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La battaglia sul bilancio

L’80 per cento del bilancio europeo è destinato all’agricoltura e alle regioni più povere. E’ una struttura di spesa costosa e di dubbia efficacia. Ora, dopo l’allargamento, sarà la causa di pericolosi conflitti per accaparrarsi le risorse. Servirebbe invece un ripensamento radicale su Pac e fondi strutturali. L’Unione dovrebbe allocare i fondi sulla base di una valutazione economica e sociale dei progetti. Potrebbe così diventare una potenza impegnata nella lotta alla povertà nel mondo. E ridare ai suoi cittadini il giusto entusiasmo per l’ideale europeo.

Il braccio di ferro tra Blair-Chirac conquista le prime pagine dei giornali, ma mette in ombra la vera battaglia che dobbiamo attenderci sul bilancio europeo. L’allargamento dell’Europa nel 2004 è stato un risultato storico e nobile, ma ha portato nell’Unione Europea 75 milioni di nuovi cittadini, molti dei quali sono molto più poveri e occupati nell’agricoltura di quelli dell’Unione Europea a 15. Questo è un problema perché l’80 per cento del bilancio europeo è destinato all’agricoltura e alle regioni povere (vedi figura 1). La vera battaglia sul bilancio opporrà gli agricoltori e le regioni relativamente povere dell’Unione Europea-15 ai nuovi Stati membri. È probabile che la battaglia sul bilancio infurierà per almeno un anno e causerà enormi danni alla reputazione e all’idea che i cittadini europei hanno dell’Unione. (1)
In questo articolo, cerco di spiegare gli elementi essenziali del problema e propongo una soluzione radicale.

Concentrare l’attenzione sulle azioni a “somma positiva”

Gli Stati che mettono in comune la loro sovranità intraprendono due tipi di azioni: le azioni a somma zero e quelle a somma positiva. Le azioni a somma positiva sono le più rilevanti, e l’integrazione economica ne è l’esempio migliore. L’eliminazione reciproca delle barriere al libero movimento di beni, servizi, persone e capitali aumenta l’efficienza economica in tutte le nazioni che partecipano al processo. In ogni Stato ci sono vincitori e vinti, ma i vincitori guadagnano più di quanto perdano i vinti. Cosicché le nazioni meglio governate possono tradurre tutto ciò nell’affermazione che “nessun cittadino sarà lasciato indietro”.
Il bilancio europeo è destinato sia alle azioni a somma positiva sia alle azioni a somma zero. La spesa destinata alle istituzioni europee è a somma positiva perché le istituzioni facilitano le azioni a somma positiva, come l’integrazione economica, la cooperazione sugli aiuti allo sviluppo, gli accordi preferenziali di commercio con le nazioni povere e le iniziative europee di politica estera. Tutti questi sono esempi di come l’Unione europea possa essere qualcosa di più della somma dei suoi Stati membri. Tuttavia, la parte più ampia del bilancio europeo si riduce a una tassa su alcuni cittadini europei per finanziare altri cittadini europei. E la maggior parte di questi trasferimenti risulta anche assai dubbia. La maggior parte dei finanziamenti della Politica agricola europea se ne va infatti ai ricchi agricoltori degli Stati ricchi (metà dei fondi Pac vanno a Francia, Germania e Italia, con l’80 per cento dei finanziamenti diretto al 20 per cento composto dagli agricoltori più grandi). La maggior parte dei fondi strutturali è assorbito dalle regioni relativamente povere di nazioni relativamente ricche.
Ma la cosa peggiore è che le attività a somma zero saranno la causa delle maggiori difficoltà negli anni a venire. L’Unione europea dovrebbe perciò concentrarsi sulle azioni a somma positiva e eliminare le azioni a somma zero. Ed ecco la mia proposta.

Leggi anche:  2004: il miracolo europeo dell'allargamento*

Nazionalizzare la Pac

I fondi della Pac vengono eliminati, lasciando liberi gli Stati membri di trasferire all’agricoltura le risorse che ritengono necessarie, secondo le regole dei singoli mercati. Dopo tutto gli Stati dell’Unione Europea finanziano i loro artisti, i loro anziani e i loro disabili: perché non dovrebbero fare altrettanto con gli agricoltori? Svizzera e Norvegia sussidiano i loro agricoltori a livelli più alti dell’Unione Europea, così per gli agricoltori francesi ne potrebbe derivare un sussidio più alto, non più basso di quello attuale, ma sarebbe pagato, e votato, dai francesi.

