Astensionismo, rafforzamento dei partiti euro-scettici e voto di protesta sono le tendenze principali emerse dalle elezioni. Hanno notevoli implicazioni per il futuro orientamento delle politiche comunitarie. I due grandi gruppi, popolari e socialisti, non hanno una stabile maggioranza qualificata nel nuovo Parlamento e dovranno trovare una forma di coabitazione. Mentre la politica economica, inevitabilmente da concordare a livello comunitario, implica scelte che si ripercuotono sul consenso elettorale verso i governi dei singoli paesi. Le elezioni europee sono state caratterizzate da un forte astensionismo, da un rafforzamento dei partiti dichiaratamente “euroscettici” e, sia pur in un quadro variegato, da un voto di protesta contro i governi in carica nei diversi Stati membri. Le tre tendenze elettorali hanno notevoli implicazioni per il futuro orientamento delle politiche comunitarie. Una analisi del voto La tabella riassume tali tendenze, con i 25 Stati membri suddivisi sulla base dei tre possibili risultati: un voto che premia o non fa arretrare in misura significativa (meno del 4 per cento) il partito di maggioranza relativa al governo rispetto alle ultime elezioni politiche nazionali; un voto che invece punisce il governo in carica (sulla base dello stesso criterio); un voto di astensione (superiore al 60 per cento degli aventi diritto), spesso associato all’emergere di partiti euro-scettici.
Equilibrio o pro-governo | Voto contro il governo | Astensione |
Austria, Cipro, Finlandia, Grecia, Lussemburgo, Spagna | Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Portogallo | Estonia, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Rep. Ceca, Slovacchia, Slovenia, Svezia, Ungheria |
In Europa ha votato il 45,5 per cento degli aventi diritto, il minimo storico da quando (1979) si svolgono elezioni europee a suffragio universale.
Si conferma dunque quel trend decrescente di partecipazione al voto che già nel 1999 aveva portato ai seggi meno della metà degli elettori (il 49,8 per cento). Tuttavia, tale trend è la sintesi di due diversi orientamenti al voto.
Nei Quindici, pur includendo gli astensionisti Svezia, Regno Unito e Paesi Bassi, la partecipazione al voto è aumentata, passando dal 49,8 per cento del 1999 al 52,3 per cento, mentre solo un elettore su tre è andato a votare nei nuovi Stati membri, con punte di un elettore su cinque in Polonia e Slovacchia. Presumibilmente, questo è dovuto a messaggi diversi che gli elettori hanno voluto mandare nei due gruppi di Paesi.
Nella maggior parte degli Stati della “vecchia” Europa, la campagna elettorale è stata centrata sul tema del rilancio economico e sulle riforme. Dunque, il voto europeo si è tradotto, come spesso accade, in un referendum sul governo in carica.
Contrariamente a quanto si è sostenuto, ciò non vuol dire che l’Europa sia stata assente dalla consultazione elettorale. Queste sono le prime elezioni che hanno luogo da quando, nel 2002, è stato introdotta la moneta unica: per la prima volta nella storia europea, un voto espresso sulla azione del governo in campo economico, anche senza menzionare la parola “Europa”, è comunque un giudizio sull’azione di politica economica concordata dagli stessi esecutivi in sede comunitaria. Prova ne è il fatto che un governo di centro-sinistra, quale quello tedesco, e uno di centro-destra, quale quello francese, hanno iniziato a realizzare la stessa agenda di riforme (pensioni, sanità, mercato del lavoro), nota come Agenda 2010 in un paese, e Agenda 2006 nell’altro. (1) Ed entrambi sono stati puniti in egual misura dall’elettorato.
In Italia, dove la stessa agenda di riforme è stata implementata in maniera molto parziale e molti settori continuano a essere protetti, l’effetto ha avuto luogo, ma in proporzioni indubbiamente minori.
Nei nuovi Stati membri (e in parte anche nel Regno Unito), l’astensionismo pronunciato è invece stato il vero motore del risultato elettorale. L’astensionismo ha colpito in misura maggiore l’elettore mediano, favorendo l’emersione di partiti dichiaratamente euro-scettici. Altrimenti, non si spiegherebbe perché i referendum sull’adesione all’Unione tenuti in questi stessi paesi solo pochi mesi fa, abbiano registrato un clamoroso successo degli euro-entusiasti, con percentuali di voti favorevoli all’UE intorno al 70 per cento. L’analisi va dunque spostata dal terreno economico a quello politico.
Perché l’Europa non abbia sollevato gli entusiasmi dei cittadini nei nuovi Stati membri, è ascrivibile verosimilmente a una serie di ragioni combinate. Da un lato, esiste in tutti questi paesi una forte componente nazionalista, timorosa di perdere di nuovo la propria sovranità, faticosamente riconquistata dopo la dittatura comunista, a favore di un altro ente “sovraordinato”, magari democratico, ma vincolante in varia misura l’azione del governo nazionale. I referendum per l’adesione hanno mostrato che sono forze minoritarie, ma pur sempre presenti, e riemergono su base proporzionale ogni volta che l’astensione degli euro-favorevoli aumenta. D’altro lato, come sottolineato da alcuni commentatori (
vedi Coricelli), negli ultimi mesi è mancata in Europa la percezione dell’effettivo ruolo delle istituzioni comunitarie nell’influenzare il quadro legislativo nazionale, cui si sono aggiunte le divisioni sulla politica estera, la scarsa incisività nel coordinamento di una politica di sicurezza interna, il mantenimento da parte dei Quindici delle quote sull’immigrazione dei lavoratori dei nuovi Stati membri.Le implicazioni politiche ed economiche del voto
Interessanti sono comunque le implicazioni di questo voto. Da un punto di vista politico, l’astensionismo, combinato all’emergere di partiti euro-scettici, ha avuto l’effetto di ingrossare gli estremi della distribuzione dei membri del Parlamento europeo.
