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Retribuzioni a crescita zero

I dati statistici confermano che nell’ultimo biennio le retribuzioni lorde nel settore privato sono cresciute meno dell’inflazione. Per quelle nette, ovvero la remunerazione che i lavoratori dipendenti possono effettivamente spendere, la stagnazione dura ancora da più tempo. E il confronto con la crescita dei redditi in termini reali negli altri paesi europei evidenzia un notevole divario. Il modello di relazioni industriali definito nel 1993 non può non risentirne.

Le ultime informazioni ufficiali disponibili sulle “retribuzioni di fatto” confermano la percezione diffusa fra molti lavoratori dipendenti di salari stagnanti o in calo.
I dati indicano che nel biennio 2002-03, i dipendenti del settore privato hanno effettivamente subito una riduzione del potere di acquisto: le retribuzioni lorde, comunque le si misuri, crescono meno dell’inflazione. Quando poi si passa a guardare le retribuzioni nette, cioè quelle al netto dei contributi fiscali e contributivi, emerge che la stagnazione dei redditi da lavoro non si limita al recente biennio, ma è un fenomeno che viene da lontano.
Il modello di relazioni industriali definito nel 1992-93 non può non risentirne.

I numeri sulle retribuzioni lorde

Dopo un lungo periodo (1992-2001) in cui hanno avuto incrementi in termini reali modestissimi (poco più di 0,3 per cento all’anno) e di gran lunga inferiori alla crescita della produttività del lavoro, nell’ultimo biennio le retribuzioni lorde hanno subito addirittura un calo.
La tabella 1 confronta l’andamento delle variazioni annuali degli indicatori Istat sull’inflazione (l’indice Foi-Famiglie operai e impiegati e l’indice Nic- Nazionale intera collettività) e sulle retribuzioni lorde per unità di lavoro (contabilità nazionale e Oros).
Nel 2002 la variazione di entrambi gli indicatori retributivi risulta inferiore all’indice Nic e uguale al Foi.
Nel 2003 la dinamica delle retribuzioni risulta inferiore a quella dell’inflazione indipendentemente dall’ indice utilizzato per misurarla.
Se si guarda ai redditi netti la situazione risulta ancora più preoccupante.

I numeri sulle retribuzioni nette

La scarsità di informazione statistica sui redditi netti degli italiani non facilita il compito di chi vuole indagare su questo tema. Tra le poche informazioni disponibili, vi sono quelle raccolte dal 1996 dall’Ocse relative ai lavoratori dell’industria (solo operai).
I redditi netti rappresentano quella parte della remunerazione che i lavoratori dipendenti possono effettivamente spendere. Rispetto ai redditi lordi, quelli netti escludono i contributi sociali e fiscali e includono i sostegni alle famiglie (assegni familiari, eccetera).
I redditi netti, quindi, dipendendo dalla situazione familiare. I dati disponibili riguardano quattro diverse situazioni: un single senza figli, una coppia con due redditi senza figli, una coppia con due redditi con due figli, una coppia con un reddito e due figli.
In Italia, nel periodo 1996-2002, le variazioni medie dei redditi netti in termini reali (calcolate in parità di potere di acquisto-Ppa) sono uguali a zero per le due tipologie senza figli: i single senza figli e una coppia con due redditi senza figli. Nel caso di una coppia con due figlie due redditi, la variazione è stata pari a +4 per cento. Nel caso di due figli, ma un solo reddito, la variazione è stata +7 per cento.

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Se poi si passa a valutare la posizione relativa dell’Italia in confronto al resto d’Europa, emerge un divario impressionante.
Prendiamo, ad esempio, il single senza figli. Nel periodo tra 1996 e il 2002, in Italia, i redditi netti in termini reali non hanno subito alcun incremento, mentre nella UE a 15, l’aumento dei redditi è stato in media pari al 17 per cento. In particolare, in Francia, Olanda, Finlandia, Irlanda, Gran Bretagna ha superato il 20 per cento e in nessun paese è stato inferiore all’8 per cento. Differenziali analoghi emergono anche per le altre tipologie familiari. Come si può vedere dalla nota Eurostat.

