Levidenza empirica dimostra un grave ritardo dellItalia nella ricerca scientifico-tecnologica. Perché il sistema non riesce a generare i giusti incentivi e investimenti. La nascita dellIstituto di tecnologia potrebbe perciò avviare un benefico processo di competizione con i centri di eccellenza già presenti nel nostro Paese. A patto che, sullesempio di altri Institutes of Technology di successo, sappia attrarre finanziamenti dai privati e sia gestito in modo autonomo da scienziati. La proposta di istituire l’Istituto italiano di tecnologia (Iit), con una dotazione di cinquanta milioni di euro per il primo anno e di cento milioni per i dieci successivi, gestito da scienziati come un istituto di ricerca autonomo, ha suscitato un acceso dibattito tra accademici e ricercatori. Larga parte dei ricercatori che svolgono la loro attività in Italia si sono schierati per migliorare, riformare, ma soprattutto valorizzare l’esistente (università e Cnr). Altri, tra cui vari ricercatori italiani all’estero, ritengono che sia più efficace proporre una “rottura” e uno schema nuovo come l’Iit. I punti chiave Primo, per la sua importanza economica e ricchezza, l’Italia ha un ritardo abissale nella ricerca scientifico-tecnologica, misurabile con una varietà di indicatori. Tale ritardo, già allarmante in precedenza, è peggiorato in modo sostanziale negli anni Novanta. Il problema, dunque, non è che l’Italia è economicamente inefficiente o poco avanzata, ma che il suo sistema di ricerca non genera i giusti incentivi, non stimola investimenti e non mobilita risorse. Università e Cnr che hanno gestito la grandissima parte della ricerca pubblica in Italia, non possono non esserne responsabili. Profondi cambiamenti sono dunque necessari. Secondo, l’Iit è una soluzione? Molte critiche al nuovo istituto derivano dal paragone con il Mit (Massachusetts Institute of Technology), istituzione avanzatissima rispetto alla ricerca italiana, che fa sembrare il progetto velleitario, altisonante e irrealistico. Anomalia italiana nella ricerca La Tavola 1 riporta alcuni indicatori di sviluppo economico e scientifico-tecnologico dell’Italia confrontati con quelli di altre tre economie: due paesi (Regno Unito e Francia) e uno stato (California), in un periodo a cavallo dell’anno 2000. Fonti:
Proprio per permettere di giudicare con maggiore cognizione di causa le due alternative, la mia riflessione cerca di definire meglio il contesto nel quale si svolge oggi la ricerca in Italia e quali cambiamenti potrebbero derivare dall’istituzione dell’Iit.
Qui vorrei invece analizzare le esperienze di altri “Institutes of Technology”: sono storie di successo, realizzate lontano da Boston e in condizioni economiche e “sociali” talvolta più problematiche. Concordo con quanto sostiene Daniele Checchi: l’Iit non può essere la sola soluzione ai problemi della ricerca italiana. Tuttavia, ritengo che, se realizzato con le caratteristiche di un vero “Institute of Technology”, possa essere un deciso passo nella giusta direzione: un modello riproducibile poi con fondi pubblici e privati, che propone una diversa gestione della ricerca.
European Commission: Third European Report on Science and Technology Indicators, 2003, http://www.cordis.lu/indicators/third_report.htm
OECD National Account Statistics, http://www.oecd.org/home
NSF data on scientist and engineer http://www.nsf.gov/home
Premi Nobel:
Come si vede dalle prime due colonne, per dimensione economica (Pil totale) e ricchezza (Pil pro capite), l’Italia è assolutamente paragonabile a queste economie. Viceversa, in tutti gli indicatori scientifico-tecnologici, l’Italia è da due a dieci volte meno sviluppata delle altre tre. L’Italia spende in ricerca un quarto delle risorse spese dalla California, occupa nella sua economia poco più di un terzo dei ricercatori occupati dalla Francia, ha meno di un quarto dei dottori di ricerca del Regno Unito. Ancora, l’Italia attrae un ottavo dei ricercatori stranieri rispetto al Regno Unito, brevetta meno della metà rispetto a Francia e Regno Unito, ha avuto un solo premio Nobel in medicina, fisica o chimica in venti anni contro gli otto del Regno Unito e i venticinque della California.
Altri dati, riportati nella relazione su scienza e tecnica della Commissione europea (1), sono altrettanto allarmanti.
L’Italia è l’unico paese Ue ad avere avuto una crescita negativa del numero di ricercatori tra il 1991 e il 1999. Nello stesso periodo la percentuale di laureati che ogni anno emigra all’estero è cresciuta dall’1 al 4 per cento e il numero di brevetti ottenuti in Usa è diminuito del 2,4 per cento ogni anno. In nessuno dei dati disponibili, né nei livelli né nelle tendenze, si vedono dunque risultati positivi nella gestione della ricerca.
Continuare a finanziare con soldi pubblici, mantenendo immutati schemi e meccanismi, un settore che non genera i giusti incentivi e che è addirittura peggiorato, non sembra la soluzione al problema della ricerca in Italia. Certamente la possibilità di una riforma radicale dell’università come propone Roberto Perotti sarebbe desiderabile, ma probabilmente molto difficile. La proposta sul tavolo è quella di istituire l’Iit e mi pare che sia una opportunità da non sprecare.
