Contro i rincari la prima reazione deve essere dei consumatori, chiamati a modificare i loro comportamenti di consumo. Altrimenti, chi vende continuerà ad aumentare i prezzi. Nel settore alimentare, ciò è stato possibile, come dimostra il calo dei prezzi dell’ultimo anno, perché la competizione è alta. Più difficile seguire questa strada nei settori dove la concorrenza è limitata, come nei servizi. Infatti, nonostante le ristrutturazioni e le fusioni che hanno caratterizzato le attività finanziarie e assicurative negli ultimi anni, i prezzi non sono scesi.

L’introduzione dell’euro, preceduta da grandi aspettative, è stata poi accusata di avere generato una spinta inflazionistica preoccupante, che alcuni vedono come responsabile delle attuali difficoltà dei consumatori italiani. Quale senso hanno queste “impressioni” dei consumatori? Cerchiamo di capirlo meglio con l’aiuto dei dati.

Il tempo dei rincari

Come illustrato dalla tavola 1, negli ultimi anni l’aumento dei prezzi al consumo è stato sostenuto soprattutto dai prezzi dei generi alimentari e dei servizi, in particolare alberghi, ristoranti e pubblici esercizi nonché i servizi finanziari e assicurativi.
Per gli alimentari, dei quali si parla tanto, se si esclude il fresco ortofrutticolo, i maggiori rincari si sono verificati già nel 2001: dunque se vi è stato un effetto dell’euro sulla spesa, questo è stato piuttosto anticipato che concomitante al changeover.
Un discorso diverso vale per i prezzi del settore ortofrutticolo “fresco”. Per i forti rincari del biennio 2002-2003, è difficile distinguere quanta parte è ascrivibile a un calo dell’offerta che pure c’è stato (gelate, inondazioni, siccità, eccetera) e quanta ai troppi passaggi presenti nella catena distributiva.
Nei servizi, il panorama è stato quello di rincari abbastanza diffusi, e in molti casi non confinati al periodo del changeover. Si pensi ad esempio ai prezzi delle consumazioni al bar, alla ristorazione, alle spese per il tempo libero (cinema, ingressi in palestra e piscina), ai servizi di riparazione (per auto, elettrodomestici, e così via), agli onorari delle libere professioni.

I prezzi si allineano

Una parte della maggiore inflazione italiana può essere letta come l’esito di una convergenza dei prezzi all’interno dell’area dell’euro. Ciò è evidente soprattutto in alcuni settori a forte prevalenza di beni scambiati internazionalmente, come abbigliamento, calzature, mobili e articoli d’arredamento (figura 1). In altri termini, dato il valore al quale lira ed euro si sono scambiate, alcuni prezzi in lire risultavano significativamente inferiori a quelli esteri. E gli scambi internazionali tendono a livellare i prezzi (spesso, verso l’alto).
Se accettiamo questa lettura dobbiamo anche convenire che la spinta inflazionistica proveniente da questi settori dovrebbe essere in corso di esaurimento, quantomeno in linea con quella degli altri paesi europei. 
L’introduzione dell’euro può aver indotto una concentrazione di aumenti che diversamente sarebbero stati spalmati su un arco temporale più lungo. Ma l’anomalia italiana non è in questi rincari, quanto nel fatto che, trascorsi più di due anni, alcuni prezzi non mostrano ancora segni di distensione.

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Quando la domanda è rigida

Una possibile spiegazione è che il cambio di moneta abbia rappresentato un importante test sulla tenuta della domanda a fronte di revisioni dei listini di una certa importanza. In alcuni settori, come quelli della ristorazione e degli alberghi, nel breve periodo, la domanda può essersi rivelata più rigida di quanto l’esperienza storica avrebbe suggerito. Tra le ragioni vi è ad esempio il cambiamento degli stili di vita occorso nell’ultimo decennio: la forte diffusione conosciuta dai pasti fuori casa e la maggiore propensione ai viaggi. La tenuta delle quantità può aver aperto la strada a ritocchi ai prezzi proseguiti anche nel post-changeover.
In altri termini, se non sono i consumatori i primi a reagire, modificando i loro comportamenti di consumo, chi vende continuerà ad aumentare i prezzi. Talvolta, però i consumatori reagiscono veramente. Il ritorno ai mercati rionali e ai discount, il successo degli outlet nell’abbigliamento e la crescita delle quote di mercato delle sigarette di fascia economica sono tutte facce della stessa medaglia: emerge con forza il desiderio del consumatore di proteggere il proprio potere d’acquisto dall’erosione di un’inflazione percepita di gran lunga superiore a quella documentata dalle statistiche ufficiali.

Settore alimentare e abitudini di consumo

La caduta dei consumi alimentari dell’ultimo anno, tuttavia, sembra indicare che la risposta della domanda può richiedere tempi più lunghi, e che forti deviazioni dei prezzi relativi finiscono inevitabilmente per incidere sulle abitudini di consumo. Gli ultimi mesi hanno infatti portato alla ribalta il calo dei consumi alimentari non solo nei piccoli negozi del centro, ma perfino nei punti vendita del canale moderno: ipermercati e supermercati.
Sembra, allora, che stiano cambiando i comportamenti d’acquisto, con consumatori che hanno sostituito ai prodotti di marca quelli non di marca, a canali a maggiore componente di servizio i punti vendita la cui filosofia è quella dei “prezzi bassi tutti i giorni”. Inoltre, nel tentativo di dare risposta al disagio diffuso di consumatori e distributori, il Governo si è fatto promotore di accordi per il contenimento dei prezzi dei beni di largo consumo. È bene dire che, molto prima dell’attivazione degli accordi, la grande distribuzione aveva già agito sulla leva del prezzo intensificando la pressione promozionale, peraltro con scarsi risultati. Quando il Governo è intervenuto, probabilmente i consumatori si erano già mossi.
Se questo è vero, e se non vale solo per il settore alimentare, allora la discesa dell’inflazione anche nei settori dei servizi rappresenta l’esito più probabile nel prossimo anno. Certo, questo è molto più facile se i consumatori, come accade nel settore alimentare, dispongono di alternative, ovvero se si ha almeno un minimo di concorrenza.

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Quanto conta la concorrenza

Questo emerge con chiarezza soprattutto dove gli scambi internazionali non sono possibili (i servizi), e dove la dinamica dei prezzi soffre della limitata concorrenza che si ha nel nostro paese. Due esempi per tutti.
Nell’ultimo decennio la liberalizzazione della telefonia ha condotto a forti ribassi nel costo dei servizi: se oltralpe i prezzi sono scesi del 20-30 per cento, da noi i vantaggi per il consumatore si sono fermati al 10 per cento (figura 2). Parimenti in relazione ai servizi finanziari e assicurativi, i processi di ristrutturazione e fusione occorsi dalla seconda metà degli anni Novanta avrebbero dovuto assicurare guadagni di produttività che non si sono tradotti in apprezzabili riduzioni del costo dei servizi (figure 3 e 4).
Anche in questo caso, non è dell’euro che ci dobbiamo lamentare. Piuttosto, dovremmo ascoltare di più l’Autorità antitrust.

 




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