Per rilanciare la competitività dell’economia e delle imprese italiane, il Governo sta pensando a sgravi fiscali e crediti di imposta per le spese per la ricerca e per l’innovazione tecnologica. Scarse, tuttavia, le risorse a disposizione. E per incoraggiare davvero queste attività, occorre garantire alle imprese un più elevato tasso di rendimento interno certo. Meglio perciò evitare gli interventi temporanei e, pur nel rispetto delle compatibilità di bilancio, puntare su un flusso adeguato di incentivi permanenti e flessibili.
Da varie settimane si sente parlare di un disegno di legge del Governo che dovrebbe rilanciare la capacità di competere delle imprese e, con la riforma fiscale, contribuire a dare una scossa all’economia.
Da una sua versione preliminare, messa in circolazione dal ministero delle Attività produttive, si apprende che, nell’ambito di una generale riorganizzazione del sistema di incentivi, il Ddl renderà più facile la creazione di nuove imprese senza aggravi per il bilancio dello Stato e introdurrà sgravi fiscali e crediti di imposta per le spese per la ricerca e per l’innovazione tecnologica.
Gli sgravi fiscali e i crediti di imposta – la componente più importante del pacchetto dovrebbero prevedere, tra l’altro, la deduzione del costo del lavoro del personale qualificato dedicato a ricerca&sviluppo dal calcolo dell’Irap e un credito di imposta del 10 per cento per gli investimenti in information technology, oltre che contributi all’acquisizione di brevetti.
Le risorse disponibili per gli incentivi alla ricerca sarebbero, tuttavia, limitate: 275 milioni di euro nel 2005 (circa lo 0,02 per cento del Pil) e quasi il doppio nel 2006 e 2007.
Sono efficaci gli incentivi alla ricerca?
A una persona che non crede nei miracoli viene da chiedersi: è possibile rilanciare la competitività e dare una scossa all’economia con un impiego di risorse così modesto?
In linea di principio, è possibile. In pratica, è molto improbabile.
Da un lato, è possibile che una modesta spesa in ricerca faccia aumentare di molto la produttività. Come vari studi hanno accuratamente messo in luce, gli investimenti in ricerca e innovazione presentano, infatti, un tasso di rendimento molto più elevato di quelli in capitale fisico e anche di quelli in capitale umano. Ad esempio, sulla base di dati relativi a dieci paesi Ocse a partire dagli anni Settanta, tre economisti inglesi hanno calcolato che il tasso di rendimento sociale medio dell’investimento in ricerca può raggiungere addirittura il 43 per cento. (1)
Sulla base di queste stime, con pochi soldi si potrebbe davvero ottenere molto.
Questo scenario roseo è tuttavia improbabile che si applichi all’Italia, per due ragioni.
In primo luogo, non è il rendimento sociale, ma quello privato, per la singola impresa, che determina l’ammontare dell’investimento in ricerca. La scarsa attività innovativa delle imprese italiane segnala che, per quanto elevata sia la potenziale utilità dell’investimento in ricerca per l’economia italiana, il suo rendimento privato è troppo basso per indurre le imprese italiane a investire (a questo, del resto, servono gli incentivi fiscali alla ricerca). In secondo luogo, inoltre, come sottolineato qualche anno fa da Bronwyn Hall, gli incentivi alla ricerca operano con un ritardo sistematico di efficacia, (2) essenzialmente perché l’attività di ricerca presenta rilevanti costi di aggiustamento. Le imprese hanno, infatti, bisogno di tempo per riorganizzarsi e imparare a innovare.
Meglio non aspettarsi, dunque, che le scarse risorse disponibili per incentivare l’attività di ricerca si traducano in un immediato boom dell’innovazione né in un sostanziale contributo dell’innovazione alla “scossa” di cui si parla.
Come accrescere l’efficacia degli incentivi fiscali alla ricerca
Tutto ciò non sminuisce l’importanza di individuare un’appropriata politica di incentivazione dell’innovazione allo scopo di rilanciare la competitività. Per aumentare l’efficacia degli incentivi all’attività innovativa, il Governo potrebbe sostituire l’attuale giungla di incentivi temporanei con incentivi permanenti e flessibili all’attività di ricerca (in forma di crediti di imposta o di sgravi fiscali).
