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Perché le imprese non crescono?

Sei ragioni per cui l’impresa fatica a crescere in Italia. Tra queste, anche la scarsa proiezione multinazionale delle nostre imprese e aziende familiari poco orientate ad aprirsi al capitale esterno. Mentre i distretti subiscono l’attacco competitivo dei nuovi paesi concorrenti nella fascia medio-bassa dei prodotti. Senza dimenticare il ruolo dei fattori “ambientali”.

Le piccole dimensioni si accompagnano sistematicamente a fenomeni tra loro strettamente legati come: minore produttività per addetto, minore retribuzione per addetto (e conseguente minore attrattività per lavoratori con elevati gradi di istruzione e qualifiche), minori investimenti fissi per addetto, minori investimenti in formazione del proprio “capitale umano”, minori spese in ricerca, minori investimenti in rete distributiva e assistenza al cliente, minor capacità di affermare e coltivare marchi noti sul mercato, maggior dipendenza da canali indiretti per l’esportazione (e relativo minor “potere di mercato” quando i mercati si fanno fragili e/o fortemente competitivi), minor numero di mercati esteri serviti, minor polmone di risorse umane e organizzative per intraprendere investimenti diretti all’estero quando le opportunità di mercato lo esigerebbero.

E si aggiunga, come in questi giorni riemerge nel dibattito nato intorno alle annunciate strategie di Unicredito, che le piccole imprese sono particolarmente dipendenti dal credito bancario a breve con garanzie patrimoniali del titolare ed elevati costi d’interesse.

I motivi del “nanismo”

Ma perché il nostro paese è così condizionato da questo “nanismo” di imprese?
Ecco alcune risposte, peraltro non esaustive, su cui cerco di intrattenere il volonteroso lettore (se ci sarà!) del saggio che in questi giorni va in libreria per le edizioni del Mulino (Onida 2004).

Primo, troppe imprese familiari che rinunciano alla crescita con apporto di capitale di rischio esterno alla famiglia, per timore di perdere il controllo familiare-dinastico sulla gestione dell’impresa (pur potendo mantenere il controllo della maggioranza del capitale sociale) e –diciamo pure spesso – per timore di essere forzati ad una maggiore trasparenza dei bilanci, con maggiore separatezza fra bilancio di impresa e bilancio familiare (e non sto parlando di Parmalat, peraltro impresa forse troppo cresciuta).

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Secondo, i tanto decantati distretti industriali – certo un lato virtuoso della nostra storia economica del dopoguerra – per la particolare specializzazione merceologica e per il peculiare modello organizzativo che li caratterizza, sono in misura crescente sotto attacco competitivo dei nuovi paesi concorrenti nella fascia medio-bassa dei prodotti (quindi perdono occupati e fanno fatica a espandere il proprio volume d’affari).
Le imprese leader dei distretti intraprendono (giustamente) strategie di acquisizione e alleanze extra-distretto, anche all’estero, ma così facendo stimolano sempre meno la crescita del tipico indotto dei fornitori locali. Taluni distretti cominciano a pensare di “delocalizzarsi” a blocchi, ma questa è più una marcia lungo un “sentiero basso” che una proiezione in avanti.

Terzo, già detto (e lo ha sottolineato particolarmente il neo-presidente di Confindustria, Montezemolo), le nostre imprese scommettono troppo poco sulla ricerca e sull’innovazione originale come carta vincente per crescere e vincere sul mercato globale. Si preferisce fare molta (utilissima) innovazione incrementale sul processo e sui prodotti, piuttosto che tentare salti di qualità (e di dimensione) puntando sulla frontiera.

Quarto, quanto appena accennato a proposito dei distretti, vale per la generalità del nostro sistema produttivo: nella competizione internazionale siamo (sempre più negli ultimi venti anni) specializzati in settori e comparti tendenzialmente a crescita media o lenta della domanda mondiale, in settori con forte differenziazione dei prodotti, basse economie di scala e relativamente basso impiego di manodopera ad alto grado di istruzione e alte qualifiche, manodopera che infatti deve cercare lavoro nei servizi, nella finanza o presso le multinazionali estere operanti in Italia (per fortuna ancora operanti, ma da questo lato siamo in crescente concorrenza con altri paesi di destinazione).

Quinto, ma è più un effetto che una causa del “nanismo”, abbiamo un cronico ritardo come proiezione multinazionale delle nostre imprese: molti esportatori, ancora pochi investitori (anche se in numero crescente nel nostro “ceto medio” imprenditoriale su cui sono affidate molte sorti del futuro sviluppo del nostro paese.

