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L’Ire funesta

Nel dibattito sulla nuova Ire si parla molto di sostenibilità finanziaria e del suo eventuale impulso alla crescita. Passano sotto silenzio invece gli effetti sulla distribuzione del reddito. L’Ire è un’imposta di natura proporzionale e non progressiva, com’è l’Irpef e come vorrebbe la Costituzione. Né il meccanismo delle detrazioni fiscali permette un sostanziale recupero di progressività. Sarebbe così la minoranza di contribuenti con i redditi più alti ad avere i maggiori benefici. Esattamente l’opposto di quanto accade negli altri paesi europei.

La Finanziaria varata dal Parlamento alla fine del 2003 aveva rinviato, per indisponibilità di risorse, la costosa trasformazione dell’Irpef in Ire, prevista dalla legge delega sulla riforma fiscale. Ora il progetto sembra di nuovo attuale.
Gran parte dei commenti si sta concentrando sulla sostenibilità finanziaria del taglio e sui suoi effetti sulla crescita economica, mentre quelli sulla distribuzione del reddito sembrano passare in secondo piano. Dalle cifre circolate (sei miliardi di euro) si deve ritenere che la riforma non sarà realizzata interamente (secondo le previsioni ufficiali, la perdita di gettito dell’intera riforma sarebbe di venti miliardi).
Vale la pena, comunque, riesaminare le implicazioni dell’intero progetto per la progressività dell’imposta e chiedersi se esso va nella direzione auspicabile di avvicinare la struttura dell’imposta sul reddito a quella dei maggiori paesi europei.

Ire contro Irpef

I parametri fondamentali di un’imposta sul reddito sono tre: aliquote, scaglioni e struttura delle detrazioni (ovvero delle deduzioni).
Se guardiamo solo ad aliquote e scaglioni, la distanza tra l’Irpef e la futura Ire è enorme. Infatti, l’Ire prevede due sole aliquote: il 23 per cento fino a 100mila euro e il 33 per cento oltre quella cifra. In realtà, per il 99,5 per cento dei contribuenti l’aliquota sarebbe una sola, visto che il loro reddito imponibile si colloca al di sotto dei 100mila euro. Invece l’Irpef ha cinque aliquote, con una distanza di oltre venti punti tra la più bassa (23 per cento) e la più alta (45 per cento), che scatta a partire da circa 70mila euro. Sotto il profilo delle aliquote, l’Ire è un’imposta di natura proporzionale, che andrebbe a sostituire un’imposta di natura progressiva.

A questo punto dovrebbero entrare in gioco le detrazioni fiscali, trasformate in deduzioni e destinate, in tutto o in parte, ad assicurare la progressività dell’Ire.
Il meccanismo è semplice, ed è stato già sperimentato con la recente sostituzione della “deduzione per la progressività” alle detrazioni da lavoro. Basta rendere le deduzioni interamente fruibili fino a un certo reddito e farle decrescere da lì in avanti, fino ad azzerarsi in corrispondenza di una determinata soglia. (1)
Tuttavia, è facile intuire che questo recupero di progressività potrebbe compensare solo in parte la sostanziale proporzionalità delle aliquote, a meno di non provocare una colossale perdita di gettito.

I difetti strutturali dell’Ire

Questa intuizione è confermata dai calcoli effettuati recentemente presso il Secit, basati su ipotesi che mirano a massimizzare il recupero di progressività attraverso le deduzioni, scontando una perdita di gettito in linea con le previsioni ufficiali (20 miliardi di euro). (2)
In particolare, tutte le detrazioni sarebbero trasformate in deduzioni, che si azzererebbero per i redditi superiori ai 40mila euro. Al di sopra di questa soglia, quindi, resterebbero interamente a carico del contribuente i carichi familiari, le spese sanitarie, gli interessi dei mutui e tutti gli altri oneri che attualmente vengono detratti dall’imposta per il 19 per cento del loro valore: si tratta chiaramente di un’ipotesi molto forte.
I risultati di questo esercizio mostrano che, nonostante tutti gli sforzi, l’incidenza percentuale dell’Ire sul reddito lordo resterebbe all’incirca costante intorno al 23 per cento per una fascia molto ampia di reddito, compresa tra i 40mila e i 100mila euro lordi. Oltre metà della riduzione di gettito andrebbe a beneficio della minoranza di contribuenti che ha redditi superiori ai 40mila euro (circa il 5 per cento), a cui la collettività “restituirebbe” più di 10 miliardi di euro all’anno. Di questi, ben 4 miliardi resterebbero nelle tasche di quello 0,5 per cento di contribuenti che gode di redditi superiori ai 100mila euro.

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Le cause tecniche dell’impatto regressivo così marcato dell’Ire sono quelle individuate già da tempo da Baldini e Bosi (3): il primo scaglione dell’imposta è troppo ampio e le aliquote sono troppo poche e soprattutto troppo basse per essere coerenti con ragionevoli obiettivi di redistribuzione del reddito.

