Lavoce.info

Quella ricchezza difficile da tassare

La tassazione delle rendite finanziarie ritorna ciclicamente all’attenzione della politica. Ma il tema è tecnicamente complesso. Improponibili le opzioni di escludere dall’intervento i titoli di Stato italiani o di elevare la tassazione per i soli strumenti di nuova emissione. Il costo della diminuzione dell’aliquota del 27 per cento è sostanzialmente certo. Più difficile stimare il recupero di gettito derivante dall’innalzamento di quella del 12,5 per cento. Scarsi invece i rischi di ripercussioni sui tassi di interessi sui titoli del debito pubblico o di fughe di capitali.

Il tema della tassazione delle rendite finanziarie ritorna ciclicamente all’attenzione della politica. Dall’aumento della pressione fiscale su queste si attendono risorse da destinare ai più diversi fini. Ovviamente, la decisione di aumentare la tassazione e la scelta sull’utilizzo delle maggiori risorse è squisitamente politica e non sarà discussa o commentata in questa sede. Il tema è tuttavia tecnicamente complesso e la decisione non può prescindere dalla preventiva risoluzione di numerose questioni.

Quali rendite

Le rendite sono sostanzialmente i frutti dei risparmi e degli investimenti finanziari delle famiglie italiane. Sono oggi tassate con una imposta sostitutiva. L’aliquota base è del 12,5 per cento, ma per gli interessi su depositi e conti correnti sale al 27 per cento. Negli altri casi, le rendite finanziarie sono (a) esenti da imposta (i non residenti) oppure (b) soggette alle aliquote d’imposta ordinarie (banche e imprese). Per eliminare una discriminazione odiosa e ingiustificata, si dovrebbe uniformare l’aliquota, come prevedeva la legge delega fiscale ormai scaduta.
Ma prima di interrogarsi sul possibile livello della nuova aliquota, occorre spendere due parole sull’estensione dell’intervento.
Da taluno è stato espresso l’intendimento di alzare l’aliquota d’imposta per tutti gli strumenti, ma non per i titoli di Stato italiani. Questa opzione non è proponibile. Ogni differenziazione basata sulla nazionalità o residenza dell’emittente o prenditore contrasterebbe con i principi di non discriminazione contenuti nei Trattati europei. Anche se fosse possibile mantenere l’aliquota dell’imposta sui rendimenti dei titoli di Stato italiani a un livello più basso, questo costringerebbe gli intermediari, che prelevano l’imposta per conto dello Stato, a complicatissime (forse impossibili) gestioni extracontabili per calcolare le imposte dovute.
Infine, è ragionevole ipotizzare che gli investimenti si concentrerebbero proprio sui titoli di Stato, e il maggior gettito sugli altri strumenti finanziari sarebbe modesto. Taluni hanno anche ventilato l’opportunità di riservare la nuova, e più elevata, tassazione ai soli strumenti di nuova emissione. Per quelli già in circolazione a una certa data rimarrebbero in vigore le attuali aliquote d’imposta.
Anche questa opzione non è proponibile.
In primo luogo, l’aumento di aliquota sui soli titoli emessi dopo una certa data comporterebbe una decisa segmentazione del mercato. Le famiglie si concentrerebbero sul mercato dei titoli ancora tassati al 12,5 per cento, mentre gli altri (società e non residenti) si concentrerebbero sull’altro mercato. Per lo stesso motivo, i recuperi di gettito sarebbero, almeno nei primi anni, del tutto marginali.  Inoltre, l’esistenza di titoli tassati ad aliquote diverse comporterebbe pesantissime complicazioni gestionali e amministrative per gli intermediari.

