La produzione di energia elettrica da idrogeno non è competitiva in termini di semplici costi industriali. Il suo sviluppo è legato perciò alle politiche di riduzione dei gas serra e alle penalità che saranno attribuite alle emissioni di anidride carbonica. Secondo uno studio, lidrogeno potrebbe entrare nel mix elettrico italiano con una percentuale dello 0,5 per cento sulla produzione nazionale solo se saranno rispettati i livelli imposti dal Protocollo di Kyoto. Oppure se il costo della CO2 si aggirerà sui cento dollari per tonnellata.
La stabilizzazione della concentrazione atmosferica di anidride carbonica, obiettivo primario della convenzione delle Nazione Unite sul cambiamento climatico del 1992, passa obbligatoriamente attraverso la diminuzione delle emissioni annuali. Il tema è quanto mai attuale perché l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto imporrà all’Italia di ridurre le emissioni di gas serra del 6,5 per cento rispetto ai livelli del 1990.
Le “responsabilità” del comparto elettrico
Il solo comparto elettrico è responsabile per il 25 per cento (anno 2000) delle emissioni di CO2 in Italia e sarà quindi chiamato a svolgere un ruolo importante nel rispetto del Protocollo. Tuttavia, nel periodo 1990-2000 l’evoluzione delle emissioni del settore ha registrato un incremento del 12 per cento: l’introduzione di impianti ad alto rendimento a gas naturale non è bastata a controbilanciare l’aumentata domanda di energia elettrica, traducendosi così in un complessivo deterioramento della posizione del settore elettrico nei confronti dei vincoli di Kyoto.
Fra le varie soluzioni prospettate per contenere le emissioni, l’economia dell’idrogeno è spesso citata come una prospettiva incoraggiante, seppur ancora incerta. Quasi sempre, però, si sente parlare dell’utilizzo dell’idrogeno nel settore dei trasporti, mentre molto meno spazio è dedicato a un suo possibile impiego nella produzione di energia elettrica. La ragione di questa disparità è da attribuire al fatto che i veicoli con motori elettrici alimentati a idrogeno sono l’unica possibilità di riduzione in un settore come quello dei trasporti tipicamente caratterizzato da alti livelli di emissioni diffuse.
In un recente studio, i ricercatori della Fondazione ENI Enrico Mattei si sono chiesti sotto quali condizioni l’idrogeno possa svolgere un ruolo anche nella produzione elettrica italiana da qui al 2020.
L’analisi raccoglie diverse tecnologie da quelle tradizionali termoelettriche e rinnovabili fino a quelle a idrogeno disponibili – considerandone i costi industriali, le emissioni specifiche di CO2, i costi esterni da inquinamento locale e i vincoli di capacità esistente e installabile. I costi dipendono sia da variabili specifiche a ogni tecnologia (efficienza, costi di investimento, di servizio, eccetera) che da variabili generali (prezzi dei combustibili).
L’idrogeno, però, non è una fonte primaria. Deve essere ricavato da altre fonti energetiche e quindi è a tutti gli effetti un vettore energetico. Visto il breve l’orizzonte considerato nello studio, le uniche tecnologie che risultano economicamente competitive per la produzione di idrogeno sono quelle che utilizzano fonti fossili, e dunque sono anch’esse caratterizzate da un fattore di emissione di CO2 . Sembrerebbe un paradosso termodinamico: dal gas o dal carbone si fa idrogeno e dall’idrogeno elettricità, aggiungendo così un dispendioso passaggio intermedio.
La soluzione dell’impasse viene da un’altra tecnologia: il sequestro geologico della CO2. Qui, l’anidride carbonica viene sequestrata proprio nella fase di produzione di idrogeno, vale a dire prima della combustione. Questo permette un migliore isolamento della CO2 a un costo marginalmente inferiore rispetto al sequestro in impianti termoelettrici tradizionali, rendendo la produzione di elettricità via idrogeno una soluzione possibile.
Quando arriva l’idrogeno
Politiche di riduzione dei gas serra sono comunque una condizione indispensabile per l’adozione, seppur limitata, di tecnologie a idrogeno: la produzione di energia elettrica da idrogeno non risulta competitiva in termini di semplici costi industriali, e il suo sviluppo è legato alle penalità in termini di costo o di livelli di emissioni permessi – che saranno attribuite alle emissioni di CO2. L’analisi si è perciò concentrata su diversi scenari di regolamentazione, sia nazionale che internazionale, anche perché l’orizzonte considerato cade oltre il primo periodo di Kyoto (2008-2012).
In un scenario di normale crescita della domanda elettrica, i risultati indicano che l’idrogeno potrebbe incominciare a far capolino nel mix elettrico italiano (con una percentuale dello 0,5 per cento sulla produzione nazionale) solo a condizione che le emissioni di CO2 siano limitate almeno ai livelli imposti da Kyoto (-6,5 per cento sul 1990), oppure che il costo della CO2 si aggiri attorno ai 100 dollari per tonnellata. In uno scenario post-Kyoto con un limite alle emissioni ancora più stringente (-10 per cento sul 1990), l’idrogeno potrebbe contribuire alla produzione elettrica nazionale con una quota fino al 2 per cento. (1) In questo caso, l’idrogeno sarà prodotto da fonti fossili e l’elettricità attraverso combustione (con turbine appositamente modificate per bruciare l’idrogeno), in attesa che i sistemi elettrochimici come le spesso citate “fuel cells” diventino competitive per la produzione elettrica di larga scala.
L’idrogeno, dunque, potrebbe giocare un ruolo nella produzione elettrica italiana fin dal 2020, a condizione che la politica di riduzione della CO2 continui a far spirare “aria di idrogeno” anche in Italia.
(1) Gli scenari non prevedono la possibilità di ricorrere a riduzione extra-paese che potrebbero rendere i vincoli meno stringenti.
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Matteo
Il rendimento energetico della trasformazione dell’energia fossile in idrogeno e di questa in energia elettrica è così bassa che forse rappresenta l’ultimo scenario da adottare per rispondere ai criteri di Kyoto. In breve per produrre la stessa quantità di energia elettrica servirebbe un’emissione di CO2 superiore all’attuale. Basta considerare che anche George W. Bush si è dovuto ricredere, nonostante credo apprezzi l’oro nero anche a colazione. Fa eccezione lo stripping del metano che offre in effetti offre rendimenti accettabili e applicabili all’esempio dell’articolo. La vera alternativa sta però nello sviluppo di biotecnologie capaci di produrre materiali e processi per produrre idrogeno da materiali poveri, quali rocce e radiazione solare. La nuova avventura di Craig Venter è ispirata da questo principio: cercare negli organismi marini i geni che permettono di convertire direttamente i raggi uv el’acqua in idrogeno. Ricordo che negli States stanno nascendo interi campus universitari dedicati a questo tipo di ricerca. In Italia pare che i soldi vadano invece alla ricerca sui prodotti tipici. Idrogeno da pecorino?