Il dibattito sui dazi rischia di focalizzarsi sulla difesa di settori di specializzazione produttiva che ci condannano sempre più ai margini della competizione internazionale. Dovremmo invece cercare di cogliere le grandi opportunità che la Cina offre. Da dieci anni il Governo cinese cerca di attrarre investimenti esteri in settori a media e alta tecnologia, attraverso incentivi di varia natura alle imprese dei paesi avanzati. Potrebbero avvantaggiarsene quelle aziende italiane che hanno ancora una posizione di riconosciuta leadership tecnologica e manageriale. Negli ultimi tempi si è molto discusso di dazi sulle importazioni di prodotti tessili dalla Cina. E di dumping. La Cina appare come una grande minaccia per alcuni settori in cui lItalia ha tradizionalmente una posizione di vantaggio competitivo, quali il tessile e il calzaturiero. I produttori cinesi – largomento prosegue – violano le “regole del gioco” grazie al basso costo del lavoro, alla scarsa tutela dei diritti dei lavoratori e, infine, allimitazione dei marchi italiani di qualità. Da qui la necessità di imporre dazi e altre misure protezionistiche che tutelino la posizione dei produttori italiani. La sfida Non ci sono dubbi sul fatto che il rapido sviluppo delleconomia cinese rappresenti una sfida fondamentale per il sistema produttivo italiano. Tuttavia, focalizzarsi sul problema dei dazi, del cosiddetto dumping, della “disonestà” dei produttori cinesi blocca il dibattito in una battaglia di retroguardia che non coglie laspetto più rilevante del caso cinese per lItalia e lEuropa. Le opportunità Lo sviluppo recente del sistema produttivo e innovativo cinese offre una grande opportunità alle imprese capaci non solo di portare in Cina impianti e capacità produttive, ma anche di accettare la sfida dellinnovazione e dello sviluppo di competenze. Infatti, leconomia cinese, grande e in rapida crescita, rappresenta uno sbocco per i prodotti di consumo, e per chi intende portarvi le competenze ingegneristiche e scientifiche necessarie a sviluppare una rete infrastrutturale ancora inadeguata alle esigenze di una moderna economia industriale. Non è sui dazi allimportazione che si gioca la partita, ma su come entrare sul mercato cinese e come fare joint venture con imprese cinesi in Cina. Questa è la sfida competitiva. Invece che difendere posizioni di pura rendita, nel medio periodo indifendibili, occorre puntare sui settori in cui alcune imprese italiane hanno ancora una posizione di riconosciuta leadership tecnologica e manageriale e da questa posizione di forza entrare nel sistema cinese. Sul fronte del costo del lavoro, la battaglia è già persa. Solo le imprese che vogliono internazionalizzare produzione e ricerca, e che hanno qualcosa da offrire in termini di tecnologia e competenze avanzate, possono pensare a un ingresso sul mercato cinese. Qui, la realtà può essere abbastanza problematica per molti. Ma non per tutti. Esistono ad esempio casi di successo nellimpiantistica, società di engineering, microelettronica, meccanica, robotica, diagnostica e pneumatici. I diritti della proprietà intellettuale Per queste imprese italiane innovative il problema non sono né i dazi né il costo del lavoro. Per chi vuole competere e internazionalizzarsi i veri problemi derivano da un sistema di protezione dei diritti di proprietà intellettuale (Ipr) ancora troppo debole e da debolezze strutturali nella corporate governance delle imprese pubbliche e private cinesi. A questo livello, la partita si gioca in Cina e negli organismi internazionali preposti al controllo del rispetto degli Ipr. Per lItalia, il rischio del dibattito sui dazi è che si focalizzi ancora una volta sulla difesa di un pattern di specializzazione settoriale che ci condanna sempre più ai margini della competizione internazionale tra paesi avanzati, piuttosto che su attori e strumenti che potrebbero consentire al paese di rifocalizzare le proprie – enormi – energie imprenditoriali verso quei settori che offrono prospettive di sviluppo nel lungo periodo.
La Cina rappresenta una grande sfida, ma anche una grande opportunità.