Leggi anche:  Nuovo redditometro: vita breve di un'arma spuntata

Quale livello

A quale livello fissare la nuova aliquota? La risposta dipende, in larga misura, dagli obiettivi di gettito che si intendono raggiungere. A meno di non ipotizzare un’aliquota unica pari o superiore al 27 per cento, fissarla a un livello inferiore a quella soglia comporta una perdita di gettito tributario sugli interessi su depositi e conti correnti. Data la sostanziale stabilità del gettito di questo comparto, la perdita è agevolmente calcolabile.
Molto meno agevole è quantificare l’effetto derivante dall’aumento dell’aliquota di imposizione per tutti i redditi oggi soggetti all’aliquota ordinaria del 12,5 per cento. Mentre gli interessi bancari si tassano al lordo, tutto il resto viene tassato al netto, con il diritto a riportare in avanti le perdite. Quindi, il gettito del 12,5 per cento dipende dall’andamento dei mercati. Per avere una idea delle dimensioni, il gettito dell’imposta sostitutiva sui fondi comuni d’investimento mobiliare è stato poco meno di 7 miliardi di euro nel 1999. Nel 2003 è stato pari a zero. Il costo della diminuzione dell’aliquota del 27 per cento è, pertanto, sostanzialmente certo. Il recupero di gettito derivante dall’innalzamento dell’aliquota del 12,5 per cento è più difficilmente stimabile.

Tassi di interesse e fuga di capitali

Restano da valutare i rischi di una ripercussione negativa sui tassi di interessi sui titoli del debito pubblico. Questa eventualità appare remota in quanto circa il 75 per cento dell’intero stock del debito pubblico italiano è detenuto da contribuenti che non saranno interessati dall’innalzamento dell’aliquota. Dato che l’aumento dell’aliquota dovrà riguardare i rendimenti di tutti gli strumenti finanziari, ipotizzabili effetti di “spiazzamento” dei titoli del debito pubblico rispetto ad investimenti alternativi non sono ragionevolmente significativi. Esiste un rischio di fuga di capitali? Probabilmente sì, ma il fenomeno sarebbe scarsamente significativo. L’illecita detenzione di capitali all’estero è pesantemente sanzionata e interessa principalmente redditi sottratti al fisco oppure capitali illegalmente formati. I possessori non sono sensibili a un modesto aumento di aliquote fiscali.
È invece meno probabile che si possa avvertire un significativo movimento verso l’estero di capitali lecitamente formati e detenuti in Italia causato dal semplice aumento dell’aliquota. Il 1° luglio 2005 entrerà in vigore la cosiddetta “direttiva risparmio” e anche le piazze finanziarie tradizionalmente interessate da esportazioni di capitali applicheranno una imposta sugli interessi con l’aliquota del 15 per cento (che salirà al 20 per cento e poi al 35 per cento).
Da ultimo, due parole sui tempi di attuazione. L’onere di applicare l’imposta sostitutiva dovrà senz’altro rimanere in capo agli intermediari finanziari. A questi si dovrà concedere un congruo lasso di tempo (non meno di sei mesi) per aggiornare le procedure. Sembra quindi difficile che si possa provvedere per decreto-legge: dove sarebbe l’urgenza? Temo che si dovrà, quindi, attendere la Legge finanziaria, uno strumento legislativo del tutto inadatto a dare risposte adeguate alle problematiche tecniche qui accennate e alle molte altre (di non minore momento) che restano da esaminare.

Leggi anche:  Sulla patrimoniale un tabù da superare

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Per cancellare i debiti col fisco serve una strategia

