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Catturati dal codice Preda

Si chiama così il codice di condotta della Borsa italiana. La via dell’autoregolamentazione sembra infatti preferibile all’imposizione per legge delle regole di corporate governance delle banche. Tanto più che secondo studi recenti sono proprio questi meccanismi a determinare il giudizio sul valore degli istituti di credito, mentre l’assetto della vigilanza è del tutto irrilevante. Solo che in Italia le società che non adottano il codice non sono escluse dalla quotazione, come invece accade a Londra.

Il progetto di riforma delle Autorità proposto dal Governo si concentra, appunto, sulle Autorità, trascurando il sistema dei controlli a monte, cioè la corporate governance di banche e aziende.
Ma, così come autostrade sicure non garantiscono una bassa frequenza di incidenti quando le automobili corrono troppo veloci, anche nella tutela del risparmio sarebbe opportuno evitare che i guai accadano, prima ancora che chiedersi come intervenire quando sono avvenuti.

Corporate governance e valore di mercato

Un articolo recente (1), scritto da due economisti della Banca Mondiale e uno dell’università del Minnesota, giunge a un risultato sorprendente: l’assetto della vigilanza, i poteri e l’indipendenza di chi la esercita, sono pressoché irrilevanti. Ciò che davvero conta, almeno se usiamo come metro di paragone il valore di mercato delle banche, è la qualità dei meccanismi di corporate governance.
Gli effetti individuati da questo studio sono significativi: il valore di mercato di banche che operano in paesi nei quali gli interessi degli azionisti di minoranza sono ben tutelati può superare anche del 20 per cento il valore di mercato di una banca che opera in un paese nel quale invece espropriare gli azionisti di minoranza è relativamente più facile.
Anche la struttura proprietaria conta. Se la banca ha un azionista privato relativamente grande, e quindi con buoni incentivi a controllare che il management la gestisca in modo corretto ed efficiente, il valore di mercato può essere anche del 40 per cento più elevato.
Ma il fatto più sorprendente è che una volta tenuto conto della struttura proprietaria e del diritto societario, la qualità della vigilanza risulta irrilevante.
Come tutti i risultati scientifici, anche questo studio dovrà essere verificato. Tuttavia, già appare sufficientemente robusto: il campione considerato copre 42 paesi e 213 banche.

L’osservazione pratica che se ne può trarre è che forse, nelle riforme dei meccanismi di controllo, sarebbe bene porre un po’ più di attenzione alla governance delle banche. Ad esempio, sarebbe interessante capire quale sia l’effetto sul valore di mercato di una banca, della presenza, nel suo consiglio di amministrazione, di amministratori che sono piccoli azionisti, ma grandi clienti della banca stessa, secondo una tendenza che sta diffondendosi in Italia: da Capitalia, a Bnl, al Monte di Paschi di Siena. Di questo il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, aveva promesso si sarebbe occupato: nel disegno di legge che ha presentato per ora non ve ne è traccia.

Leggi e regolamenti

Ma forse è bene così. Infatti non è evidente che le regole di corporate governance debbano essere imposte per legge.
In Gran Bretagna e negli Stati Uniti esse sono lasciate alla moral suasion delle società private che gestiscono gli scambi in Borsa. Ad esempio, se una società non si adegua al codice di condotta previsto dallo Stock Exchange londinese, nulla di male, solo che viene invitata a quotarsi altrove.
La via dell’autoregolamentazione è, a mio avviso, preferibile.
Anche in Italia esiste un “codice Preda”, ma non risulta che le società che non lo adottano, ad esempio nel prevedere la presenza nel proprio consiglio di amministrazione di consiglieri indipendenti, con un regolamento che ne preveda autorità e compiti, siano state invitate a quotarsi altrove.
Sarà perché la nostra Società di Borsa è posseduta dalle banche, anziché dal mercato?

 

(1) “Governance and bank valuation” di Gerard Caprio, Luc Laeven e Ross Levine, NBER working paper no. 10158.

 

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  1. Riccardo Mariani

    Trovo sensata la proposta dell’articolo di spostare l’attenzione dalla vigilanza alla corporate governance per poi concentrarsi non tanto sul contenuto delle regole ma su chi le fa. E’, infatti, di buon senso sospettare che il politico/regolatore sia più interessato a togliere le questioni dall’ordine del giorno (per esempio istituendo un nuovo controllore) che ad affrontarle. Preferirei, però, che quella che viene definita “autoregolamentazione”, e che come tale è destinata ad un ruolo sussidiario, si trasformi in un mercato delle regole. Ma è possibile un mercato delle regole?