I fattori ambientali

E infine giocano molti fattori “ambientali”, su cui pure non sono mancati i richiami di Montezemolo, e prima di lui del suo predecessore D’Amato e di molti altri (Isae 2003, Oecd 2003): un sistema bancario ancora troppo “localistico” e condiscendente al “multiaffidamento” che de-responsabilizza banca creditrice e impresa debitrice; un mercato finanziario poco aperto al sostegno robusto delle innovazioni rischiose; una borsa di scarso spessore ed elevata concentrazione su pochi titoli dinamici; un diritto amministrativo societario e fallimentare che (in attesa delle riforme recenti e prossime) resta largamente sfavorevole alla mobilità del capitale, alla contendibilità del controllo proprietario, alla difesa degli interessi delle minoranze, alla rapida conclusione dei processi di giustizia civile e amministrativa; un coacervo di interventi di politica industriale inclini a disperdere a pioggia risorse su molti piccoli soggetti (e su categorie dotate di forza lobbistica presso i governi) più che a stimolare lo sviluppo di medie e grandi imprese e di progetti fortemente innovativi; procedure di commesse pubbliche che favoriscono l’offerta di beni e servizi a basso prezzo, ma di dubbia qualità da parte di soggetti imprenditoriali piccoli e fragili; regimi di concessione di servizi locali non certo orientati a incoraggiare una maggiore contendibilità dei mercati.

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Per saperne di più

Bersani P.- Letta E., “Viaggio nell’economia italiana”, Donzelli, Roma 2004.

Onida F., “Se il piccolo non cresce. Piccole e medie imprese italiane in affanno”, Mulino, Bologna 2004.

Isae, “Priorità nazionali: dimensioni aziendali, competitività, regolamentazione”, Roma, giugno 2003Oecd, “The

Sources of Economic Growth in Oecd Countries”, Paris 2003

Signorini L.F. (a cura di), “Lo sviluppo locale. Un’indagine della Banca d’Italia sui distretti industriali”, Donzelli, Roma 2000

 

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  1. Luca Pieroni

    Chiarissima analisi sul nanismo, a cui mi permetto di aggiungere un fattore, mio avviso non irrilevante: la leva fiscale usata per il nostro paese.
    Il nostro paese si e’ sviluppato grazie anche alla scarsa attitudine a “fatturare” (diciamo cosi’), che ha consentito di sfruttare appieno tuttti i fattori domestici citati nell’articolo, ma anche un vantaggio competitivo, che guarda caso oggi lamentiamo agli altri (che le tasse le pagano, solo che hanno aliquote piu’ basse): noi le aliquote le abbassiamo (in gran parte ancora oggi) semplicemente imboscando gli utili.
    Sia chiaro, le aliquote non c’entrano: in Italia si evadeva il fisco anche prima della riforma del 73. E si fara’ ancora dopo l’abbattimento delle aliquote, tanto non c’e’ controllo vero, e si sistemano sempre le cose (o si condonano). E’ un fatto di tradizione.
    La crescita e l’esposizione internazionale non solo richiede piu’ trasparenza, ma piu’ complessita’: siccome anche il “nero” richiede una attenta gestione contabile, questa diventerebbe impegnativa e difficile da tenere occulta. Inoltre, il “rientro dal nero”, per quelle aziende che decidono di diventare regolari, e’ spesso un fatto traumatico sia dal punto di vista economico (la riduzione di una disponibilita’ finanziaria) sia gestionale (l’emergere drammatico di inefficienze operative e scelte sbagliate) sia decisionale (al netto dell’effetto fiscale le opportunita’ cambiano faccia).
    Inoltre l’effetto del “nero” non e’ localizzato ma produce un’onda: sulla Fiat, per fare un esempio, impatta la “gestione fiscale” (pulita o meno)dell’intera rete di concessionarie. Sulla moda, per farne un’altro, impatta la “politica fiscale” delle boutiques. E cosi’ via.
    A mio avviso, solo aziende che non operano in settori la cui filiera e’ pesantemente influenzata dalla “leva fiscale”, o che sono cosi’ recenti dal non avere uno storico sfruttamento di tale leva, hanno possibilita’ e qualita’ per una crescita ed una espansione stabile (ancorche’ piu’ lenta rispetto alle aspettative degli analisti).
    La defiscalizzazione delgi utili reinvestiti (con un controllo sui reinvestimenti) o anche semplicemente il differimento dell’imposta su tali utili (a modello di quanto avviene per le successioni), potrebbe essere una leva a supporto del “rientro dal nero” e a favore di una “crescita dimensionale”.
    O no ?

    • La redazione

      Condivido la tesi sul sommerso, che mi pare tuttavia legato più a condizioni dimensionali (i grandi possono evadere di meno) e forse territoriali che a caratteristiche settoriali in quanto tali.