Precedente

Autostrada, oh cara

Successivo

Piccolo è bello per la logistica

  1. Marco Palmieri

    Trovo difficile comprendere dove risieda l’iniquità del doppio regime di tassazione: il 27% applicato alle esigue rendite sui conti correnti rappresenta solamente un chiaro disincentivo al lasciar languire i soldi in banca. L’attuale norma va dunque a discapito soprattutto di quella ristretta fascia di popolazione che nell’attuale momento di stagflazione può permettersi di tenere liquidità sui conti correnti, a tutto beneficio delle imprese e dello Stato che in questo modo possono raccogliere fondi più facilmente: in questa impostazione non riscontro alcuna ingiustizia, ma una precisa logica volta allo sviluppo del Paese.
    Occorre inoltre considerare che qualora si imponesse una più onerosa tassazione sul risparmio (prescindendo dalla conseguente riduzione dei consumi e ulteriore contrazione dell’economia), questa verrebbe a realizzarsi all’indomani degli enormi crack finanziari occorsi, scandali che purtroppo non hanno ancora trovato una seria risposta nella c.d. riforma del risparmio (e forse mai la troveranno…). È facile immaginare che ciò andrebbe ad ulteriore discapito degli investimenti finanziari, con un più pesante squilibrio degli impieghi in altri settori, quali ad esempio quello immobiliare, oppure a favore del tradizionale materasso, con le ovvie conseguenze negative per la nostra oramai fragile economia, in primis proprio per i molti che con i proventi del risparmio “arrivano alla fine del mese”.

  2. Maurizio Fusco

    Ritengo che le considerazioni svolte da Marco Palmieri siano valide. Aggiungo che i conti a vista in alcuni paesi (Francia) non ricevono alcuna rimerazione. In contropartita, la banca gestisce gratuitamente (o con un aggravio di spese minimo) il conto corrente. Se prevale l’ottica impositiva (stante la necessità statale di ‘far cassa’) allora direi che sui c/c (cioé su denaro a vista) sarebbe più opportuna un’ìmposta del 33%. Non troverei osceno neppure se l’imposta fosse pari al massimo dell’aliquota IRPEF.

  3. Stefano Bono

    Apprezzo la competenza e le osservazioni dell’articolo pubblicato cui ritengo corretto far seguire ulteriori considerazioni. Il problema di fondo dell’aumentare la tassazione sulle rendite finaziarie sta, a mio parere, nella inefficienza del sistema bancario-finanziario italiano, immobile ed incapace di reagire all’innovazione perchè protezionista di situazioni connesse all’apparentemente inscindibile legame tra politica ed economia. Si consideri a questo proposito le recenti opposizioni all’ingresso di BBVA e ABN Amro. Impossibile il paragone con altri stati, dove la cultura finanziaria popolare è più avanzata perchè iniziata in tempi passati. L’azionariato italiano è scarsamente diffuso tra il ceto popolare con conseguente ristagno dei risparmi tra i titoli del debito pubblico. Scarsa è poi la cognizione delle scelte di investimento con patrimoni sbilanciati spesso e volentieri sul fronte del reddito fisso noncuranti della piramide che ognuno dovrebbe costituire accordando risparmio ed obbiettivi di vita futuri. E’ vero, come commentato, che altri paesi non remunerano i c/c incentivando l’investimento in titoli di credito ma va considerato il differente panorama economico generale di questi altri stati raffrontato con la frequente abitudine della cicala italiana di lasciare il gruzzolo sempre disponibile sul c/c. E’ però vero che quest’abitudine si traduce in un non-investimento nell’economia del paese incentivato dalla ingiusta (o inadeguata) tassazione. Si giunge perciò alla conclusione che qualunque tipo di intervento sul risparmio per far cassa non fa altro che aggiungere danno al danno. Un sostanziale cambiamento è auspicabile nonchè necessario e non va dimenticato che da qualche parte bisogna ben cominciare. Impossibile scindere ogni intervento di lungo termine (di questo a bisogno il nostro debito pubblico) sul risparmio da un cambiamento culturale (epocale) nei nostri risparmiatori sintonizzando tale intervento con formule incentivanti l’uso produttivo del risparmio. I fallimenti delle precedenti iniziative in merito (leggi ad esempio fondi pensione e fondi comuni di investimento immobiliare), dovuti proprio ad una logica politico-economica lontana dalle considerazioni di opportunità finanziaria, dovrebbero essere per i nostri governanti monito ed insegnamento.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén