E’ illusorio pensare che le coperture della riforma fiscale possano derivare da sforamenti del Patto di stabilità. Se così accadesse, l’Italia si troverebbe a pagare un alto costo politico, oltre che economico. Difficile anche un allentamento condiviso dei vincoli nella direzione voluta dal nostro Governo. E per il sostegno alla competitività delle imprese, più che maggiore spesa pubblica in ricerca e infrastrutture, servirebbero misure per migliorare il contesto competitivo. Come una seria legge fallimentare o l’apertura del mercato bancario. La riforma fiscale varata dal Governo insieme alla Legge finanziaria sta producendo un ampio dibattito nel paese sulla opportunità della manovra, sulla sua efficacia in termini di stimolo all’economia e sulla sua effettiva copertura. Gran parte del dibattito ruota attorno agli ultimi due elementi (vedi Tito Boeri e Riccardo Faini su lavoce.info, 22-11-2004), con posizioni differenziate. Vi è tuttavia un ulteriore aspetto della riforma, relativo alla opportunità di una riduzione fiscale in un contesto europeo caratterizzato da tensioni sul fronte della finanza pubblica e da bassa crescita. In violazione del Patto? È evidente che una manovra che, in teoria, goda di coperture strutturali e trasparenti soddisferebbe (sicuramente) il requisito della tenuta dei conti pubblici (il parametro del 3 per cento del deficit sul Pil) e garantirebbe (forse) qualche decimale di crescita in più. La questione della competitività Una seconda riflessione riguarda più in generale il tema della competitività. È infatti diffusa la convinzione che il Governo, con questa riforma fiscale, abbia fatto una scelta precisa per destinare risorse a favore delle famiglie ai danni della competitività per le imprese, ormai lasciate al loro destino. Si tratta di una visione miope. Come dimostrato dal recente Rapporto Kok (ottobre 2004) sulla attuazione dell’agenda di riforme strutturali in Europa (la cosiddetta strategia di Lisbona), i ritardi maggiori sulla strada della competitività nell’Unione derivano dal mancato funzionamento dei mercati, non dalla assenza di risorse pubbliche a favore degli investimenti produttivi: è un problema di offerta aggregata, non di domanda. In altre parole, mentre non si è per nulla certi che sei miliardi aggiuntivi di spesa pubblica in ricerca e sviluppo o infrastrutture producano tutti effetti immediati e positivi, è ampiamente dimostrabile che misure volte a stimolare il contesto competitivo in cui operano le imprese (una seria legge sui fallimenti, una riforma in senso liberale degli ordini professionali, l’apertura del mercato bancario alle fusioni e concentrazioni con l’estero, una più flessibile riforma degli ordinamenti universitari, maggiore concorrenza nei servizi di rete, e così via.) avrebbero effetti immediati e positivi sulla competitività. Magari a un costo politico elevato per alcuni, ma, con buona pace della riforma fiscale, a un costo economico pari a zero e nell’interesse generale del paese. (1) Kaminsky e Schmukler (2002), World Bank Research Paper No. 2678 (2) Ipotesi di un punto percentuale di interesse in più sui circa 300 miliardi di euro di titoli del debito pubblico che l’Italia deve rinnovare nel 2005 (dati del ministero del Tesoro). Tale cifra esclude il maggiore onere che si determinerebbe sulla quota di titoli del debito pubblico indicizzati ai tassi di interesse, e gli eventuali oneri sui rinnovi futuri del debito.
Tuttavia, in assenza di tali elementi, la manovra potrebbe generare crescita, dunque essere efficace, ma portare l’Italia a violare il Patto di stabilità. Oppure potrebbe lasciarci entro i margini del 3 per cento, ma rivelarsi inutile a stimolare l’economia. O entrambe le cose. Da qui, i dubbi di alcuni sulla sua opportunità rispetto a usi alternativi delle risorse, legati al sostegno alla competitività delle imprese. È del tutto illusorio pensare che future coperture della riforma fiscale possano derivare da sforamenti del Patto di stabilità e crescita europeo che ci consenta di violare, sia pure di poco, il limite del 3 per cento del deficit rispetto al Pil. Una violazione unilaterale da parte dell’Italia verrebbe immediatamente sanzionata dalle agenzie di rating internazionale, a ragione del fatto che l’Italia è di gran lunga il paese con il debito pubblico più elevato nell’area dell’euro, e uno dei più elevati del mondo.
Recenti studi empirici (1) hanno mostrato che qualunque peggioramento del rating internazionale sul debito pubblico si traduce, nei paesi in via di sviluppo, in un aumento dello spread sui tassi di interesse di circa il 3 per cento. Anche ipotizzando per l’Italia un aumento pari a circa un terzo di tale valore, in ragione della partecipazione all’area dell’euro, questo vorrebbe comunque dire maggiori spese in conto interesse pari ad almeno 3 miliardi di euro a partire dal 2005, cioè circa la metà dell’aggiustamento varato con la recente riforma fiscale, facendo una stima conservativa. (2) Quali che siano i numeri, i parametri strutturali di finanza pubblica non rendono comunque razionale per l’Italia violare il Patto di Stabilità e crescita, al contrario di altri paesi caratterizzati da indebitamento molto inferiore. In aggiunta, sempre la ricerca empirica mostra che il peggioramento del rating di un paese in una determinata regione tende a tradursi, sia pure in misura minore, in un aggravio degli spread dei paesi vicini.
L’Italia si troverebbe dunque a pagare anche il costo politico, oltre che economico, di una violazione unilaterale del Patto. D’altro lato, si potrebbe argomentare, esiste la possibilità di una revisione generalizzata delle regole, che consentano dunque margini più elastici di finanza pubblica agli Stati.
L’ultima proposta della Commissione (settembre 2004) prevede che tale flessibilità si applichi prevalentemente ai paesi con debito pubblico basso (inferiore al 60 per cento del Pil), al fine di garantire comunque la solidità della finanza pubblica nell’area dell’euro. L’Italia vorrebbe invece rimuovere questa clausola. Anche ipotizzando che un peggioramento dei saldi di finanza pubblica “garantiti” da un accordo politico di revisione del Patto sia visto meno negativamente dai mercati (cosa per nulla scontata), la probabilità di tale scenario è molto bassa. Per “flessibilizzare” il Patto nella direzione auspicata dall’Italia occorre non già il possibile accordo di qualche paese (Germania o Spagna che sia), ma l’unanimità dei voti di venticinque paesi al Consiglio. Francamente, non si capisce perché un paese con i conti pubblici in ordine debba rischiare un peggioramento del proprio rating internazionale esclusivamente per fare un piacere all’Italia, visto che la flessibilità sul Patto potrebbe ottenerla comunque. O meglio, in una fase di rinnovo delle prospettive finanziarie dell’Unione (e dunque dei nuovi fondi strutturali), anch’esse decise all’unanimità, il costo di una concessione all’Italia in questo senso potrebbe essere per il nostro paese elevatissimo.
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