Il gruppo dei “Non-iscritti”, dove si concentra la più parte dei partiti euro-scettici, passa dal 5 al 9 per cento dei membri, secondo le ultime stime. A tale cifra vanno aggiunti tutti gli altri gruppi che hanno idee diverse sul modello sociale europeo rispetto a quelle che emergono nei due gruppi prevalenti, popolare e socialista. Questo implica che la distanza politica che separa i due principali gruppi politici, entrambi euro-favorevoli, è minore della distanza che separa ciascuno di essi dagli estremi, euro-scettici, dei membri del Parlamento. Ne consegue che nessuno dei due grandi gruppi, è in grado di acquisire stabilmente la maggioranza qualificata del Parlamento (367 voti), necessaria per approvare in seconda lettura tutti gli atti comunitari su cui il Parlamento ha un potere vincolante (co-decisione). (2)
Verosimilmente, popolari e socialisti dovranno trovare una forma di coabitazione, come avvenuto nella legislatura 1994-1999. L’accordo di cui si discute in questi giorni per garantire una alternanza nella elezione del presidente del Parlamento europeo (la prima metà della legislatura a un socialista, la seconda a un popolare) ne è un primo segnale.
La stessa, quasi “forzata”, approvazione del Trattato costituzionale europeo da parte dei capi di Stato e di governo può essere letta come un segnale politico di reazione all’esito poco partecipato e controverso del voto, nonostante abbia poco rilevanti implicazioni politiche nel breve periodo. Il testo, leggermente diverso rispetto al progetto originario della Convenzione, avrà valore legale solo una volta terminate le procedure di ratifica da parte degli Stati membri. Si tratta di un processo lungo non meno di tre anni, e soggetto alle incertezze dei diversi contesti politici nazionali, che potrebbe provocare non poche sorprese.
Più incerta, e per alcuni versi più preoccupante, è la risposta che i governi daranno all’esito elettorale sul piano economico.
Nel nuovo contesto di moneta unica, infatti, nessuno Stato membro, da solo, è in grado di far fronte alle sfide della crescita e dello sviluppo. La politica economica deve essere perciò concordata a livello comunitario, ma le conseguenze politiche delle riforme così implementate (o non implementate) si ripercuotono sul consenso elettorale dei singoli paesi.
Questa saldatura tra l’evoluzione della politica economica europea e il consenso nazionale dei governi è il vero elemento di novità di queste elezioni, e sarà carico di conseguenze per il futuro dell’UE.
Non a caso, le trattative per la nomina “dell’agenda setter” di queste riforme economiche, ossia il presidente della Commissione europea, sono a un punto di stallo.
(1) Vedi l’articolo dell’Economist “A long, hard climb”, 18 ottobre 2003.
(2) In particolare, la coalizione liberali (Eldr), popolari (Ppe) e nazionalisti (UEN) che durante l’ultima legislatura aveva eletto il presidente del Parlamento, avrebbe oggi 372 voti sulla carta, superiori alla maggioranza qualificata di 367, ma con un margine troppo esiguo data la fisiologica percentuale di assenti tra i parlamentari. La coalizione di centro-sinistra di liberali, socialisti (Pse), verdi (V) e comunisti (Gue) avrebbe invece 346 voti.
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Erminio Tonietto
Sono rimasto molto sorpreso e dispiaciuto per la mancata pertecipazione al voto degli europei. Avrei una proposta provocatoria, anche balzana, ma credo certo più sensata dell’astensionismo autolesionistico. Perchè non legare il peso del voto dei rappresentanti eletti da ciascun paese ad un “Coefficiente di rappresentatività” legato alla Percentuale dei votanti Opportunamente Corretta?
Per esempio la formula potrebbe esprimersi così: Cr = 1 + OC * Pv. Dove Cr è il coefficiente di rappresentatività, Pv la percentuale dei votanti e OC è il coefficiente di proporzionalità, che a sua volta, ad ogni votazione, dovrebbe variare in funzione del valor medio della partecipazione di tutti gli stati europei. Ma forse… questa proposta richiederebbe una modifica della Costituzione Europea… , dico bene ?
La redazione
Secondo gli orientamenti prevalenti in Europa, il voto è un diritto, non un
dovere (con l’eccezione del Belgio). Ne consegue che coloro che si astengono
devono poter esprimere un voto (o un non voto) che abbia pari rappresentatività
rispetto a coloro che decidono di votare.
L’applicazione della sua formula, oltre che richiedere un adeguamento
(all’unanimità) dei Trattati, come giustamente ipotizza, violerebbe tale
principio.
Piuttosto, occorre cogliere il segnale politico dell’elevata astensione,
sopratutto nei nuovi Stati membri, e chiedersi come fare per correggerlo.
Nellattuale contesto geo-politico mondiale, è ormai evidente che, oltre alla
politica economica, non è più possibile gestire in maniera autonoma questioni
quali la politica estera, la sicurezza o limmigrazione. Quando tale percezione
sarà diffusa non solo tra (purtroppo, una parte) della classe politica, ma sarà
patrimonio comune, l’astensione verosimilmente si ridurrà.
Cordiali saluti