado di consentire ai singoli di completare le proprie storie contributive dovendo solo provvedere durante il periodo di godimento del trattamento previdenziale alla restituzione del capitale. Il pensionando di anzianità potrebbe così godere di un trattamento previdenziale attuarialmente equo conservando il diritto di anticipare la data della sua uscita dal mercato del lavoro a fronte di una trattenuta (pari, approssimativamente, al 7-8 per cento) sul trattamento previdenziale che gli permetta di restituire il capitale anticipatogli dallo Stato. Il lavoratore discontinuo, così come il lavoratore dipendente in esubero, potrebbe integrare la propria storia contributiva con un volume di contributi che verrebbe rivalutato ai tassi previsti dal sistema contributivo e che quindi genererebbe incrementi dei trattamenti previdenziali prossimi al 9-10 per cento. Senza, dunque, intaccare l’impianto contributivo ma, al contrario, sfruttandone e ampliandone i margini di flessibilità, si porrebbe riparo ad alcune delle più evidenti difficoltà del sistema in vigore.

Il tasso di sostituzione

Un secondo caso in cui un cambiamento di ottica potrebbe aiutare ad affrontare il tema del completamento della riforma del nostro sistema previdenziale è dato dalla discussione sul tasso di sostituzione (e cioè sul rapporto fra pensione e ultima retribuzione).
Questa è oggi condotta facendo riferimento, solo ed esclusivamente, a una sola figura lavorativa: quella del lavoratore dipendente a tempo indeterminato. In questo caso, parlare di tasso di sostituzione ex ante (e cioè atteso al momento dell’entrata nel mercato del lavoro) o di tasso di sostituzione ex post (e cioè realizzato al momento dell’uscita dal mercato del lavoro) è, a parità di altre condizioni, la stessa cosa.

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Il nostro mercato del lavoro è però già caratterizzato da percorsi diversi, ognuno dei quali ha una sua probabilità di realizzarsi. Quel che conta è, dunque, il tasso di sostituzione atteso all’ingresso nel mercato del lavoro (e il suo grado di dispersione). Facendo riferimento, per semplicità, a solo due casi estremi, il tasso di sostituzione atteso del sistema pubblico obbligatorio è oggi la media ponderata di due percorsi la cui probabilità di verificarsi può essere approssimativamente fissata, rispettivamente, a due terzi (quella del lavoratore dipendente a tempo indeterminato) e un terzo (quella del lavoratore discontinuo). Questo tasso è oggi valutabile, facendo riferimento ad alcune situazioni standard, poco al di sotto del 55 per cento (ma con un elevato grado di dispersione).

Ebbene, non è difficile immaginare di poter mantenere inalterato questo tasso di copertura ma, al tempo stesso, azzerarne la varianza individuando un’aliquota contributiva intermedia per l’intero sistema (compresa, presumibilmente, fra il 25 ed il 27 per cento a seconda della definizione della base imponibile) e riducendo così sensibilmente, se non annullando, i differenziali contributivi che oggi determinano gravi distorsioni nel mercato del lavoro (e facendo ricorso ai “prestiti contributivi” di cui sopra).
Si favorirebbe così l’unificazione del mercato del lavoro e si ridurrebbe il rischio di percorsi lavorativi non in grado di garantire trattamenti previdenziali sufficienti.
Naturalmente, si aprirebbero maggiori spazi per l’utilizzo del trattamento di fine rapporto (previa una completa defiscalizzazione del risparmio a fini previdenziali), il che potrebbe ragionevolmente portare il tasso di sostituzione di alcune figure lavorative anche a sfiorare il 75 per cento, fermo restando però che non vi sarebbero percorsi lavorativi in grado di far scendere il tasso al di sotto del 50-55 per cento.

 

 

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Sommario 4 dicembre 2003

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Sciopero virtuale, una scelta di civiltà

  1. Carlo Clericetti

    Nel dibattito in corso sulle ennesime modifiche al sistema previdenziale c’è un grande assente: l’ormai vasta categoria di lavoratori a termine, precari, saltuari, che avrebbero – se versassero continuativamente i contributi – una pensione pari a circa il 37% dell’ultimo reddito.
    Alcuni stanno formulando delle proposte, come, su La Voce, Nicola Rossi (La strada dei prestiti contributivi), che – giustamente – entrano nel merito della riforma della previdenza, ma che, dato l’attuale contesto politico, proprio per questo hanno poche probabilità di essere accolte nel breve termine. In attesa di provvedimenti strutturali si potrebbe fare qualcosa che non graverebbe sulla finanza pubblica e darebbe però a questi lavoratori un’opportunità per un miglior futuro previdenziale. Si potrebbe cioè dar vita ad un meccanismo di previdenza complementare volontaria che, pur utilizzando strumenti di mercato, sia senza costi per i beneficiari, in modo da massimizzare l’accumulazione, e offra nel contempo le massime garanzie possibili.

