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Sentirsi poveri

Al di là dei dati, che pure sembrano segnalare un abbassamento del tenore di vita medio, condizione oggettiva e percezione soggettiva di povertà non sempre coincidono. Vale soprattutto per i lavoratori a reddito fisso. Per loro diminuisce il potere di acquisto degli stipendi, ma anche la speranza di un miglioramento delle condizioni di vita per sé o per i propri figli. Tanto più quando la stessa laurea non è garanzia di mobilità sociale.

Siamo diventati più poveri o più disuguali? Più poveri o più insicuri?
Le spiegazioni della percezione diffusa di un peggioramento delle condizioni di vita, al di là delle strumentalizzazioni e enfatizzazioni che pure la alimentano, stanno nella risposta a queste domande.

I dati sulla povertà

Gli ultimi dati disponibili sulla diffusione della povertà sono relativi al 2002. Mostravano una situazione tendenzialmente ferma, con lievi segnali di diminuzione della povertà relativa, dovuta tuttavia a una compressione del livello medio dei consumi che aveva abbassato la soglia di riferimento. Stabile era invece la povertà assoluta.
In altri termini, i dati del 2002 possono essere interpretati come un abbassamento del tenore di vita medio, che però nasconde forti disuguaglianze.

La differenza, cioè, non è solo tra poveri e non poveri, ma tra coloro che hanno riserve, o flessibilità di reddito, sufficienti per fronteggiare oltre all’inflazione anche il mutamento dei propri bisogni (un figlio in arrivo, un figlio da mandare alle scuole superiori o all’università, un genitore che ha bisogno di assistenza, e così via), e coloro che viceversa non hanno né queste riserve né questa flessibilità.
L’indagine speciale dell’Istat sulla povertà a livello regionale effettuata sempre nel 2002 in coincidenza con quella annuale sui consumi (1), ha segnalato che oltre il 47 per cento delle famiglie italiane consuma tutto il proprio reddito.

Si tratta per lo più di persone sole anziane, di coppie con almeno tre figli, di coppie anziane e di famiglie monogenitore: non famiglie spendaccione che vivono al di sopra delle proprie possibilità, ma famiglie il cui bilancio è risicato rispetto ai bisogni.
Ciò è documentato anche dal fatto che la quota che non riesce a risparmiare, e talvolta è costretta a fare debiti, sale a una percentuale attorno all’80 per cento tra le famiglie che nel corso dell’anno hanno faticato ad acquistare il cibo necessario (il 3,6 per cento di tutte le famiglie), o a pagare l’affitto o le bollette o ancora le spese mediche (rispettivamente il 14 per cento, il 9 per cento e il 6 per cento di tutte le famiglie italiane).
Vale la pena di segnalare che sono proprio queste le famiglie sul cui bilancio incide di più un aumento dei prezzi, dell’inflazione, nettamente superiore alla media (2,4 per cento rispetto al 2003, 23,7 per cento dal 1995) di alcuni beni, pure essenziali: alimentari (4 per cento rispetto al 2003, 22,5 per cento dal 1995), abitazione, acqua, elettricità e combustibili (1,7 per cento rispetto al 2003, 28,4 per cento dal 1995), abbigliamento e calzature (2,5 per cento rispetto al 2003, 26,2 per cento dal 1995). (2)

Leggi anche:  La povertà, misura per misura*

Condizioni oggettive e percezioni

Sempre dalla indagine Istat del 2002 si rileva che condizione di povertà “oggettiva”, secondo indicatori economici, e percezione soggettiva della povertà non sempre coincidono: dipende dalle aspettative che ciascuno ha, dai confronti che ciascuno fa, o è in condizione di fare.
Questo può aiutare a capire meglio la percezione diffusa di impoverimento emersa in questi mesi.
Vi sono gruppi sociali, in particolare i lavoratori a reddito fisso i cui salari non sono aumentati in questi anni in proporzione alla inflazione effettiva, ma solo a quella programmata, che oggettivamente hanno visto diminuire il loro potere d’acquisto, quindi sono impoveriti relativamente alla propria situazione precedente, anche se non sono diventati tout court poveri.
E’ quanto emerge anche dall’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane relativa sempre al 2002, che mostra che le famiglie di impiegati e operai hanno perso potere d’acquisto.

Queste famiglie, oltre che dall’aumento del costo dei beni di prima necessità, possono essere particolarmente colpite dall’aumento del costo di quei beni e servizi “voluttuari” il cui consumo fa sentire che non sì è, appunto, poveri: un cinema, una pizza ogni tanto, un libro, un disco, un concerto. I prezzi di alberghi, ristoranti e pubblici esercizi sono aumentati del 3,5per cento rispetto a febbraio 2003 e del 34 per cento rispetto al 1995. L’aumento maggiore in assoluto nel periodo.
Gli stessi gruppi sociali vedono ridursi le speranze di miglioramento, per sé o per i propri figli, in una economia stagnante, in un mercato del lavoro profondamente modificato. La temporaneità dei contratti di lavoro non solo in ingresso, ma per periodi di tempo prolungato, produce incertezza rispetto al futuro a breve e medio termine, riduce l’orizzonte temporale dei progetti individuali e familiari, sovraccarica di attese la solidarietà familiare che è così sottoposta a tensioni e talvolta a conflitti redistributivi.