Non solo Mit
Mentre ancora sono da definire statuto e gestione, mi pare che sia indispensabile indicare alcune caratteristiche cruciali che l’Iit dovrebbe avere per essere un “buon primo passo”.
Primo, come gli altri “Institutes of Technology” di cui parlerò (Mit, CalTech, GeorgiaTech), deve essere gestito in modo indipendente da un managing director, che sia uno scienziato di gran prestigio e abbia doti gestionali. Secondo, la dotazione di fondi pubblici deve essere solo una piccola parte del bilancio dell’Istituto (per Mit, GeorgiaTech e CalTech è intorno al 20 per cento dell’intero budget). La parte più cospicua deve essere coperta con donazioni private, di imprese e fondazioni (detraibili dalle tasse) e soprattutto con collaborazioni e progetti di ricerca con privati.
Il Mit, per la sua fama internazionale, è stato finora il modello cui ispirarsi. È assolutamente velleitario aspettarsi che l’Iit diventi in dieci o venti anni come il Mit, che può rappresentare un modello per formula e gestione, ma non per i risultati nel medio periodo.
Esistono però vari altri Institutes of Technology, più recenti, che possono essere presi ad esempio. A partire da CalTech (California Institute of Technology) fondato nel 1921 in quella che era allora un’amena località di villeggiatura, Pasadena. Sempre gestito da famosi scienziati, CalTech è rimasto più piccolo per numero di studenti e budget rispetto al Mit; ancora oggi è focalizzato solo su fisica-ingegneria e chimica. Tuttavia, già nel 1934 un suo fisico ha scoperto l’antimateria e, sempre negli anni Trenta, vi è nata la biologia molecolare. Caltech è stato ed è un incredibile motore di ricerca e innovazione per la California.
Ancor più rilevante è l’esperienza di GeorgiaTech, fondata nel 1948 ad Atlanta, in una parte degli Stati Uniti, il Sud, ancora poco sviluppata e con seri problemi di accesso all’istruzione per i cittadini di colore. Georgiatech è nata con una dotazione pubblica ed è stata gestita da scienziati. Attualmente, Georgiatech ha una scuola di ingegneria tra le top ten in Usa e ha aiutato e promosso il boom tecnologico ed economico di Atlanta, ora una delle città più ricche degli Usa.
Sia in Georgia che in California, grazie a una salutare competizione, la presenza di questi istituti ha promosso la nascita di altri centri di ricerca eccellenti, privati e pubblici. In fondo, anche le attuali sedi eccellenti dell’università italiana (Milano, Torino, ma anche altre) potrebbero beneficiare dalla competizione con l’Iit.
(1) Invito i lettori a leggere quel testo, disponibile al website http://www.cordis.lu/indicators/third_report.htm
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Saverio Staffieri
Si possono condividere le proposte di prendere a modello realtà come Georgia Tech o altre ugualmente interessanti, ma si deve tener ben presente che nessuna architettura istituzionale può funzionare bene in tutte le situazioni e verso tutti gli individui. Ognuno reagisce alle regole imposte secondo la propria cultura.
L’unica cosa sensata da fare per rilanciare la ricerca italiana e lo sviluppo di applicazioni tecnologiche dalla stessa, è offrire ai gruppi di ricerca di valore già riconoscibile la possibilità di espandersi nella sede e secondo il modello che preferiscono.
Si devono chiedere loro solo dei risultati, nel rispetto di un programma di sviluppo negoziato tra ente pubblico finanziatore e struttura di ricerca. Sviluppo di spazi, personale, linee di ricerca complementari e buone pratiche.
E dove tutto già funziona bene, si deve solo pompare il denaro pubblico indispensabile a far crescere la struttura fino a farla diventare scuola e stimolo alla concorrenza per strutture analoghe.
Ce ne sono parecchie che funzionano bene anche all’interno degli attuali enti di ricerca pubblici, e spesso anche nelle università. Possono costituire la base per istituti più ampi sui più diversi modelli, tra quelli descritti nell’articolo.
Ricordo le scuole autonome di ricerca come SISSA e Sant’Anna, ma anche realtà come il Centro di Elettronica Quantistica e Strumentazione Elettronica del CNR, che pur non godendo dell’autonomia delle già citate istituzioni, e pur essendo da oltre trent’anni pienamente integrato nel Politecnico di Milano, produce eccellente ricerca e buoni brevetti vendibili. Ed attira, anche dal Sud dove vivo, frotte di studenti desiderosi di diventare ingegneri fisici e matematici.
Non è l’unico centro che produce ricerca molto buona, ce ne sono anche al Sud; talora sono semplici dipartimenti universitari in cui si sono applicate buone pratiche. Come quella di assumere sempre e solo i migliori, quelli che nei laboratori stranieri ci sono stati a lungo, ottenendovi buoni contratti e risultati. Certo, sono prevalentemente ex allievi della stessa università, ma come richiamare ragazzi di valore al Sud, date le basse paghe italiane nel settore ricerca, se non ci fossero mamme, fidanzate e amici a spingerli a tornare?
Cordiali saluti.