    L’idea è quella di istituire “conti individuali previdenziali” (Cip), che potrebbero essere gestiti dalle banche e dalle Poste. Il lavoratore versa sul suo conto quello che vuole e quando vuole, ma i soldi versati non possono più essere ritirati. Ogni fine mese, se il saldo ha raggiunto almeno 250 euro, i soldi vengono automaticamente investiti in specifici titoli di Stato emessi appositamente. Questi titoli (se si vuole trovare un nome, potrebbe essere CTP: certificati del Tesoro previdenziali) dovrebbero prevedere il rimborso del capitale solo al momento del decesso dell’interessato e dovrebbero essere ad indicizzazione reale; più precisamente, l’indicizzazione dovrebbe essere al Pil, con lo stesso meccanismo della rivalutazione dei contributi della previdenza obbligatoria. La cedola, naturalmente, non viene pagata ma si capitalizza anno per anno, fino al raggiungimento dell’età della pensione di vecchiaia.
    Da quel momento la cedola comincia invece ad essere pagata al titolare del Cip e costituisce dunque l’integrazione della pensione pubblica. Il capitale maturato non può essere intaccato – visto che deve garantire la rendita – ma è naturalmente di proprietà del titolare e alla sua morte viene quindi riscosso dai suoi eredi.
    Se il titolare non ha eredi o non vuole lasciare eredità, può chiedere di eseguire un’operazione di coupon stripping: continuerà a riscuotere le cedole finché vive, ma può vendere in tutto o in parte il “mantello”, che si trasforma per l’acquirente in un titolo senza pagamento di cedola riscuotibile alla morte del proprietario, con un meccanismo simile a quello dell’acquisto della “nuda proprietà” degli immobili.
    Ci sono alcune condizioni collaterali indispensabili al buon funzionamento del meccanismo.
    Lo Stato non deve tassare in nessun modo durante la fase di accumulazione, come non sono tassate le somme che vengono investire in titoli di Stato e come non sono tassati i contributi della previdenza obbligatoria. E’ vero che in questo caso si tratta di complementare, ma se si è sbagliato sui Fondi pensione non c’è nessun obbligo di perseverare nell’errore. L’armonizzazione andrebbe fatta, ma nel senso di detassare anche l’accumulazione dei Fondi. Si può obiettare che, in mancanza di ciò, ci sarebbe un effetto di “spiazzamento” nei confronti di questi ultimi. Vero, ma solo per quelli aperti, essendo quelli contrattuali praticamente obbligatori. Piangerebbero solo i gestori finanziari dei Fondi aperti, cosa di cui il Paese potrebbe farsi facilmente una ragione. E si aprirebbe forse la strada a una revisione dell’imposizione sui Fondi. Il privilegio fiscale sarebbe giustificato dalla finalità e dall’indisponibilità di questo risparmio.
    La tassazione sarà applicata nel momento del godimento. Quando il titolare riscuoterà la rendita, questa sarà tassata al 12,5%, come le cedole dei titoli di Stato; pure al 12,5% dovrà essere tassata la differenza reale tra contributi versati e capitale maturato al momento del realizzo del capitale. E’ un trattamento simile, ma meno favorevole, a quello di un qualsiasi investitore in titoli di Stato, che però non ha vincoli di sorta.
    Sui Cip non dovrà gravare nessuna spesa, né per i versamenti, né per l’amministrazione del conto: la remunerazione per gli intermediari sarà costituita dalla gestione delle giacenze di liquidità finché non si raggiungono i 250 euro dell’investimento automatico.
    Anche l’investimento dovrà essere senza spese per il sottoscrittore, come del resto avviene oggi quando si acquistano titoli pubblici in asta e non sul mercato. Anche questo, dunque, non è un “privilegio” che costa alla finanza pubblica.
    Un meccanismo del genere assicura al titolare del conto un rendimento migliore di quello del Tfr e altrettanto sicuro. Anzi, più sicuro, perché come è noto se l’inflazione supera il 5% il rendimento reale del Tfr diventa negativo.
    Dal punto di vista della finanza pubblica c’è una perfetta neutralità, perché quella parte aggiuntiva di debito pubblico aumenta esattamente allo stesso tasso del Pil. Se poi la massa dei CTP dovesse diventare rilevante, avrebbe anzi positivi effetti di stabilizzazione del debito pubblico. Oggi viviamo un periodo di tassi finanziari storicamente bassi, ma titoli a lunghissimo termine remunerati al Pil costituirebbero certamente, nel lungo periodo, un risparmio per il Tesoro.
    Dal punto di vista del titolare del Cip i vantaggi sono evidenti. Non esiste sul mercato uno strumento analogo con pari garanzie di rendimento, anche per l’assenza di spese di amministrazione e gestione. Inoltre la “portabilità” è perfetta: è assolutamente irrilevante il tipo di lavoro che si fa, se si cambia lavoro o persino se si versa senza lavorare. L’unico limite è l’indisponibilità delle somme una volta che siano state versate, ma ciò è indispensabile perché è rarissimo che si riesca ad evitare di utilizzare, nel corso della vita, un capitale accumulato che si avesse la libertà di riscuotere.
    Un solo utilizzo extra-previdenziale potrebbe essere consentito per le somme accumulate nei Cip. Dato che per chi non ha un reddito fisso dimostrabile è quasi impossibile ottenere un mutuo da una banca, si potrebbe permettere che il Cip sia usato come garanzia a fronte della concessione di un mutuo per l’acquisto della prima casa. Si contribuirebbe in questo modo ad alleviare un altro non piccolo problema dei lavoratori precari.
    Ci si può chiedere perché l’impiego delle somme raccolte dai Cip debba essere limitato a quel tipo di titoli pubblici. La risposta è che si vuole offrire una garanzia di capitale e di rendimento senza doverne pagare il costo di mercato. Allo stesso tempo, però, questa garanzia non è un costo per la finanza pubblica, per la quale anzi, come si è detto, lo strumento dovrebbe essere vantaggioso. Resta naturalmente il rischio di default dello Stato, ma si tratta di un rischio statisticamente meno frequente e meno probabile delle crisi dei mercati finanziari a cui sono esposti i sottoscrittori dei Fondi pensione.
    Questo tipo di strumento dovrebbe essere aperto a tutti coloro che volessero avvalersene. Per inciso, costutirebbe un’alternativa molto migliore del versamento nei Fondi pensione per il Tfr. Di fatto, è difficile pensare che vi ricorra chi già versa pesanti contributi obbligatori più altri contributi per i Fondi contrattuali, cioè i lavoratori dipendenti. E’ presumibile dunque che verrebbe sfruttato da tutta l’area del lavoro autonomo. Anche dalla parte “non bisognosa”, certo: ma bisogna considerare innanzitutto che quella si avvia ormai a diventare una minoranza, e in secondo luogo che il meccanismo non concede nessun beneficio maggiore di quelli di cui già fuisce chi investe in titoli di Stato.