I tradizionali incentivi temporanei possono, infatti, essere efficaci solo se erogati rapidamente. Proprio contro lo scoglio dell’insufficiente rapidità di attuazione si è invece scontrata la Tecno-Tremonti, l’insieme di misure proposte dal Governo nella Finanziaria 2004 a sostegno dell’attività innovativa e di internazionalizzazione delle imprese. (3)
Solo da poche settimane, infatti, la Commissione europea ha dato il via libera ad alcune delle misure di agevolazione previste dalla Tecno-Tremonti, che sono state ritenute compatibili con il regime degli aiuti di Stato. È quindi improbabile che la legge, la cui efficacia si esaurirà con il 31 dicembre 2004 e a oggi priva dei regolamenti attuativi, produca un effetto sull’attività innovativa e di ricerca delle imprese. Per l’innovazione digitale (limitata dalla Tecno-Tremonti ai consorzi con almeno dieci imprese), c’è anche il rischio concreto che la defiscalizzazione prevista imponga ai potenziali beneficiari di rinunciare ad altri benefici di legge. (4)
Insomma, il magro esito della Tecno-Tremonti è una prova che nessuna delle due condizioni per l’efficacia degli incentivi temporanei è soddisfatta in Italia. Meglio dunque ricorrere a incentivi permanenti.
In secondo luogo, per essere davvero efficaci nel promuovere la ricerca e l’innovazione delle Pmi, gli incentivi fiscali dovrebbero anche essere flessibili, cioè prevedere clausole di carry-back e carry-forward, in modo da non escludere dai benefici proprio quelle giovani imprese innovative, che spesso non producono utili tassabili nei loro primi anni di vita.
In conclusione, anche se non esiste la bacchetta magica, non è impossibile incoraggiare l’innovazione. Per farlo, occorre garantire alle imprese un più elevato tasso di rendimento interno certo dall’attività innovativa. Sarebbe quindi bene che, nel rispetto delle compatibilità di bilancio, il Governo trovasse le risorse per fornire un flusso adeguato di crediti, permanenti e flessibili, all’attività di ricerca e innovazione.Qualcosa di simile a quello che Confindustria richiedeva a metà settembre nella III Giornata della ricerca.
(1) In un recente Nber Working Paper, Steve Dowrick presenta un’interessante rassegna dei risultati empirici disponibili. Tra gli altri, in un articolo del 2001, usando dati per dieci paesi Ocse, Griffith, Redding e van Reenen hanno calcolato che le spese in ricerca e sviluppo comportano un tasso di rendimento per la società del 43 per cento. In un lavoro del 2002, tuttavia, Bond, Harhoff e van Reenen avevano evidenziato l’ampia variabilità tra paesi dei tassi di rendimento sull’attività innovativa, ottenendo un tasso di rendimento del 45 per cento per l’attività innovativa in Germania e solo del 16 per cento per il Regno Unito.
(2) B.H. Hall (1995), “Effectiveness of Research and Experimentation Tax Credits: critical literature review and research design”, report prepared for the Office of Technology Assessment, Congress of the United States, March 1995.
(3) Una breve discussione della TecnoTremonti è nel mio articolo “Una seria dimenticanza”, 4/11/03, su www.lavoce.info.
(4) Ad esempio, al credito d’imposta previsto proprio per i consorzi che hanno partecipato ai bandi di incentivazione al commercio elettronico ex commi 5 e 6 art. 103 della legge 388/2000.
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Paolo Poggioli
Leggendo l’articolo del prof. Daveri e sentendo le dichiarazioni che da più parti, in particolare dal presidente Montezemolo, arrivano in questi giorni, mi chiedo: se al finanziamento dell’innovazione e della competitività attraverso i meccanismi così ben spiegati nell’articolo “Innovazione cercasi” venissero destinati soltanto la metà dei fondi riservati al taglio dell’Irpef,quali sarebbero gli effetti sulla nostra economia?
Da quello che mi è parso di capire, anche leggendo altri articoli interessanti su questo sito, mi sembra che gli effetti sarebbero molto più consistenti rispetto a quelli attesi dalla riforma fiscale. A tale proposito mi piacerebbe che questo tema fosse approfondito da analisi anche quantitative.
Concludo il mio commento con una semplice osservazione: invece che essere entusiasta di quei pochi euro in più all’anno che forse avrò a disposizione se viene approvata la riforma fiscale, come cittadino italiano sono estremamente avvilito dal fatto che venga ancora una volta sprecata l’occasione per cercare di far ripartire un paese che si trova dietro al Botswana in quanto a livello di competitività.
Cordiali saluti.
La redazione
Caro Paolo:
il calcolo che suggerisci di fare sarebbe importante e urgente. io non l’ho ancora fatto e credo che non l’abbia fatto nessuno finora. E’ difficile capire quanti sono davvero gli incentivi alle imprese e quindi è anche complicato stabilire quale sia il loro impatto preciso. posso solo promettere di provarci in un prossimo futuro.
Per quanto riguarda la competitivtà dell’Italia, guarda che il Botswana non è poi tanto male: è la success story del continente africano! se hai voglia, c’è un articolo (NBER working paper) di tre economisti americani (Acemoglu, Johnson e Robinson) proprio dedicato al Botswana. Forse abbiamo qualcosa da imparare anche da loro.
Cordiali saluti
Francesco Daveri