Trasformare i fondi strutturali in project funding

I fondi strutturali sono assegnati oggi secondo criteri essenzialmente politici e di dubbia efficacia. Fino al 1981, quando fu ammessa la prima nazione povera, la spesa per i fondi strutturali era minima: aiutare le regioni svantaggiate era responsabilità degli Stati membri. Considerate le enormi differenze di reddito all’interno dell’Unione Europea e il grande impatto dell’integrazione economica, la politica strutturale europea ha senso, ma è necessario rivederne i principi.
Fin dagli albori della storia, distribuire denaro è sempre stato difficile. Per farlo, si fa ricorso a due modelli: carità e capitale di rischio. Il punto fondamentale della carità è il “test sulle condizioni economiche” a livello individuale: garantisce che l’individuo che riceve l’aiuto sia davvero bisognoso. Il modello “capitale di rischio” è invece diverso. Parafrasando una ben nota parabola, possiamo dire che questo modello non dà pesci ai poveri, ma insegna loro come pescare. La chiave di volta in questo caso è la valutazione: i progetti che aspirano al finanziamento devono dimostrare di essere fattibili, validi e avere almeno buone probabilità di dare i risultati desiderati.

Figura 1

La spesa storica dell’Unione europea (1958-2006), e nel 2003 degli Stati membri per tipo e pro-capite

Fonte: Commissione europea e Eurostat.
Nota: Agricultura è la Pac; Strutturale è tutta la spesa per la coesione; interna è tutta la spesa non esterna (per esempio, in ricerca e sviluppo) e Adim è la spesa per l’amministrazione (per esempio, la Commissione, la Corte di giustizia, Eurostat). Alcuni tipi di spesa (per esempio gli aiuti ai paesi stranieri non possono essere assegnati ai singoli Stati, perciò non sono considerati nell’ammontare per Stati membri.

I programmi redistributivi europei sono un curioso miscuglio di carità e capitale di rischio.  La prova principale per l’assegnazione dei fondi relativi al programma più importante (Obiettivo 1) consiste nelle differenze di reddito tra regioni, non tra i redditi dei singoli individui. L’aneddotica è ricca di esempi su come per lo più il denaro finisca nelle mani dei ricchi proprietari delle società di costruzione, alcune delle quali hanno sede nelle ricche regioni di altri paesi, invece che in quelle dei cittadini poveri che vivono nell’area oggetto della sovvenzione. Tutto questo potrebbe ancora andare bene se si dimostrasse che i progetti sui quali si investe beneficiano i cittadini poveri. Ma questo non accade. Finché il criterio principale resta quello del reddito regionale pro-capite, l’allargamento dell’Unione agli Stati poveri si rivelerà costoso. E con l’allargamento le battaglie politiche su questo denaro sono certamente destinate a intensificarsi.
La soluzione è una revisione totale e radicale della spesa strutturale. L’Unione dovrebbe allocare i fondi sulla base di una valutazione economica e sociale dei progetti. Questo limiterebbe automaticamente il costo dell’ammissione di nuovi Stati membri perché il processo di valutazione porterebbe a eliminare molte domande di finanziamento. Storicamente, le nazioni non riescono ad assorbire più del 3-5 per cento del loro Pil nei progetti di assistenza: automaticamente, e con ragione, questo dovrebbe limitare la destinazione di fondi ai paesi nuovi membri. E potrebbe anche aumentarne l’efficacia.

Tagli al bilancio

Una volta tagliati, o comunque drasticamente ridimensionati, i grandi programmi di spesa, il bilancio dovrebbe essere ancora ridotto, per eliminare la spesa a somma zero: un taglio del 50-80 per cento.

