Il processo di integrazione sociale europeo, varato a Lisbona, registra grandi progressi, soprattutto nella capacità di misurare e analizzare i fenomeni della povertà e della disuguaglianza. Timidi miglioramenti si sono avuti anche nei tassi di povertà e nei livelli di disuguaglianza. Rimane tuttavia molto lavoro da fare: ancora troppi cittadini europei vivono in condizioni di disagio. E nuovi fenomeni, come la povertà dei bambini e degli occupati, meritano di essere affrontati rapidamente e con efficacia.

Fra un anno i risultati sin qui raggiunti nel processo di integrazione sociale europeo varato a Lisbona nel 2000, verranno valutati dai capi di Stato e di governo dei paesi dell’Unione, di cui oggi fanno parte venticinque paesi.

Il processo di integrazione sociale europeo*

Ma in cosa consiste esattamente il processo di integrazione sociale europeo?
Tutti i paesi si sono impegnati a presentare ogni due anni un “piano di azione nazionale” nel quale si indicano gli obiettivi di riduzione della povertà e controllo delle disuguaglianze. Tali obiettivi, pur essendo fissati in autonomia da ogni Stato membro, devono essere coerenti con un insieme di linee guida indicate dall’Unione. I piani di azione nazionali contengono anche una valutazione degli obiettivi precedenti e una descrizione dell’evoluzione di numerosi indicatori sociali. Sulla base dei rapporti e delle valutazioni reciproche che i paesi membri esprimono sui piani nazionali, il Consiglio e la Commissione producono un Rapporto congiunto sull’inclusione sociale. Fino ad oggi, ne sono stati pubblicati due, uno nel 2001 e l’altro all’inizio del 2004.

Tutto il processo si basa sul cosiddetto principio del coordinamento aperto: lascia ai paesi la totale autonomia nel fissare gli obiettivi, ma sottopone gli impegni presi al controllo formale degli altri membri, generando la necessaria pressione politica affinché gli obiettivi siano credibili e vengano effettivamente perseguiti.

Tra conferme e sorprese

Dalla lettura dell’ultimo rapporto scopriamo molte cose. Alcune sono semplici conferme di fenomeni che già conoscevamo, altre sono invece vere e proprie novità.
Per esempio, troviamo conferma del fatto che in Europa si possono identificare tre gruppi di paesi. I paesi nordici (Svezia, Finlandia, Norvegia, Danimarca) sono quelli con i più bassi livelli di povertà e di disuguaglianza dei redditi, i paesi dell’Europa continentale (Germania, Francia, Olanda, eccetera) seguono con tassi di povertà e indici di disuguaglianza più elevati, mentre i paesi del Sud (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) e i paesi anglo-sassoni (Irlanda e Regno Unito) mostrano i livelli di disuguaglianza dei redditi e di povertà più elevati. Questi dati, inoltre, confermano la relazione già nota tra ricchezza complessiva di un paese e disuguaglianza: i più ricchi sono anche quelli in cui il reddito è distribuito in modo più uniforme.
Alla luce di questi risultati si potrebbe dedurre che l’allargamento dell’Unione verso l’Est europeo, incorporando aree con livelli di ricchezza più bassi, dovrebbe aver aumentato la disuguaglianza dei redditi all’interno dell’Unione allargata.
In realtà, e questo è uno degli aspetti nuovi che emergono dal Rapporto congiunto, scopriamo che i paesi dell’Est Europa hanno livelli di disuguaglianza e povertà relativa comparabili a quelli dei Quindici.

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Un secondo aspetto importante e nuovo riguarda l’evoluzione della disuguaglianza.
È un fatto noto che negli Stati Uniti e in altri paesi anglo-sassoni, gli anni Ottanta sono stati caratterizzati da un forte aumento della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. Molti ritengono che ciò sia stato un effetto della rivoluzione tecnologica o della “globalizzazione”, che avrebbero favorito i lavoratori qualificati a scapito egli altri. Nella maggior parte dei paesi europei, tuttavia, un simile aumento della disuguaglianza non si è ancora verificato. Infatti, i dati ci dicono che dal 1995 al 2001 la disuguaglianza in Europa è scesa leggermente. È possibile che i sistemi di sicurezza sociale europei abbiano svolto un ruolo nel controbilanciare le tendenze del progresso tecnologico e dell’integrazione internazionale.
Il Rapporto congiunto ci segnala un andamento simile anche per gli indicatori della povertà. Tuttavia, vi sono almeno due numeri che sono forse meno noti, ma non per questo meno preoccupanti. L’incidenza della povertà sui bambini è fortissima. Le stime per l’Italia, per esempio, parlano di circa il 25 per cento di bambini che vivono in condizioni di povertà relativa. Inoltre, è aumentata l’incidenza della povertà tra chi lavora: mentre 10-20 anni fa essere occupati garantiva una sostanziale protezione contro la povertà, oggi salari ridotti e forme instabili di impiego hanno aumentato la probabilità di essere poveri anche per chi un impiego ce l’ha.

Che giudizio dare quindi del processo di integrazione sociale europeo? Si può certamente dire che sono stati fatti grandi progressi, soprattutto per quanto riguarda la capacità di misurare e analizzare i fenomeni della povertà e della disuguaglianza. Si è anche ottenuto qualche timido miglioramento nei tassi di povertà e nei livelli di disuguaglianza, particolarmente significativo perché ottenuto in una fase in cui in altri paesi industrializzati questi fenomeni si sono invece aggravati. Rimane tuttavia molto lavoro da fare: ancora troppi cittadini europei vivono in condizioni di povertà e nuovi fenomeni, come la povertà dei bambini e degli occupati, meritano di essere affrontati prontamente e con efficacia.

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* Questo intervento trae spunto dalla relazione di Anthony Atkinson al convegno su “Misure della povertà e politiche per l’inclusione sociale” tenutosi a Milano presso l’Università Cattolica venerdì 19 e sabato 20 novembre 2004 e organizzato dalla Commissione d’Indagine sull’Esclusione Sociale.

Per saperne di più

Tutti i documenti e le informazioni relative al processo di integrazione sociale europeo sono disponibili al seguente indirizzo internet: http://europa.eu.int/comm/employment_social/soc-prot/soc-incl/index_en.htm

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