Un grande istituto bancario italiano si impegna a offrire finanziamenti a lungo termine senza garanzia agli imprenditori disposti ad aumentare il capitale delle loro imprese. Se il rischio di declino dell’economia italiana è dovuto anche alle piccole dimensioni delle aziende e alla loro struttura proprietaria cristallizzata nella famiglia del fondatore, questa ridefinizione dei rapporti fra banca e impresa può essere una prima risposta. Suffragata inoltre dalla teoria economica.

Il sistema italiano delle imprese è caratterizzato da una dimensione troppo piccola e da una specializzazione produttiva troppo tradizionale per sostenere la crescita di un’economia che fa parte del G7 e che dovrebbe, quindi, competere nei mercati internazionali con Germania e Francia anziché con Cina e Taiwan.
Le cause che stanno alla base di queste persistenti peculiarità negative del nostro apparato produttivo sono molteplici e alcune di esse hanno radici lontane.

L’importanza della famiglia

Nell’Italia del secondo dopoguerra, il capitalismo famigliare è stato dominante nella struttura proprietaria del fragile nucleo di grandi imprese private ed è stato determinante per il successo dei distretti industriali.

Le nuove regole della competizione economica, imposte dall’euro e dall’epocale innovazione statunitense nella “tecnologia dell’informazione e della comunicazione”, hanno però trasformato tale struttura proprietaria e il conseguente governo delle imprese in un freno al cambiamento e allo sviluppo. D’altro canto, l’insufficiente o mancata liberalizzazione dei mercati di moltissimi servizi “a rete” e l’arcaica organizzazione dei servizi professionali penalizzano da tempo la capacità competitiva delle nostre imprese nei mercati internazionali.
Negli anni Novanta, il sistema bancario è stato uno dei pochi settori dei servizi capace di realizzare una profonda trasformazione. Tuttavia, mezzo secolo di attività protetta e di improprie finalità pubblicistiche pesano ancora sul rapporto fra banche e imprese. Prova ne sia che le imprese italiane, grandi e piccole, denunciano tassi di indebitamento bancario (specie di breve termine) sul loro patrimonio che sono molto più elevati rispetto alle altre imprese dell’Europa continentale.
Il capitalismo famigliare e il peso eccessivo dell’indebitamento bancario sono due facce della stessa medaglia, in una miscela altamente inefficiente. Fra l’altro, la loro combinazione è uno dei principali ostacoli al salto dimensionale delle nostre piccole e medie imprese di successo; e da qui deriva la più distorsiva rigidità dell’economia italiana, quella nella struttura proprietaria delle imprese.
La rigidità del capitale pesa negativamente sull’organizzazione e sulla governance delle imprese italiane, accrescendone la rischiosità. Cosicché le banche offrono contratti di debito con elevata incidenza delle garanzie collaterali. Questi contratti sfociano, però, in inefficienti allocazioni del credito e in un indebolimento patrimoniale delle imprese. Essi finiscono infatti per selezionare le imprese con gli imprenditori più ricchi e più rischiosi o per disincentivare il ricorso al capitale, come mostrano i modelli bancari con informazione asimmetrica.
Per selezionare le imprese più affidabili, la teoria ci suggerisce un’altra soluzione: offrire contratti di debito, in cui le garanzie siano sostituite dall’assunzione di una porzione del rischio da parte degli imprenditori o di altri proprietari (i cosiddetti contratti di “risk sharing”). Un modo efficace per disegnare un contratto del genere è di chiedere ai proprietari dell’impresa mutuataria una ricapitalizzazione.

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Nel caso italiano, ciò avrebbe l’ulteriore effetto virtuoso di incentivare l’apertura del capitale e di rimuovere uno degli ostacoli alla crescita dimensionale delle imprese. I finanziamenti bancari sarebbero infatti subordinati ad aumenti patrimoniali delle imprese: dati i limiti della ricchezza personale degli imprenditori, si imporrebbe l’ingresso di nuovi soci e il progressivo ricorso ai mercati.

Dalla teoria alla pratica

La proposta avanzata di recente dall’amministratore delegato di Unicredit (1) e affidata alla divisione banca d’impresa (Ubi), rappresenta una traduzione concreta di questo quadro teorico. Alessandro Profumo e Pietro Modiano si impegnano infatti a offrire finanziamenti a lungo termine senza garanzia agli imprenditori disposti ad aumentare il capitale delle loro imprese e a porsi così su un sentiero di crescita e di apertura proprietaria.
Si tratta di un impegno importante che, combinando debito e capitale, può ridefinire i rapporti fra banca e impresa e rappresentare un primo argine contro l’incombente rischio di declino dell’economia italiana.

Inoltre, la proposta ha il pregio di giovare a tutti gli attori economici: grazie alle nuove regole di Basilea 2, le imprese rafforzano i loro indicatori di solvibilità e, quindi, la banca non aumenta i propri oneri a causa della rinuncia alle garanzie.
È troppo presto per valutare se l’attuazione concreta di tale proposta raggiungerà una dimensione di scala sufficiente a incidere sul sistema economico italiano.
Molto dipenderà dai criteri di selezione adottati e dal rapporto minimo fra ricapitalizzazione e finanziamento che sarà richiesto negli effettivi contratti offerti alle imprese. Altrettanto importante sarà l’impegno e l’ammontare di mezzi finanziari che Unicredit e, eventualmente, altri gruppi bancari concorrenti vorranno mettere in campo.
Ma ancora più decisiva sarà la disponibilità delle famiglie proprietarie di piccole e medie attività a cogliere questa opportunità per aprire gradualmente al mercato il capitale delle loro imprese.
Sarebbe davvero un cattivo segnale se, di fonte al primo tentativo di una nostra banca grande di comportarsi come una grande banca, il mondo delle imprese italiane e la “nuova” Confindustria non sfruttassero l’offerta.

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(1)
Vedi l’intervista ad Alessandro Profumo sul Sole-24Ore di martedì 25 maggio

 

 

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