Il sogno di un’Europa diversa

Naturalmente, un’alternativa potrebbe essere quella di finanziare beni pubblici nel mondo intero e all’interno dell’Unione. Per esempio, una rete ferroviaria europea ad alta velocità. O più aiuti allo sviluppo. O sussidi per la riduzione dei gas serra. Pensandoci bene, una scelta di questo tipo potrebbe fare dell’Unione europea qualcosa capace di risvegliare l’entusiasmo dei cittadini europei. Proviamo a immaginare un’Unione europea capace di diventare una potenza in difesa della pace o impegnata nell’alleviare la povertà nel mondo. Una potenza che fosse vista dal mondo intero come l’esempio del capitalismo sociale. E un esempio di come una cooperazione stretta con i propri vicini consenta di conseguire nobili risultati.
Questo è quello che potrebbe accadere se l’Unione Europea fosse capace di riorganizzare la sua spesa secondo le domande del nuovo secolo, lasciando da parte l’anacronistica attenzione all’agricoltura e alle regioni povere di nazioni relativamente ricche. Ma si tratta di una vana speranza. I leader europei continueranno a bisticciare su questioni molto lontane dal cuore degli europei, come gli sconti sui contributi al bilancio, le quote-latte, gli aggiustamenti statistici per aver diritto ai fondi dell’Obiettivo 1. Ancora peggio, continueranno a dare la colpa a “Bruxelles” per tutti i compromessi che dovranno accettare; contribuendo così a rendere ancora più disillusi i cittadini europei sull’ideale europeo.

* Una versione estesa di questo articolo apparirà la prossima settimana sul sito www.ceps.be come Policy Brief.

 

(1) Il Consiglio dovrebbe varare il bilancio 2006-2013 entro giugno 2005, ma è molto improbabile che si trovi un accordo. Giugno non è una vera scadenza. Il bilancio 2000-2005 fu siglato solo pochi mesi prima di entrare in vigore. Gli accordi prevedono poi un “piano B”: in caso di mancato accordo, continua a valere l’attuale struttura di spesa.

 

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Leggi anche:  La competitività dell'Europa passa anche da Est*

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Sommario 13 giugno 2005

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La Cina è vicina. Nell’innovazione

  1. Francesca Passamonti van de Leemput

    Condivido la proposta dell’autore dell’articolo di ripensare la PAC ed i meccanismi di utilizzo dei fondi strutturali. A seguito dell’insuccesso del Consiglio Europeo di Bruxelles del 16-17 giugno, vorrei anche aggiungere che quei governanti europei che continuano a difendere strenuamente la PAC e i fondi strutturali, non hanno capito che l’Europa per uscire dalla crisi economica e per reggere alle sfide della globalizzazione (i.e. delle minacce della Cina, dell’India etc) deve invece indirizzare i suoi interventi finanziari sulla ricerca e sullo sviluppo tecnologico, sull’innovazione, sulla formazione delle risorse umane. Altrimenti è condannata ad un inesorabile declino.
    Pertanto Blair ha avuto ragione ad opporsi alla proposta di compromesso della presidenza lussemburghese, che avrebbe cristallizzato l’allocazione delle risorse fino al 2013 secondo un modello che non riflette le priorità attuali dell’Europa, che non dimentichiamo, sono quelle di Agenda 2000… In questo senso un mancato accordo va salutato con favore.

  2. Corrado Truffi

    Condivido gran parte del discorso, anche quando si dice che la PAC non dovrebbe essere abolita ma nazionalizzata, per spostare altrove le riorse UE. La proposta dovrebbe essere in breve: si smantelli il più rapidamente possibile tutta la PAC, spostando le risorse corrispondenti in utilizzi più produttivi, ma in cambio si faccia un bilancio UE consistente e il Regno Unito smetta di difendere il famoso “sconto”. Ed inoltre, ed è fondamentale, si avvii una politica “keynesiana” basata su un limitato debito pubblico a livello europeo orientato a spese di infrastruttura ed investimenti.
    E’ una proposta non velleitaria se unita alla considerazione che non necessariamente agli stati nazionali dovrebbe essere vietato di provvedere direttamente ad opportuni sostegni all’agricoltura.
    L’agricoltura va difesa non perché produce troppo latte inutile o per contrastare la concorrenza dei prodotti agricoli africani o latino americani. L’agricoltura va difesa perché è paesaggio, perché viaggiare nell’Averne o nella Loira senza incontrare mucche al pascolo e fattorie, sarebbe come perdere un pezzo enorme della nostra memoria. Perché noi europei siamo anche – e spero vogliamo continuare ad essere – un concentrato di storia, qualcosa che proviene e ci identifica come un solo popolo “in potenza” fin dal medioevo.

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