Nasce un nuovo Patto di stabilità e crescita. Il rischio è che sia così flessibile da non essere mai applicato. Mentre i debiti pubblici dei paesi europei sono già elevati e continueranno a crescere se non si adottano misure per eliminare la distorsione sul deficit di cui soffrono i governi. Per farlo non è però necessaria l’uniformità. Il Patto deve allora diventare un accordo formale per costruire istituzioni nazionali capaci di varare politiche di bilancio virtuose. E, come guardiano del Trattato, la Commissione dovrebbe vigilare sui progressi.

Il tentativo della Commissione europea di infondere nuova vita al moribondo Patto di stabilità e crescita è stato in larga parte accettato nell’incontro dell’Ecofin dello scorso week end, anche se resta qualche elemento di disaccordo. La strategia è quella di dichiarare che il Patto è vivo e vegeto, ma nello stesso tempo annacquarlo fino a renderlo irrilevante.

Le ragioni della Commissione

A prima vista, questo è un bene: il Patto doveva morire perché ha violato principi elementari di saggezza economica. Con l’estensione del concetto di circostanze eccezionali (l’oggetto del disaccordo all’Ecofin) per affrontare “condizioni specifiche” di un paese, la proposta della Commissione rompe quell’automaticità che era stata finora l’elemento fondamentale del Patto.
La Commissione ha ragione. Non solo mettere il pilota automatico alla politica fiscale è un non senso economico, ma è anche contrario al fondamentale principio democratico secondo il quale sono i parlamenti, e non le regole automatiche, a decidere sui bilanci. Alla Commissione deve inoltre essere riconosciuto il merito di aver respinto i suggerimenti dei tecnocrati che puntavano ad applicare il criterio del deficit del 3 per cento ai bilanci corretti per il ciclo. Il calcolo degli aggiustamenti per il ciclo è soggetto a tali difficoltà pratiche che potrebbe generare qualsiasi numero. Ma non solo. Perché mai cittadini e parlamenti dovrebbero imparare tali arcani concetti quando tutto quello che vogliono sapere è perché pagano le tasse? Infine, la Commissione ha giustamente riconosciuto che il metro corretto per misurare la virtù fiscale non è dato dall’equilibrio di bilancio annuale, ma dal fatto che i debiti pubblici, adeguatamente misurati, riescano a ridursi quando sono troppo alti.

Niente da festeggiare

Dobbiamo dunque festeggiare? Sfortunatamente, no. Il vecchio Patto era così rigido da risultare inapplicabile. È probabile che il nuovo sia così flessibile da non essere mai applicato.  Certo, ai ministri delle Finanze continueranno a essere consegnati i pesanti rapporti della Commissione, con la descrizione accurata di tutti i loro sbagli. E continueranno gli inviti a esercitare la “pressione dei pari” l’uno sull’altro. I peccatori prometteranno di diventare virtuosi, per poi tornare nelle loro capitali e continuare a peccare. Come il precedente, anche il Patto resuscitato premia l’ipocrisia e come sempre le vittime sono i contribuenti. Con poche brillanti eccezioni, nell’Eurozona i debiti pubblici ufficiali sono già elevati, quelli reali sono ancora più alti.  Il costo di pensioni e assistenza sanitaria presto reclamati dalla generazione del baby boom porterà i debiti pubblici ben al di sopra del 100 per cento del Pil. I governi soffrono di una distorsione sul deficit: amano lasciare un grosso conto da pagare ai loro successori più o meno prossimi. La maggior parte di noi non vuole lasciare in eredità ai propri figli debiti pesanti, invece è proprio questo che fanno i governi. Ma i contribuenti – e i loro figli – vanno protetti da questa distorsione sul deficit. Dobbiamo tornare ai principi di base e ricordarci che impedire ai governi di comportarsi male è esattamente la ragione per cui è nata la democrazia. Questo non ha niente a che vedere con l’unione monetaria, ma il Patto esiste ed è difficile che sia abolito. È perciò meglio usarlo per spingere i paesi membri ad adottare procedure che riportino i debiti pubblici a livelli ragionevoli. Ma non è necessaria l’uniformità.  Ogni paese ha i suoi metodi per combattere il crimine o per scegliere i suoi governanti. Allo stesso modo, ogni paese può darsi le sue istituzioni per prevenire la distorsione sul deficit. Quelli che imputano il fallimento del Patto alla debolezza della Commissione perdono di vista il semplice fatto che fin dall’inizio la Commissione non doveva neanche essere coinvolta nella questione. È stata capace di uscire dalla trappola in modo intelligente, ma avrebbe potuto fare un passo ulteriore: chiamare i parlamenti nazionali a farsi carico della distorsione sul deficit, come sono costituzionalmente obbligati a fare.  Il Patto deve diventare un accordo formale per costruire istituzioni nazionali capaci di varare politiche di bilancio virtuose. Come guardiano del Trattato, la Commissione dovrebbe proporre un calendario, monitorare i progressi e, se necessario, portare i governi inadempienti davanti alla Corte di giustizia europea.