La progressività e la Costituzione

Esistono vincoli giuridici alla volontà di un Governo di cambiare i connotati del nostro sistema fiscale. L’articolo 53 della Costituzione recita: “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
Anche se questo precetto non è riferibile a una singola imposta, è evidente che l’Irpef contribuisce più di tutte le altre a garantire una certa progressività, seppur lacunosa. Alla luce della tendenziale proporzionalità dell’Ire, la delega fiscale appare l’ennesimo tentativo di disapplicare il dettato costituzionale, invece di proporne a viso aperto la modifica.
Ovviamente, l’Irpef non è perfetta. Il reddito a cui si applica non è onnicomprensivo, e in particolare esclude i redditi di natura finanziaria, assoggettati a imposte di tipo proporzionale, mentre l’evasione diffusa crea iniquità di tipo orizzontale e di tipo verticale. Ma nel mondo reale, l'”ottimo” prescritto da alcuni filoni della scienza economica è quasi sempre irraggiungibile: l’obiettivo resta quello di non muoversi in direzione diametralmente opposta, come avverrebbe sostituendo l’Irpef con l’Ire.
Nel caso dell’evasione, il paradosso è ancora più evidente: l’iniquità che deriva dai comportamenti illeciti viene attribuita all’Irpef, come se fosse un suo aspetto strutturale e ineliminabile. Al tempo stesso, chi è responsabile della lotta all’evasione rinforza questi stessi comportamenti attraverso i condoni.

La progressività e l’Europa

L’Europa non sembra essere un modello per la riforma. Dando una rapida occhiata alle aliquote e agli scaglioni delle imposte sul reddito vigenti in alcuni grandi paesi europei, balza all’occhio la loro distanza rispetto alla logica riduzionista dell’Ire. (4)
In Inghilterra, a parte un’aliquota ridotta del 10 per cento sui redditi fino a circa 2.700 euro (1.920 sterline), l’aliquota di base è pari al 22 per cento fino a 42.500 euro (29.900 sterline). Oltre quel reddito, si paga il 40 per cento.
In Germania il sistema è complesso, ma si può sintetizzare approssimativamente così: per il singolo contribuente, esiste una no-tax area di 7.236 euro, al di sopra della quale vengono applicate aliquote marginali crescenti dal 20 al 48,5 per cento. L’aliquota massima si applica per intero sulla porzione di reddito che eccede 55mila euro.
In Francia il sistema dei coefficienti legati alla composizione della famiglia (“quotient familial”) produce un abbattimento degli imponibili, ai quali si applica comunque una scheda delle aliquote crescente. Delle sei aliquote previste, la più alta è pari al 49,58 per cento e scatta a partire da poco più di 47mila euro. Perfino nella Spagna fino a ieri governata dal conservatore Josè Maria Aznar, sono previste cinque aliquote crescenti, dal 15 al 45 per cento, applicato a partire dai 45mila euro.

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Come si vede, nessuno di questi grandi paesi si sogna di avere un’aliquota massima inferiore al 40 per cento, né un limite dell’ultimo scaglione superiore ai 55mila euro.
Molti pensano che uno dei problemi della Ue sia la difficoltà di armonizzare, dopo la politica monetaria, anche le politiche fiscali. Se la si giudica da questo punto di vista, l’Ire non si muove verso una convergenza con i sistemi tributari dei maggiori paesi, come sarebbe auspicabile: va nella direzione opposta.

(1) Per un lavoratore dipendente occupato per tutto l’anno, ad esempio, la “deduzione per la progressività” è attualmente pari a 7.500 euro. Essa è interamente fruibile fino a un reddito pari alla stessa cifra e in seguito decresce, fino ad azzerarsi per un reddito complessivo di 33.500 euro.

(2) Per una versione più estesa, vedi Di Nicola 2003.

(3) Nel sito http://www.capp.unimo.it/ è possibile trovare il saggio di Baldini e Bosi pubblicato in Politica Economica, n. 3 2002.

(4) Vedi International Bureau of Fiscal Documentation, “European Tax Handbook 2003”.

 

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  1. Riccardo Mariani

    Attenuare la progressività dell’ imposta sul reddito e puntare, in sede europea, sulla concorrenza fiscale anzichè sull’ armonizzazione, ben lungi dall’ essere “difetti di struttura” sono politiche tutto sommato coerenti per un governo sedicente liberale. Un piccolo segnale preoccupante è invece l’ importanza crescente che vengono ad assumere gli oneri deducibili ( e detraibili). A quanto ho capito avranno una doppia funzione, oltre ad essere considerati in quanto tali saranno rilevanti per il calcolo della “deduzione per la progressività”. In questo modo verrebbero acuite discriminazioni che non tutti ritengono giustificate ( per esempio, pensando ai fondi pensione, la discriminazione tra individui più o meno avversi al rischio). Ciò è deludente sopratutto perchè questa amplificazione del diverso trattamento è introdotta da una riforma che, riducendo la prograssività, indebolisce la discriminazione tra soggetti con redditi differenti.
    Cordiali saluti.