Un problema all’ordine del giorno

In definitiva, anche il confronto con il resto d’Europa conferma la sensazione diffusa di “declino relativo” delle retribuzioni. E il fenomeno non sembra, limitato soltanto all’ultimo biennio, anche se si è certamente accentuato con la stagnazione economica. La moderazione salariale seguita all’accordo sulla politica dei redditi del luglio 1993 ha probabilmente giocato un ruolo.
La sostanziale e lunga stagnazione dei salari reali potrebbe anche contribuire a spiegare la notevole crescita occupazionale degli ultimi anni: avrebbe reso progressivamente più conveniente impiegare tecniche di produzione a maggiore intensità di lavoro.
In ogni caso, non si può più affermare che sia solo una questione di crescita economica, emerge anche un problema di redistribuzione dei redditi, con l’incremento della quota dei profitti sul reddito nazionale che dura da oltre un decennio, non bilanciato dalla crescita degli investimenti fissi.
Nel settore privato, la questione salariale è ormai all’ordine del giorno. Nei sindacati non si discute più se una riduzione del potere di acquisto dei salari o delle pensioni ci sia stata o meno, ma di quale sia la sua entità e di che cosa fare per garantire ai lavoratori, in futuro, un maggior reddito disponibile. Le ricette proposte sono molte, ma quale che sia la strada che i sindacati sceglieranno, implicherà una revisione dei meccanismi dell’accordo del luglio 1993 o la definizione di una vera e propria “nuova politica dei redditi”.

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E se i tassi fossero troppo bassi?

  1. Giovanni

    Se una lezione si volesse apprendere da questo articolo è proprio la necessità di disfarsi della politica dei redditi. Come tutte le misure di pianificazione economica produce infatti effetti opposti a quelli fissati e peggiorativi dello standard di vita di coloro che sono soggetti. Infatti l’articolo ben sottolinea che fissare il livello degli stipendi per legge:
    1. produce disoccupazione tutte le volte in cui quegli stipendi reali sono superiori alla loro produttività
    2. in alternativa premia il profitto perché trasferisce parte della produttività del lavoro agli imprenditori tutte le volte in cui l’incremento dei salari è inferiori a quello della loro produttività
    3. abbatte il potere d’acquisto dei lavoratori salariati perché l’indicizzazione dei salari è in primo luogo parametrata a indicatori che riflettono impropriamente la dinamica dei prezzi e inoltre non rispettano il loro contributo alla produzione
    4. ha effetti bizzarri perchè colpisce o premia categorie di individui per il solo fatto di aver un particolare comportamento riproduttivo oppure secondo il numero dei percettori di reddito di una famiglia

    Non ci vuole molto a capire che tutte questo misure sono cioè pesantemente discriminatorie e ingiuste soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli. Cioè lavoratori a reddito fisso, disoccupati, persone sole e senza famiglia e lavoratori più produttivi.
    Eppure si vuole perpetuare questo scempio immorale.

    • La redazione

      Non mi pare che dall’articolo si possano dedurre considerazioni generali sulla politica dei redditi (o addirittura sulla pianificazione) che secondo lei è all’origine di tutti i problemi. La politica dei redditi, tra l’altro, non fissa “per legge” le retribuzioni. Al massimo, nel contesto della contrattazione fra le parti sociali, cerca di limitarne le variazioni all’interno di alcuni valori: in genere, il limite superiore è la variazione della produttività. In questo senso i dati pubblicati possono essere un indizio che la politica dei redditi disegnata con gli accordi del luglio del ’93 non stia funzionando bene. La moderazione salariale da parte dei sindacati da un lato avrebbe dovuto garantire, non solo la tutela del potere di acquisto rispetto all’inflazione ma anche la redistribuzione dei guadagni di produttività. Dall’altro, avrebbe dovuto essere compensata da un aumento degli investimenti soprattutto in ricerca ed innovazione e consentire uno sviluppo di qualità del Paese. Purtroppo, da questo punto di vista, l’ultimo decennio ha rappresentato una grande occasione del tutto sprecata. Sull’ultimo punto da lei sollevato mi permetto di segnalarle che fa confusione: non è la politica dei redditi che premia o colpisce una o l’altra tipologia familiare ma bensì sono le politiche fiscali e sociali dei Governi che variando le aliquote fiscali o concedendo sostegni alle famiglie modificano i redditi lordi in redditi netti. La funzione di redistribuzione dello stato è essenziale e anzi, in Italia, non è particolarmente sviluppata: maggiori dovrebbe essere i contributi sociali in particolare a favore dei disoccupati e delle famiglie più povere.

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