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The Stability and Growth Pact is Dead: Should We Cheer? (Versione originale)

The Stability and Growth Pact is Dead: Should We Cheer?

The European Commission’s proposal to breathe life into the moribund Stability and Growth Pact has been largely endorsed by the Ecofin meeting last week-end, although some disagreements remain. The strategy is to claim that the pact is well and alive but to defang it to the point of irrelevance. On the surface, it is a good thing. The Pact had to go because it violated elementary economic wisdom. By extending the concept of exceptional circumstances – the object of disagreements in Ecofin – to deal with “country specific circumstances”, the Commission’s proposal breaks the automaticity that was to be the pact’s might. The Commission is right. Putting fiscal policy on automatic pilot is not just economic nonsense, it goes against the fundamental democratic principle that budgets are decided by parliaments, not by automatic rules. The Commission should also be commended for having set aside technocratic suggestions aiming to apply the 3% deficit criterion to cyclically-corrected budgets. Not only is the computation of cyclical adjustments subject to so many practical difficulties that almost any number could be churned out. But there is no reason why citizens and their parliaments should have to learn such arcane concepts if they all they want is to understand why they pay taxes. Finally, the Commission also rightly recognizes that the proper yardstick of fiscal rectitude is not the annual budget balance but whether adequately measured public debts, decline when they are too big.
Should we cheer, then? Not quite, unfortunately. The old pact was so rigid that it was inapplicable. The new one is likely to be so flexible that it will never apply. To be sure, Finance Ministers will still be handed out thick reports by the Commission detailing their failings. They will be invited to exercise “peer pressure” on one another. Sinners will promise virtue, and then go back to their capitals only to sin again. Just like the previous one, the revamped pact will reward hypocrisy. As always, the victims will be the taxpayers. With a few shining exceptions, acknowledged public debts are already high in the Eurozone, but actual public debts are much higher. Retirement and health benefits that babyboomers will soon claim often add more than 100% of GDP. Governments suffer from a deficit bias: they love to leave big bills to their more or less distant successors. Most of us do not like to bequeath hefty debts to our children. Yet this is precisely what our governments do. Ordinary taxpayers – and their descendants – need to be protected against the deficit bias.
We need to go back to basics and recognize that governments must be prevented from misbehaving; this is precisely what democracy was invented for. This has nothing to do with the monetary union but, since the pact exists and is unlikely to be repealed, it is best used to prod member countries into adopting procedures that drive public debts to reasonable levels. And there is no reason for uniformity. Each country has its own ways of combatting crime or choosing leaders. In the same way, each country can develop its own institutions to prevent the deficit bias. Those who lament that the Stability and Growth Pact failed because the Commission was too weak, miss the elementary point that the Commission should never have been dragged into this business in the first place. It has smartly extricated itself from this trap, but it could have gone one step further and called upon national parliaments to take the deficit bias issue into their own hands, as they are constitutionally bound to do. The pact must become a formal agreement to build national institutions that deliver proper budgetary policies. As guardian of the Treaty, the Commission, should propose a template and monitor progress, and, if needed, bring recalcitrant governments to the European Court of Justice.

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