La riforma fiscale appena varata imporrà ulteriori problemi alle esauste finanze pubbliche, mentre per sostenere l’economia sarebbero serviti altri provvedimenti. Ma il ritorno elettorale di un euro di Ire in meno è un multiplo di qualunque altro intervento agevolativo di pari misura. Tuttavia, la base imponibile dell’Ire è per l’80 per cento composta da redditi da lavoro dipendente. Va dunque affrontato il problema di una distribuzione più equa del carico tributario. Senza concentrarsi esclusivamente sulla questione della progressività dell’imposta dei redditi.

La riforma dell’Ire (ex Irpef), fortunosamente partorita all’ultimo momento da un Governo in chiaro affanno, ha scatenato l’atteso putiferio politico. Per la maggioranza è una svolta epocale, per l’opposizione una mancia elettorale. Il tasso di retorica nel dibattito politico ha già superato i livelli di guardia e diventerà straripante in futuro, se, com’è possibile, il capo del Governo approfitterà del momentaneo vantaggio mediatico per tentare di forzare le elezioni politiche anticipate già nel 2005. Prima cioè che un’opposizione con tempi di reazione biblici riesca a organizzarsi, e prima che i probabili effetti negativi della riforma sui conti pubblici si manifestino interamente. In attesa di essere travolti dal marasma ideologico incombente, tentiamo qualche puntualizzazione.

Effetti economici. Ed elettorali

In primo luogo, la ratio della riforma è più politica che economica. È evidente che se l’obiettivo della riforma fosse stato davvero il sostegno all’economia, come ufficialmente dichiarato, i 6,5 miliardi di euro avrebbero potuto essere spesi molto meglio. I supposti effetti positivi sui consumi di un ritocco alle aliquote dell’Ire sono assai incerti. Anche se si manifestassero, poi, potrebbero finire solo con il danneggiare la nostra bilancia commerciale, visto che il paese ha fondamentalmente un problema di competitività dell’offerta, non di carenza di domanda. Tagli alle imposte sulle imprese, sui contributi sociali, oppure il finanziamento di strumenti più moderni di supporto alle necessarie ristrutturazioni industriali, sarebbero stati di gran lunga più utili.
Ma la riforma Ire nulla ha a che vedere con questi obiettivi. L’Ire raggiunge in modo molto più diretto di qualunque altra imposta o contributo un numero molto maggiore di contribuenti-elettori. Il ritorno elettorale di un euro di Ire in meno è dunque un multiplo di qualunque altro intervento agevolativo di pari misura. Una lezione elementare, che il centrosinistra avrebbe fatto bene a ricordarsi nel 2000, quando esso stesso varò la propria manovra pre-elettorale, sprecandola in mille rivoli.
In secondo luogo, la “copertura” della riforma (tra posticipi di condoni e insostenibili blocchi nel turnover dei dipendenti pubblici) è fantomatica e ha cominciato a sfaldarsi ancor prima che il decreto raggiungesse il Senato, con le concessioni fatte al ministro dell’Istruzione. L’unico sostegno certo alla riduzione delle imposte sul reddito è, paradossalmente, l’incremento in altre imposte (tabacchi, bollo), che però al massimo coprono un terzo della riforma. Peggio ancora, la riforma si inserisce in un quadro finanziario pesantemente deteriorato, con la manovra da 24 miliardi di euro appena varata che fa già acqua da tutte le parti. Infine, c’è il sospetto che l’impatto sul gettito della riforma sia maggiore di quanto stimato dal Governo. In particolare, c’è da chiedersi quanto i tecnici del Tesoro abbiano tenuto in conto delle reazioni dei contribuenti ai nuovi criteri di calcolo dell’imponibile Ire (aliquote più deduzioni decrescenti), per esempio per quanto riguarda la decisione relativa alla distribuzione degli oneri tra componenti della famiglia con diverse situazioni reddituali. Insomma, non c’è dubbio che la riforma Ire imporrà ulteriori e seri problemi alle esauste finanze pubbliche.
Per il Governo si tratta essenzialmente un problema di timing. Non poteva aspettare ancora a imporre la riduzione delle imposte sull’Ire, altrimenti si sarebbe “bruciato”, forse definitivamente. Adesso il problema è vedere quando il vantaggio politico della riforma verrà annullato dai necessari e impopolari successivi interventi compensatori. L’insofferenza verso i vincoli di Maastricht va vista anche in questo contesto. Può darsi che vi sia dietro anche un calcolo politico più sofisticato: un eventuale futuro Governo di centrosinistra si troverà a raccogliere i cocci di una situazione disastrata, dovrà imporre misure impopolari, prevedibilmente spaccandosi al proprio interno, e così aprirà la strada a una possibile rapida rivincita del centrodestra.

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La questione della progressività

Infine, molto del dibattito politico si concentrerà sugli effetti redistributivi della riforma, con l’opposizione all’attacco per gli effetti negativi sulla progressività dell’imposta sul reddito. L’argomento è discutibile o per lo meno andrebbe qualificato. Non c’è dubbio che la riforma avvantaggi i redditi Ire più elevati, nonostante la deduzione decrescente sul reddito, la no tax area, e anche mettendo in conto la prima tranche della riforma.
Ma bisogna ricordarsi che l’Ire è in realtà molto lontana dalla imposta sui redditi “onnicomprensiva” della sua originale impostazione. Molti dei redditi sono o legalmente esclusi (i redditi da capitali) o largamente erosi (redditi agricoli e dei fabbricati) oppure semplicemente ampiamente evasi (i redditi da lavoro autonomo), tant’è che la base imponibile dell’Ire è per l’80 per cento composta da redditi da lavoro dipendente. La struttura delle aliquote Ire pre-riforma non è molto ripida in un’ottica internazionale, ma ha la caratteristica di imporre aliquote molto elevate già a livelli relativamente bassi di reddito. Così com’è, l’Ire sembra fatta apposta per penalizzare certe categorie di contribuenti a scapito di altri, così perpetuando una disuguaglianza preesistente.
Esiste sicuramente un problema di distribuzione più equa del carico tributario tra i contribuenti, ma questo potrebbe forse essere più utilmente affrontato aumentando le aliquote sui redditi da capitale e le attività finanziarie (le più basse d’Europa) e reintroducendo la tassazione sui trasferimenti di ricchezza, almeno per i grandi patrimoni. E naturalmente aggredendo l’evasione fiscale, alimentata a colpi di condoni dal Governo di centrodestra.

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