    • La redazione

      Il commento del lettore segnala giustamente che, trasformando tutte le detrazioni in “deduzioni per la progressività”, l’Ire non dipenderebbe solo dal reddito del contribuente, ma anche dalle sue spese detraibili, che in parte dipendono da scelte individuali.
      Ci sembra di capire che il lettore non approva che un cittadino che versa contributi volontari a un fondo pensione, e ha un reddito inferiore alla soglia di azzeramento delle deduzioni, abbia diritto a una riduzione di imposta (come accade oggi per tutti i livelli di reddito, attraverso il meccanismo delle detrazioni Irpef). La nostra preoccupazione è di natura opposta: usare le deduzioni per assicurare un minimo di progressività all’Ire, compensando un’aliquota praticamente uniforme, renderebbe impossibile riconoscere a tutti i contribuenti la natura meritoria di determinate spese da essi sostenute. Al di là delle inclinazioni dei soggetti, peraltro mutevoli nel tempo e non immuni da irrazionalità, il senso comune riconosce infatti che il risparmio pensionistico merita un incentivo – così come le spese sanitarie e quelle di istruzione, per esempio. Questo è quello che accade in tutti i paesi con fondi-pensione, e del resto, se non vi fosse l’agevolazione fiscale, perché un risparmiatore dovrebbe investire i suoi risparmi in un fondo-pensione invece che in un fondo d’investimento (dove ha una gamma di scelte molto maggiore)? Solo per “legarsi le mani”?
      Riguardo alla “discriminazione tra soggetti con redditi differenti” attuata dalla progressività, di cui il lettore auspica la riduzione, ci permettiamo di ricordare che essa ha un fondamento teorico antico (si pensi a “l’obolo della vedova”), che si può sintetizzare nell’espressione “utilità marginale decrescente del reddito”. Per fare un esempio, 1.000 euro aggiuntivi hanno un valore ben diverso per un lavoratore a basso salario che ne guadagna 9.000 all’anno rispetto a un ricco imprenditore che ne guadagna 90.000. Se quindi la collettività dovesse chiedere ai due soggetti di versare la stessa quota dei 1.000 euro, imporrebbe loro due sacrifici molto diversi. Trattare in modo uguale soggetti in condizioni disuguali è un’evidente ingiustizia, che solo il liberismo più astratto non riconosce.”

  2. Riccardo Mariani

    La difesa della prograssività non è così scontata. Se si usa l’ argomento dell’ utilità marginale del denaro decrescente allora bisognerebbe studiare delle detrazioni per i contribuenti particolarmente “avidi” che soffrono più degli altri il prelievo fiscale. A parte gli scherzi proprio oggi (14 aprile) leggo sul sole 24 ore un articolo (pag.8) in cui, rifacendosi allo studio di Gwartney, Lawson e Holcomb, si conclude come le politiche redistributive influenzino negativamente la creazione di ricchezza e come questo a lungo andare possa colpire anche i soggetti più svantaggiati. Oltretutto tali politiche si prestano ad abusi per cui la difesa dei poveri è solo un pretesto per avvantaggiare le classi medie. Se, invece, si difende la progressività usando l’ argomento aristotelico per cui i diversi (e siamo tutti diversi) devono essere trattati diversamente allora bisogna essere pronti a rinunciare al principio “la legge è uguale per tutti”. Mi rendo conto che tutto questo è un po’ “astratto” ma è inevitabile quando si discute.
    Cordiali saluti.

    • La redazione

      Il lavoro di Gwartney, Lawson e Holcombe citato dall’articolo di Petroni sul Sole 24 Ore meriterebbe certamente una lettura attenta, ma le sue conclusioni sembrano riferirsi ai possibili effetti sulla crescita economica della spesa pubblica aggregata, piuttosto che delle politiche redistributive (nel caso dell’Irpef, oltretutto, attuate attraverso le entrate pubbliche e non la spesa). In ogni caso, se ragioniamo in termini di distribuzione funzionale del reddito, l’esperienza italiana degli ultimi anni vede piuttosto la compresenza di una riduzione della quota dei redditi da lavoro dipendente e di un rallentamento del tasso di crescita dell’economia: di questo tema si occuperà il convegno “Distribuzione del reddito e crescita in Italia”, organizzato dalla rivista “Politica Economica” a Bologna il prossimo 4 giugno.
      Anche l’argomento sulla possibile strumentalizzazione della difesa dei poveri a vantaggio delle classi medie non si applica facilmente a un paese come il nostro, che non possiede alcuno strumento nazionale di contrasto della povertà, e anzi ha visto interrompere la sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento, sostituita dalla vaga promessa di un Reddito di Ultima Istanza (una bolla di sapone, come ha scritto Chiara Saraceno su questo sito).
      Sul piano dei “fondamenti”, va infine ricordato che un grande economista liberale come Lionel Robbins riteneva superflua da un punto di vista teorico l’ipotesi dell’utilità marginale cardinale (cioè misurabile e confrontabile), ma sottolineava che dal punto di vista della politica economica prescindere da questa ipotesi è “moralmente inaccettabile” (“An Essay on the Nature and Significance of Economic Science”, 1932).

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