Una grande sfida perché sta ampliando la sua produzione anche sui prodotti medium-tech e high-tech. Limmagine di un sistema produttivo che compete solo sul basso costo del lavoro appare, nel migliore dei casi, come una mezza verità. La specializzazione settoriale cinese sta cambiando rapidamente, spostandosi dai settori tradizionali (dove il basso costo del lavoro rimane la principale fonte di vantaggio competitivo) verso i settori dove le competenze, linnovazione e gli investimenti in ricerca e sviluppo svolgono un ruolo fondamentale. Anche se completamente assente dal dibattito nostrano, il punto fondamentale da ricordare è che le esportazioni cinesi in settori tecnologicamente avanzati stanno aumentando rapidamente. Il tasso di crescita delle esportazioni high-tech cinesi dalla metà degli anni Novanta ha superato il 20 per cento annuo, di gran lunga superiore ai tassi di crescita delle esportazioni manifatturiere cinesi e a quelli delle esportazioni high-tech di paesi quali Taipei, Hong Kong, Corea, Stati Uniti ed Europa. È vero che il livello di partenza era relativamente ridotto, ma la performance cinese è assolutamente eccezionale. Dinamica assai diversa rispetto allItalia, che continua a mostrare una specializzazione internazionale bloccata sui settori tradizionali, e che casomai si sta despecializzando nellalta tecnologia
Va aggiunto che la presenza di centri di ricerca e sviluppo aperti da imprese straniere in Cina è in forte espansione. Sono ormai dieci anni che il Governo cinese punta ad attrarre investimenti esteri in settori a media e alta tecnologia, offrendo incentivi di varia natura alle imprese dei paesi avanzati che vanno in Cina per investire in innovazione (e non solo alle imprese cinesi che investono in R&S). Certo, in Cina si fa ancora molto più sviluppo che ricerca applicata e ricerca di base, ma i trend di crescita sono ormai ben chiari. È stato stimato che sono presenti in Cina più di quattrocento laboratori non cinesi di R&S, con un ampio uso di ingegneri cinesi, numerosi e a basso costo. Non a caso, in una recente indagine promossa dallEconomist Intelligence Unit http://www.eiu.com/site_info.asp?info_name=eiu_scattering_seeds_of_invention, la Cina emerge come la destinazione preferita in termini di localizzazione degli investimenti di ricerca e sviluppo dai top manager di un campione di imprese Ocse, davanti a Stati Uniti, India, Regno Unito e Germania.
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Massimo Portolani
Egregi Professori,
Per l’esperienza diretta che ho della Cina concordo con voi sul fatto che la sfida sul costo del lavoro sia ovviamente improponibile però ho seri dubbi sul fatto che esportare tecnologia sarà un beneficio per l’Italia. In ogni caso questo si sta già facendo e il governo cinese é abile nell’attrarre investimenti di questo tipo però pone vincoli alla vendita sul mercato interno e gran parte dei prodotti devono essere riesportati. Questi prodotti verranno (e vengono) riesportati in Italia, ove il consumatore beneficerà, si spera, di una riduzione dei prezzi.
Salvo che gran parte della riduzione non se ne vada in rendite di posizione di chi, magari proprio grazie allo sfruttamento dei propri marchi, impedisce un calo effettivo dei prezzi e si intasca la differenza.
In ogni caso occorre ricordare che il consumatore é lo stesso operaio che di giorno fa il produttore per 8 ore e poi si trasforma in consumatore. Se perde il lavoro in seguito alla delocalizzazione (perché il trasferimento di tecnologia non fa altro che aumentarla) difficilmente avrà il denaro necessario per acquistare i beni che non contribuisce più a produrre.
E’ evidente che non si può fermare il mondo e se si mettono in comunicazione due recipienti a diverso livello, la tendenza é al livello intermedio, con una crescita per il paese più povero e una perdita per il paese più ricco. Poi, forse, l’aumentata efficienza potrà portare un miglioramento per tutti. Quello che si dovrebbe fare é rallentare il cambiamento, per dare il tempo alle persone di adattarsi alla nuova realtà, anche perché la crescita cinese non sia eccessivamente veloce, con ovvi problemi anche per loro.
Per quanto mi riguarda la Cina potrebbe essere vicina in quanto turisti per noi. Le ricchezze culturali e la bellezza del nostro paese non ce le possono copiare e saranno ben lieti di venire a spendere i loro soldi per visitare Venezia o Firenze.
