Dal 1999 al 2003, le concessionarie autostradali hanno incassato 16,7 miliardi di euro da pedaggi, ma hanno fatto investimenti per soli 3,7 miliardi. Finora si sono rafforzate le rendite, invece di investire sulla viabilità ordinaria dove la congestione è maggiore. Con riflessi anche sulla competitività dell’Italia. Le possibili soluzioni sono la creazione di un’autorità indipendente per la supervisione delle concessioni e l’adozione di un sistema “unbundling” per favorire la concorrenza. E i pedaggi, differenziati, affluiscono a un fondo pubblico.

Tra i motivi della perdita di competitività dell’Italia vengono indicati anche l’insufficienza di infrastrutture e le molte sacche di rendita dei settori protetti. Tuttavia, si continua a investire molto poco nella viabilità ordinaria, dove la congestione è maggiore, e si rafforzano, invece di ridurre, le rendite.

I soldi delle autostrade

Uno dei casi più macroscopici di rendita è quello delle autostrade. È sufficiente richiamare qualche dato: nei cinque anni 1999-2003, le concessionarie autostradali hanno incassato 16,7 miliardi di euro da pedaggi (al netto di Iva e Fondo di garanzia), ma hanno fatto investimenti per soli 3,7 miliardi. Anche tenendo conto delle spese di gestione, che spesso non assorbono più di un terzo dei ricavi, si tratta pur sempre di un fiume di denaro con cui si sarebbero potute finanziare molte infrastrutture, e che invece è finito in profitti, imposte sul reddito e impieghi finanziari vari. Nel caso della società Autostrade, ad esempio, coi pedaggi verrà anche rimborsato il debito di quasi 8 miliardi col quale Schemaventotto ha acquistato, con l’Opa del 2003, un terzo delle azioni (più di quanto incassò l’Iri dalla vendita di tutta la società).
Gli italiani pagano ogni anno circa 5 miliardi di euro di pedaggi eppure la rete autostradale italiana, in chilometri, è la stessa di trenta anni fa. I pedaggi autostradali incidono sul costo per chilometro delle automobili all’incirca quanto l’imposta sulla benzina: rispetto a Germania, Inghilterra o altri paesi dove sono gratuite, chi viaggia in autostrada in Italia subisce una tassazione doppia, e anche questo può avere qualche riflesso sulla competitività. La causa principale di questa situazione risale alla privatizzazione di Autostrade, effettuata con modalità volte esclusivamente a massimizzare l’introito per l’Iri. Alla società Autostrade si “regalava” l’estensione della concessione per quaranta anni,anche se gli investimenti pregressi erano stati pressoché interamente ammortizzati, ma analoghi regali furono fatti a molte altre concessionarie, estendendo le loro concessioni, anche se per periodi di tempo inferiori. Inoltre, non è previsto un meccanismo di limitazione (“claw back“) dei profitti cosicché al primo rinnovo quinquennale della convenzione, l’Anas ha concesso alla Autostrade incrementi tariffari assai superiori a quelli che secondo l’opinione del Nars sarebbero stati giustificati (si veda il mio articolo “Autostrade: tariffe e redditività” su www.lavoce.info). Altre concessionarie hanno ottenuto benefici simili, e non stupisce lo spettacolare andamento di Borsa delle due società quotate.

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Cambiare politica

Che fare ora?
Un cambiamento di politica potrebbe articolarsi su tre direttrici principali:
1) Creare una autorità indipendente per la supervisione delle concessioni, eliminando così il palese conflitto d’interesse in cui si trova oggi l’Anas: partecipa al capitale di concessionarie e al contempo esercita la funzione di regolazione (pur essendo una società per azioni, “privatizzata”).
2) Adottare, man mano che scadono le concessioni (vi sono ventiquattro concessionarie), il sistema detto “unbundling“: si assegnano i singoli servizi (manutenzione, pulizia, esazione) con gare separate e i nuovi investimenti con le normali procedure di appalto, mentre i ricavi da pedaggi affluiscono a un fondo pubblico. In questa direzione sta andando, ad esempio, la Germania, dove l’esazione dei pedaggi sui mezzi pesanti è affidata a una società privata, i ricavi affluiscono a un fondo pubblico, mentre la manutenzione di singoli tratti è spesso affidata con gare a società private. Solo con molteplici gare per appalti e servizi diversi si possono cogliere appieno i vantaggi della concorrenza.
3) Adeguare progressivamente i pedaggi in funzione della congestione, per migliorare l’utilizzo della rete, rescindendo il legame tra pedaggio pagato e introito del concessionario, mediante un sistema di imposte e sussidi come era stato suggerito nel Piano generale dei trasporti.
L’obiettivo è duplice. Da una parte, ridurre le rendite dei concessionari recuperando risorse per maggiori investimenti, non solo per autostrade ma anche per la viabilità ordinaria dove si registra il maggior livello di congestione. E dall’altra, migliorare l’utilizzo della rete esistente.

Esigere pedaggi solo sulle autostrade e a livelli che riflettono i costi dei singoli tratti (con divari da 4,6 a 15 centesimi di euro per chilometro) non conduce certo a un utilizzo ottimale della rete (si veda l’articolo di Marco Ponti “Il pedaggio si fa strada” su www.lavoce.info). Le moderne tecnologie consentono ormai di applicare pedaggi differenziati per tipo di veicolo e ora di transito, anche sulle strade ordinarie: e possono essere uno strumento assai efficace per regolare il traffico e ridurre la congestione, specie attorno alle grandi aree urbane.
L’estensione dell’ambito di applicazione dei pedaggi potrebbe non essere osteggiata dagli utenti se i ricavi venissero interamente devoluti a investimenti aggiuntivi laddove la congestione è maggiore, e/o a riduzione della fiscalità sul possesso di veicoli o sui carburanti. Altri paesi, come l’Inghilterra, stanno preparandosi a introdurre sistemi di questo tipo. Ma la loro gestione non può essere affidata a concessionari privati: occorre un’Autorità efficiente e che persegua l’interesse pubblico.

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Per saperne di più

www.unibg.it/highways

Giorgio Ragazzi, “Politiche per la regolamentazione del settore autostradale e il finanziamento delle infrastrutture”, Economia Pubblica, 2004 n. 4.

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