  2. Riccardo Mariani

    E’ giusto affiancare alle preoccupazioni intorno alla stabilità del nostro sistema pensionistico quelle relative alla sua equità. In un’ ottica individualista il sistema fondandosi su un accordo intergenerazionale, cioè su un contratto con persone che ancora non esistono, genera diritti che sono una finzione. Forse è questo sacrificio a priori dell’ equità che crea problemi a chi segue questo approccio. Tuttavia esiste la possibilità di attenure la finzione previdenziale.
    In un brillante articolo di CASTELLINI/FORNERO comparso sul sito si ammetteva la ragionevolezza di separare nei conti dell’ INPS la parte assicurativa da quella assistenziale sostenendo come tale operazione sia insidiosa se realizzata all’ interno di una gestione a ripartizione. Il metodo contributivo avrebbe, tra gli altri, il pregio di rendere tale separazione più credibile.
    La separazione offre due vantaggi: 1) consente di isolare la parte assicurativa in vista di una futura privatizzazione, 2) consente di isolare i soggetti che necessitano di interventi redistributivi affinchè non godano di trattamenti particolari ma siano sottoposti ad una futura norma generale (quindi più equa) in tema di povertà (per esempio un’ imposta negativa o un reddito di cittadinanza ecc.).
    Il presito contributivo mi sembra un meccanismo ingegnoso che, però, introduce elementi redistributivi caratteristici solo di alcune categorie sottraendole ad un’ auspicabile norma generale in tema di povertà e pregiudicando l’ equità dei trattamenti in questo campo (tutti i poveri sono uguali).
    Cordiali saluti.

    • La redazione

      Il prestito contributivo non è una misura assistenziale ma mira, semplicemente, a consentire che vengano accumulate risorse contributive coerenti con trattamenti pensionistici dignitosi. Se non vi fossero gli ostacoli che conosciamo, provvederebbero i mercati finanziari. Ma se questi non lo fanno vi sono forse motivi, in termini di efficienza e non di equità, perchè lo faccia lo Stato.

      Grazie
      NR

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