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L’indipendenza dei giornali

I giornali sono un bene pubblico, come tutelarne l’indipendenza? I quotidiani italiani ricevono un sussidio pubblico che costa ai contribuenti almeno 50 milioni di euro e non ha alcuna giustificazione. Su questo si potrebbe far leva per imporre alle proprietà l’introduzione negli statuti di regole simili a quelle suggerite da Luigi Einaudi, secondo il quale “Il direttore dovrebbe essere l’unico responsabile dell’indirizzo politico, economico, finanziario e generale del giornale. Una volta nominato non dovrebbe essere licenziato, né dovrebbe subire limitazioni”.

Le cronache raccontano che Stefano Ricucci potrebbe essere arrivato alla fine della sua corsa verso il controllo di Rcs e quindi del Corriere della Sera, con qualche conseguenza per la sua stabilità finanziaria e quella delle banche che lo hanno finanziato. E tuttavia sarebbe un errore se questo assalto, qualora si spegnesse, venisse presto dimenticato, anziché suggerire una riflessione più generale sulla proprietà e l’indipendenza dei giornali in Italia

Proprietà e indipendenza dei giornali

I giornali quotidiani non sono prodotti qualunque: hanno le caratteristiche di un bene pubblico perché l’informazione, soprattutto quando accompagnata da inchieste serie e originali—vedi, per citare due esempi recenti, l’inchiesta del Sole-24 Ore proprio su Stefano Ricucci e quella di Paolo Biondani e Guido Olimpio sull’imam Abu Omar pubblicata sul Corriere della Sera–è un bene pubblico. Basti pensare alla possibilità di influenzare i lettori, con una combinazione scaltra di proprietà, scelta del Direttore, nei confronti di una legge particolarmente favorevole o dannosa per un’impresa.
La Legge sull’editoria, approvata negli anni Ottanta (legge 5 agosto 1981, n. 416, successivamente modificata con la legge 7 marzo 2001, n. 62), fu il primo tentativo di affrontare questi problemi. Se Stefano Ricucci conquistasse la maggioranza del cda di Rcs egli potrebbe cambiare il direttore del Corriere, ma non prima di aver reso trasparenti le società lussemburghesi attraverso le quali avesse acquisito il controllo.

La proposta di Luigi Einaudi

In un articolo pubblicato su Foreign Affaire nell’aprile del 1945, Luigi Einaudi scriveva: “Il Direttore dovrebbe essere l’unico responsabile dell’indirizzo politico, economico, finanziario e generale del giornale. Una volta nominato non dovrebbe essere licenziato, né dovrebbe subire limitazioni senza il consenso di un comitato di fiduciari (Board of Trustees) composto da uomini di sicura stima”. In Italia i giornali appartengono a società quotate: non è evidentemente possibile imporre vincoli particolari, al di là di quanto previsto dal Codice civile. E tuttavia vi è una via per indurre la proprietà di un giornale ad adottare liberamente quanto propone Einaudi.

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Come usare in modo intelligente il contributo pubblico ai giornali

La Legge 7 marzo 2001, n. 62, “Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali” prevede vari sussidi per le società che pubblicano quotidiani, nella forma di agevolazioni fiscali e di un contributo per l’acquisto della carta. Per far fronte agli oneri previsti nella legge venivano stanziati, per il solo 2003, circa 50 milioni di euro, una somma non grande, ma neppure trascurabile (tra l’altro non è chiaro se la stima di questo onere includa il mancato gettito derivante da varie agevolazioni fiscali. Inoltre non siamo riusciti a trovare traccia dello stanziamento per gli anni 2004 e successivi pur sapendo che il contributo non è stato cancellato.)
E’ difficile giustificare questo contributo e sarebbe meglio cancellarlo: se infatti si accettasse il principio che le aziende che producono beni definibili “pubblici” meritano un sussidio dello Stato, si formerebbe subito una lunga coda davanti alle porte del Parlamento. Ma fintanto che il contributo esiste almeno potrebbe essere usato con intelligenza, riservandolo a quei quotidiani che introducano negli statuti delle società che li possiedono, regole simili a quelle suggerite da Einaudi.
E’ evidente che queste regole potrebbero essere facilmente cancellate da un nuovo proprietario. Egli perderebbe il contributo pubblico, ma questo potrebbe valere meno della possibilità di nominare un direttore “amico”. E tuttavia in questo modo si introdurrebbe un po’ di sabbia nel meccanismo rendendo almeno più trasparenti i motivi che inducono un proprietario a sostituire il direttore.

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Quel nido di vipere

  1. Filippo Sbrana

    Mi permetto di formulare una modesta proposta: perchè non iniziare a far circolare l’idea di un giornale i proprietà dei lettori? Io sono da anni un lettore del Corriere e sarei pronto ad acquistare una piccola quota della proprietà per far sì che possa rimanere (o meglio diventare ancora più) indipendente; ma credo che ci siano centinaia di migliaia di persone che come me sarebbero disposte a farlo.
    Perchè non iniziare a far girare qualche idea al riguardo, anche per valutare le adesioni e la fattibilità? Lo spirito dell’iniziativa sarebbe molto sintonico con quello del vostro sito.
    Rallegramenti per la vostra attività e saluti
    Filippo Sbrana

  2. alias

    Forse si potrebbe rispolverare l’idea di lord Kaldor, di tassare progressivamente i giornali in base alla quantità di pubblicità che attraggono. In questo modo si porrebbe un freno al proliferare di magazine (poveri di contenuti e ricchi, appunto, di pubblicità), si incentiverebbe il risparmio della carta, e forse si darebbe un incoraggiamento ai piccoli editori.

  3. Alessio

    Ritengo che la presenza o meno del contributo pubblico, per quanto ingente, sia poco influente sulla condotta di un giornale. Un gruppo economico (al limite anche una sola persona) potrebbe non avere interesse a ricavare utili da un giornale, ma potrebbe essere molto più interessato ad avere un giornale in perdita, che però crei opinione a suo piacimento. In Italia siamo pieni di esempi al riguardo.

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