Se io dovessi amministrare questo paese, penserei alle infrastrutture per il turismo, a cominciare dalla compagnia aerea di bandiera, che é ridotta ad un livello ridicolo. I miei amici di Hong Kong mi dicono: ma perché l’Alitalia non viene più qui? Mi risulta che l’Alitalia in questo momento voli solo su Shangai.
Ho letto recentemente un articolo secondo il quale i Cinesi vengono si in Italia, ma passano per Francoforte. I tedeschi organizzano tutto e poi li portano a Venezia con i pullman e a noi lasciano gli spiccioli del panino o del souvenir.
E cosa dire della Salerno-Reggio Calabria e di tante altre problematiche che dovrebbero essere aggiustate per diventare un paese in grado di beneficiare della sua unicità come dovrebbe.
Secondo me é a questo che occorre guardare, non a fantomatiche grandi aziende che dovrebbero essere in grado di competere, o a rendite da proprietà intellettuale.
La realtà italiana ce l’abbiamo davanti agli occhi: potenza politica o militare quasi nulla, possibilità di competere sul costo del lavoro nulla, molte piccole aziende che stanno per essere sacrificate, con l’aiuto di irap e normative varie (Balisea 2, Rohs/weee etc.) e che peraltro sono disprezzate, perché si ritiene siano incapaci di competere.
L’unica cosa che abbiamo che nessuno ci può togliere, se non ci invadono o non ce la vendiamo, é la ricchezza culturale, paesaggistica e folcloristica del nostro paese.
I cinesi saranno ben lieti si pagarci per venire a vederla.
L’importante é essere pronti a riceverli e a far si che i
soldi restino da noi e vengano ben redistribuiti.
Cordiali saluti
Massimo Portolani
Marco Wong
Alcune considerazioni dalla mia esperienza personale, ho rappresentato alcune aziende italiane in Cina in settori high tech, ed adesso rappresento un’azienda high tech cinese in Italia, e quindi credo di essere un segno dei tempi.
Se è vero che l’industria cinese spesso si basa sul differenziale del costo del lavoro, è anche vero che nelle aziende cinesi c’è una maggior propensione al rischio ed all’investimento nell’ammodernamento delle proprie infrastrutture interne, macchinari e tecnologia. Non è un caso che uno dei settori nei quali il Made in Italy si difende ancora bene in Cina è la meccanica per linee ed impianti produttivi.
Il posizionamento dell’industria italiana deve essere su un piano diverso nella catena del valore aggiunto nel quale sia più cliente che concorrente dell’industria cinese.
giovanni
Il turismo è indubbiamente una risorsa, ma un paese che perde la sua indusatria manifatturiera dipende dall’estero per le importazioni di prodotti finiti e beni di consumo.
Dobbiamo già ricordare che l’Italia dipende dall’estero anche per le importazioni di materie prime e di energia che non produce a sufficienza.
Non essere autosufficienti in niente non è positivo per la sovranità di uno stato, che è ricattabile in politica estera con la minaccia di tagliare il gas (vedi russia), l’energia o le esportazioni di manfatti se non fa una politica accomodante verso i suoi “fornitori”.
Non ritengo che la competizione sul costo del lavoro sia persa. La Cina prima o poi dovrà fare delle aperture democratiche e delle concessioni ai diritti dei lavoratori. Finchè l’80%della forza lavoro resta in agricoltura e una minoranza nelle industrie il problema non si pone.
Ma con una trasformazione simile a quella dell’Italia nel dopoguerra che ribalta queste percentuali a favore dell’industria, c’è da aspettarsi un movimento che chiede diritti e salari equi.
Questo è indispensabile a creare un mercato interno cinese dove i cinesei hanno reddito per comprare ciò che producono. Perchè l’economia non potrà reggersi in eterno sulle esportazioni e sul consumismo degli Usa.
Una rivalutazione dello yuan è auspicata da più parti e non renderebbe così conveniente l’assunzione di manodopera cinese.
Il lavoro cinese costa poco finchè l’euro continua ad avere un cambio privilegiato con lo yuan e finchè la forza lavoro cinese non pretende diritti e tutele degli occidentali.