    Un mercato delle regole di corporate governance si realizza solo se tra le Borse esistono forme di competizione. Per andare oltre la moral suasion ho paura che l’ostacolo maggiore non sia tanto “chi” possieda la Società di Borsa quanto il fatto che si tratti di organismi no-profit, in tal caso, l’ utile verrebbe distribuito in natura tramite regole di favore (e quindi inaffidabili) per gli associati. Ma sarebbe mai accettata la Borsa come organismo profit?. Non esiste nemmeno negli USA. Eppure, dopo la bolla, diverse società sono migrate dal NASDAQ alla NYSE (e vicecersa ultimamente) a testimoniare una competizione possibile. A livello storico si è dimostrato che la SEC ha ereditato intatta la regolamentazione NYSE, una regolamentazione spontanea che preesisteva ed era giudicata buona (Mahoney, The exchange as regulator, Virginia Law Review 83 1997). Ma sopratutto la rivoluzione del trading elettronico, potenzialmente, ha smantellato la natura di monopolio che era propria dei mercati borsistici.

    A quanto pare che l’ innovazione smantelli i monopoli naturali abbattendo i costi di transazione conta poco se, nel frattempo, la regolamentazione, istituita per difenderci da quei monopoli, ha fatto nascere e consolidare una serie di interessi che si difende con i denti da ogni riforma. Il copione si ripete: ci si difende dal costo sociale dei monopoli sostenendo costi burocratici (ovvero di regolamentazione); poi, quand’ anche sopraggiunga quell’ innovazione che azzerando i primi rende superflui i secondi, le cose proseguono come se nulla fosse. La conclusione è che per sfruttare le sue idee l’ innovatore necessita, oltre che del suo genio, anche di una brillante carriera politica (aggiungo malignamente che una carriera politica vincente lo distrarrebbe consentendogli l’ accesso a ben altre rendite).

    Cordiali saluti.

  2. Giampaolo Gabbi

    L’intervento di Francesco Giavazzi dedicato all’autoregolamentazione introduce alcuni aspetti rilevanti nell’ambito dei controlli. Nel periodo attuale, caratterizzato da fenomeni di free-riding e di truffa ai danni degli attori dei mercati finanziari, la sua proposta potrebbe apparire provocatoria o ingenua.
    I vantaggi dell’autoregolamentazione sono:
    a) maggiore rapidità nell’implementazione;
    b) minore asimmetria informativa;
    c) inferiore propensione a comportamenti elusivi da parte dei controllati.
    Sostanzialmente, i benefici del club dove i soci concorrono direttamente alla definizione delle regole e sono i primi ad avere interesse nel loro rispetto. Un problema che si pone è che i soci non sono solo quelli fondatori che hanno partecipato alla stesura delle regole e i benefici del club possono attrarre nuovi partecipanti interessati ad una distribuzione non equa del valore accumulato in precedenza. Che il meccanismo di cooptazione possa ritenersi inadatto nel mercato azionario italiano è lo stesso Giavazzi a sottolinearlo. Con riferimento alla corporate governance bancaria, si possono poi individuare margini di miglioramento non indifferente in merito sia alla professionalità sia all’onorabilità degli amministratori. Un’ulteriore criticità è quella della posizione dominante. La Better Regulation Task Force che supporta l’azione dell’esecutivo britannico in materia di regolamentazione, pur proponendo un sistema basato sull’autoregolamentazione, riconosce come le imprese di maggiori dimensioni siano spesso in grado di influenzare il sistema di definizione delle regole del codice di condotta (captive self-regulation). Il dubbio è quindi che una grande impresa non finanziaria partecipi in modo minoritario al capitale di una banca per incrementare, a costi modesti, l’intensità delle asimmetrie informative, aspirando ad un processo di funding meno severo di quello di un soggetto non coinvolto nel controllo.
    Sebbene in teoria più efficiente, è improbabile che un sistema di autoregolamentazione funzioni in condizioni di mercato che non garantiscono un elevato grado di trasparenza e l’assenza di posizioni dominanti. Si rende quindi necessario una fase preliminare di co-regolamentazione, con un processo più severo di cooptazione degli attori che intendono svolgere un ruolo nei mercati o negli intermediari finanziari.
    Al fine di ridurre il legittimo sospetto che la relazione impresa-banca (e impresa-banca-mercato, come suggerisce Giavazzi) possa essere alimentata da interesse a ridurre costi e controlli per il prenditore di fondi, si potrebbe cercare un chinese wall per impedirne a priori l’erogazione di finanziamento. Ma forse ciò provocherebbe il crollo dell’interesse da parte degli azionisti privati a partecipare al controllo degli intermediari bancari?

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