Istruzione e mobilità sociale

Da questo punto di vista i dati recenti della ricerca di Alma laurea sono significativi. (3) Tra il 2002 e il 2003 le opportunità dei neo-laureati sono lievemente peggiorate: ci sono meno occupati (54,9 per cento di contro a 56,9 per cento) e più disoccupati (24 per cento di contro a 20 per cento) a un anno dalla laurea.
È anche aumentata la quota di contratti temporanei, smentendo l’idea che la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro crei automaticamente più occupazione. Forse anche per questo possono contare su un reddito mensile di circa 50 euro più basso rispetto a quello guadagnato dai neo-laureati un anno prima: 969 invece di 1.015.
Per altro, tra gli occupati si nasconde, specie tra i laureati delle facoltà politico-sociali, una grossa quota di persone (circa il 25 per cento) che erano già occupate prima della laurea, di ex studenti che si sono mantenuti agli studi perché provenivano da famiglie a reddito modesto. Un percorso di mobilità sociale notevole, se si pensa che tre quarti dei laureati nel 2002 erano i primi in famiglia ad avere una laurea.
Si tratta tuttavia di una mobilità in parte fittizia: chi è occupato mantiene lo stesso lavoro e chi non lo è fatica a trovarne uno e allo stesso tempo non può permettersi di continuare la formazione; come accade invece a chi proviene da percorsi formativi diversi, ma soprattutto può contare sul sostegno economico della famiglia di origine.
Proprio quando si raggiunge la stessa meta, la disuguaglianza di origine sociale mostra tutto il suo peso determinante. Anche per questo ci si può sentire più poveri.

Leggi anche:  Una questione di opportunità: così la povertà nega il futuro ai bambini

 

(1) http://www.istat.it/Societ-/Integrazio/index.htm
(2) http://www.istat.it/Comunicati/In-calenda/Allegati/Economia/Prezzi-al-/comp022004.pdf
(3)
 http://www.almalaurea.it/universita/occupazione/occupazione02/presentazione.shtml

 

 

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E se i tassi fossero troppo bassi?

  1. Riccardo Mariani

    Non riesco a capire come una diminuzione della povertà relativa possa nascondere forti diseguaglianze. Sono confuso anche di fronte alla distinzione tra individui dotati di riserve e individui che ne sono sprovvisti. Parto dal presupposto che la povertà sia misurata in base ai redditi e che la differenza su come tali redditi siano impiegati (consumo o risparmio) attenga alle scelte individuali. Come dovrei intendere il fatto che alcune categorie di persone sono più esposte all’ inflazione di altre se l’ inflazione è già considerata nei dati ISTAT che concludono per una diminuzione della povertà relativa ? Se la povertà assoluta non è aumentata, se la misurazione della povertà tiene conto dei redditi reali, cosa indica il fatto che una famiglia povera ora tenda ad indebitarsi più di prima ? O l’ inflazione non è tenuta nel giusto conto o si tratta di scelte individuali. Una forte diseguaglianza nei redditi può essere preoccupante, molto meno, invece, una diversificazione nelle preferenze. Al di là del fatto scontato che chi ha redditi da “sopravvivenza” non sarà un forte risparmiatore, che rilevanza può avere il collegamento tra la questione della povertà a quello della scelta tra consumo e risparmio ?
    Cordiali saluti.

    • La redazione

      Sono un po’ confusa anch’io dalle sue osservazioni, che non mi è ben chiaro a che cosa si riferiscano. Ad ogni modo, che l’inflazione non colpisca nello stesso modo tutti i ceti è segnalato anche dall’articolo di Baldini uscito dopo il mio. Anche se complessivamente l’inflazione colpisce di più i più
      ricchi, perché hanno consumi più diversificati e sofisticati, l’aumento degli alimentari pesa di più su un bilancio risicato. E l’aumento del prezzo del biglietto del cinema può essere insostenibile per dei redditi modesti.
      Il tasso di inflazione è una media, ma le singole voci hanno un peso diverso sui bilanci individuali e familiari a seconda dell’entità di questi bilanci e dei bisogni. Aggiunga che a parità di inflazione, come mostrano i dati della Banca d’Italia, alcuni ceti sono stati in grado di mantenere il passo, in termini di reddito, altri invece no, ovvero i loro redditi sono aumentati
      meno dell’inflazione. Infine, non poter risparmiare, perché il proprio reddito è troppo basso, significa che non si hanno riserve in caso di bisogno.
      cordialmente, Saraceno

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