  2. Salvatore Aloisio

    Trovo molto interessante la disamina effettuata sul problema del nanismo delle imprese italiane. Mi sembra che siano stati affrontati gli aspetti salineti del problema ma che non si sia discussa la capacità manageriale di chi dovrebbe far uscire dallo stato di nanismo le piccole e medie imprese nazionali. Provo a spiegarmi meglio. Dalla mia, pur breve esperienza nel mondo del lavoro, ho potuto osservare come la maggior parte della imprese lavori senza obiettivi ben definiti. Utilizza cioè un metodo di navigazione a vista che consente alla fine di brevi periodi, di pseudo pianificazione, di dire: ok è andata bene oppure no, non cisiamo. Il perchè di tutto ciò rimane spesso ignoto o affrontato in maniera non adeguata. In un periodo in cui si parla di certificazione di sistemi gestionali (riferimento ai vari schemi UNI EN ISO) ciò che viene maggiormente sviluppato all’interno delle aziende è la capacità, dove noi italiani eravamo maestri, di arrangiarsi e tirare avanti senza sapere dove si va a parare. Su un campione di circa 40 aziende con cui ho avuto a che fare, sbilanciandomi, posso dire che non più di cinque definivano in maniera chiara obiettivi, risorse a cui questi erano assegnati, mezzi a disposizione per raggiungerli e quant’altro era necessario per poter fare una analisi a posteriori sul perchè di eventuali discrepanze tra quanto pianificato e quanto ottenuto. A questo va aggiunto che ci troviamo in un particolare periodo di cambi generazionali fra padri e figli con culture aziendali completamente differenti. I primi con maggiori competenze tecniche che li hanno portati dal bordo macchina alla direzione aziendale, ma che per questioni culturali non hanno saputo vedere la propria azienda in un contesto di lungo periodo. I secondi non sanno neppure come la macchina sia fatta anche se hanno una cultura gestionale di base notevolmente migliore e una voglia di fare che però non è neppure paragonabile a quella di chi li ha preceduti. La morale è che negli ultimi anni si è consolidato un modo di fare impresa che ha dato i suoi frutti, ma che oggi ha portato a un calo di competitività nel mercato interno, oltre che globale, che è ovviamente inadeguato per poter difendere le posizioni nei confronti degli altri mercati. Provate a verificare quanti concretamente hanno investito in formazione negli ultimi dieci anni, fate lo stesso nell’ambito tecnologico della produzione e probabilmente scoprite che l’industria italiana realizza i propri prodotti come faceva il nonno e magari sugli stessi impianti. Credo che soprattutto per questo motivo i dati dei maggiori isituti europei dicono che le imprese italiane hanno perso competitività. E a mio modo di vedere il trend non può che continuare. Facciamo un’altra riflessione sul lato dell’innovazione intesa come ricerca finalizzata al miglioramento dei prodotti e delle tecnologie produttive. Partiamo da una triste constatazione: le piccole e medie imprese non sanno neppure cosa sia la ricerca mirata alla ingegnerizzazione dei prodotti e dei sistemi produttivi. Non ci pensano nemmeno a rivolgersi a chi questa ricerca sarebbe magari in grado di farla, in quanto nel modo italiano di fare impresa l’università non centra proprio nulla. Quando qualcuno dice che i fondi destinati a ricerca sono troppo pochi, qualcuno dovrebbe anche dire che in fondo in fondo tra università e impresa i legami sono ancora per nostra cultura troppo labili. In fondo a chi servirebbe questa ricerca in un sistema impresa che lavora come si faceva anni e anni fa? Permettemi di concretizzare il tutto con un fatto realmente accadutomi durante una riunione sull’andamento di alcuni indicatori utilizzati per monitorare un’impresa. Chiedo all’amministratore se erano stati fatti degli investimenti nell’ultimo anno ed egli mirisponde che con in fondi della Legge Tremonti erano stati investiti circa 400.000 €. Mi incuriosisco e lui lucidamente mi risponde:” Con una parte ho comprato una BMW X5 per mia moglie, sa il cane, i bimbi e la spesa occupano spazio. A mio figlio per la sua laurea e l’ingresso in azienda ho comprato una AUDI TT, visto che anche gli operai devono capire dai minimi dettagli chi c’è da questa parte della scrivania. Ma con la parte più rilevante ho acquistato un magazzino che affitterò, naturalmente in nero, visto che la mia pensione non sarà troppo elevata”. Forse chi leggerà queste righe non ci crederà ma, su un campione relativamente piccolo questo tipo di mentalità è fortemente diffusa e radicata. Quindi torno alla prima questione: ma le imprese sanno fare impresa?

  3. Renato Velli

    Gentile Prof. Onida,

    la Sua analisi sulle cause strutturali del nanismo industriale delle aziende italiane (soprattutto PMI) è ineccepibile e, come di consueto, riportata con estrema chiarezza.
    Vorrei porre l’attenzione anche sulla difficoltà di delega decisionale e operativa da parte di molti imprenditori, che spesso determina situazioni organizzative incongruenti, rallenta i processi di business e inibisce di fatto la crescita di molte PMI industriali.
    In un contributo pubblicato su Economia e Management, che mi permetto di segnalarLe (“Difficoltà di delega e potenzialità di crescita nelle PMI”, numero di Marzo-Aprile 2005), ho approfondito queste tematiche specifiche.
    Cordialmente e buon lavoro.

    Renato Velli

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