Sarà forse abbandonato il decreto che fissava un meccanismo automatico di perequazione nella distribuzione delle risorse alle Regioni. Eppure, se applicato correttamente, avrebbe permesso di garantire il finanziamento del fabbisogno sanitario delle diverse Regioni e di avvicinare la loro capacità fiscale. Oltre a essere compatibile con il sistema di federalismo fiscale delineato dall’articolo 119 della Costituzione. L’alternativa ipotizzata è un finanziamento sulla base del fabbisogno. In altre parole, un ritorno alla finanza derivata degli anni Ottanta.

Notizie di stampa ci informano che il Governo è orientato a procedere con una sospensione immediata del decreto 56/2000 e una nuova ripartizione provvisoria dei fondi destinati alle Regioni. Tutto ciò a causa delle “gravi carenze” mostrate dal decreto in fase di applicazione, ma soprattutto in risposta alle forti critiche avanzate da alcune Regioni del Centro-Sud.
È allora opportuno ritornare sulla materia, anche alla luce dei possibili percorsi futuri della riforma costituzionale in discussione alla Camera e in particolare dell’attuazione dell’articolo 119 della Costituzione.

Un’idea semplice

Il decreto 56/2000 si basa su un’idea molto semplice. Lo Stato determina un’aliquota di compartecipazione all’Iva per le Regioni; l’evoluzione dei gettiti dei tributi propri standardizzati delle Regioni assieme a quello del gettito dell’Iva determina la crescita del complesso delle risorse regionali. Queste risorse sono poi ripartite tra le Regioni in modo da 1) garantire il finanziamento del fabbisogno sanitario di ciascuna; e 2) avvicinare la capacità fiscale delle diverse Regioni, in modo che ognuna, ad aliquote e basi imponibili standard, non possa avere di meno o di più del 90 per cento della capacità fiscale media delle Regioni.
Si osservi che l’aliquota della compartecipazione Iva è fissata sulla base di previsioni sull’andamento della spesa sanitaria, la principale funzione delle Regioni. In fase di elaborazione del decreto, si era ipotizzato che la spesa sanitaria rimanesse costante in percentuale sul Pil. Naturalmente, se il Parlamento ritenesse invece che tale percentuale deve crescere, ciò può essere ottenuto semplicemente incrementando la compartecipazione all’Iva.
Inoltre, il modello è coerente con una (limitata) competizione tra le Regioni all’interno di regole certe, non dissimile da quella di recente auspicata dal presidente di Confindustria per il mondo delle imprese. Le Regioni restano libere di esercitare completamente la propria autonomia tributaria e finanziaria, con la garanzia che comunque le distanze in termini pro capite non possono superare il 10 per cento. Una distanza che sembra compatibile con uno Stato unitario, soprattutto se si pensa che il finanziamento di un bene di interesse nazionale, la sanità, è comunque garantita dal fondo. Inoltre, il modello non impedisce naturalmente che lo Stato nazionale spenda comunque di più, per esempio in termini di infrastrutture, ordine pubblico o incentivi alle imprese, nelle Regioni più deboli.

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Critiche ingiuste

Nell’attuazione del decreto 56/2000 si sono verificate varie difficoltà. Ci sono stati errori politici, indotti probabilmente dal cambiamento di Governo, e errori tecnici. Ma soprattutto il principale problema è stato causato dal fatto che le stime del fabbisogno sanitario elaborate dal ministero della Salute per le Regioni del Sud sono apparse nettamente più basse rispetto a quelle del Nord. Non so se queste stime siano giuste o sbagliate. Ma non c’entrano nulla con il 56/2000; questo si limita a registrarle. Tant’è che gli stessi problemi si sarebbero verificati anche se il sistema di perequazione fosse stato diverso e basato esclusivamente su criteri di fabbisogno. Almeno sotto questo aspetto le critiche delle Regioni del Sud al decreto 56/2000 sono dunque mal indirizzate.
Il sistema di finanziamento previsto nel 56/2000, opportunamente modificato per tener conto delle nuove funzioni attribuite alle Regioni a seguito delle riforme costituzionali, è del tutto compatibile con il sistema di federalismo fiscale ipotizzato nell’articolo 119 della Costituzione, per la semplicissima ragione che il legislatore costituente, nello scrivere il testo, ha preso a modello il decreto. Ma viene ora avanzata con forza un’interpretazione alternativa: dovrebbero essere finanziate sulla base del criterio del fabbisogno non solo le funzioni a carattere nazionale svolte dalle Regioni (oggi la sanità, domani anche la scuola), ma tutte le funzioni.
È evidente che se passa quest’interpretazione, del modello del 56/2000 e dunque anche dell’articolo 119 della Costituzione, non ce ne facciamo più nulla. Lo Stato, nella sua infinita saggezza, determinerà quanto ciascuna Regione deve spendere per ciascuna funzione e le finanzierà di conseguenza. Ma se tutto viene determinato dallo Stato centrale sulla base del principio del fabbisogno, che bisogno c’è di perequare ancora per la capacità fiscale delle Regioni?
È opportuno tuttavia che si rifletta bene, anche da parte delle Regioni del Sud, sulle conseguenze di avvalorare questa interpretazione. Se tutta la spesa regionale è predeterminata dallo Stato nazionale, che bisogno anche c’è di tributi propri regionali oppure di autonomia regionale? Un bel sistema di trasferimenti vincolati è la soluzione più ovvia. Si tornerebbe cioè semplicemente alla finanza derivata degli anni Ottanta, con tutti i problemi di irresponsabilità a essa connessi.
Ma siamo proprio sicuri che è lì che vogliamo andare?

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