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Le cooperative e la finanza

L’accesso alle attività nel mercato finanziario non snatura le imprese cooperative. E infatti vi operano già da decenni. La loro peculiarità si fonda piuttosto sulla democraticità interna, sulla trasparenza, sulla centralità e il coinvolgimento dei soci. Il vero problema è allora la scarsa contendibilità delle cooperative. Che devono perciò sopportare gli inevitabili costi di un passaggio a regole di governance “democratica” se non vogliono correre il rischio di essere condannate a rimanere piccole da retorici richiami ai principi mutualistici.

Nel classico polverone delle italiche discussioni estive questa volta sono finite le cooperative. Si è diffusa l’idea che, al di là della valutazione della regolarità delle procedure e del merito industriale dell’operazione, l’offerta Unipol sulle azioni della Bnl rappresenti in se per sé una anomalia in quanto del tutto estranea alle finalità delle cooperative: l’accesso al mondo della finanza comporterebbe una sorta di snaturamento del dna dell’impresa mutualistica. In queste discussioni, accanto a seri tentativi di analisi vi sono anche poco nobili strumentalizzazioni politiche, che finiscono per aumentare la confusione e, paradossalmente, occultare i veri e spinosi problemi che le cooperative devono, ma spesso non vogliono, affrontare.

Un’attività consolidata

È veramente singolare che dopo decenni di consolidate esperienze delle cooperative nel mercato finanziario, qualcuno si accorga ora che questo sarebbe un pericoloso diavolo tentatore da evitare a tutti i costi. In particolare, le imprese di assicurazione da tempo realizzano una strettissima integrazione con altre attività, non soltanto sul piano organizzativo attraverso lo sfruttamento dei canali distributivi delle banche, ma anche su quello dell’offerta dei prodotti, alcuni dei quali hanno un contenuto quasi esclusivamente finanziario. Ed è una integrazione ormai riconosciuta dall’ordinamento che manifesta una inequivocabile tendenza ad uniformare la regolamentazione dei diversi prodotti e comparti, tutti ricompresi, nella recente direttiva comunitaria sui conglomerati, nell’ambito del “settore finanziario“.
Si può discutere sulla validità e opportunità di queste scelte sotto il profilo strategico, ma negare a una impresa cooperativa (o controllata da cooperative) la possibilità di effettuarle non ha senso: il carattere delle mutualità, che consiste nella gestione di servizio a favore dei soci, non è, né è mai stato, esclusivo di alcune attività. Anzi, la finanza consente occasioni di crescita e di sviluppo che lo possono ulteriormente valorizzare. E, almeno per chi non ha una concezione ottocentesca della cooperativa, proprio non si capisce per quale motivo la “grande” dimensione dovrebbe giustificarsi solo quando si vendono saponette o si costruiscono case.
Il nostro ordinamento riconosce il servizio mutualistico, prescindendo da qualsiasi limite settoriale e dimensionale. Pone però precisi vincoli nella distribuzione degli utili e lega le incentivazioni fiscali alla prevalenza dei rapporti con i soci.

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Le deleghe di voto e la rotazione degli amministratori

Proprio in virtù di queste caratteristiche, le cooperative si distinguono per alcune “peculiarità” che rappresentano la ragione stessa della loro esistenza. Devono cioè avere una governance incardinata su principi di democraticità e partecipazione dei soci. La democrazia interna, la trasparenza, la centralità e il coinvolgimento dei soci, la considerazione nelle prassi gestionali di una molteplicità di interessi collettivi, sono elementi intimamente legati con le finalità mutualistiche.
Se le cooperative, come in fin dei conti è naturale, intendono ampliare la propria operatività e conquistare nuovi terreni per competere sui mercati, devono conservare e valorizzare simili peculiarità, che invece, ed è appunto questo il problema, corrono il rischio di essere fortemente appannate, se non del tutto annullate. Qualche esempio concreto può essere utile.
Oltre ai vincoli alla distribuzione degli utili, vi sono alcuni istituti che sono propri del modello cooperativo, come il principio “una testa un voto“: rappresenta la massima espressione di democrazia societaria e, secondo molti, avvicina di fatto le cooperative alla forma pura di public company. È evidente però che, soprattutto nella grandi e grandissime cooperative con una compagine sociale diffusa, il voto per testa finisce con il disincentivare la partecipazione dei soci e scoraggiare un effettivo ed efficace monitoraggio dell’operato degli amministratori, i quali, oltretutto, non subiscono nemmeno l’effetto “minaccia” derivante da possibili ricambi del controllo non graditi. Le cooperative non sono adeguatamente contendibili.
La recente riforma societaria ha in qualche modo tentato di affrontare questi problemi con scelte in alcuni casi coraggiose, che però in alcuni casi non sono sufficienti, e in altri sono state successivamente svuotate.
Così, la possibilità di raccogliere deleghe di voto potrebbe rappresentare un utile strumento per favorire l’organizzazione dei soci, il controllo e il ricambio delle gestioni amministrative. Ma la soglia prevista di un massimo di dieci voti esercitabili per delega, nelle cooperative con migliaia di soci, risulta irrisoria e del tutto insignificante. E, proprio in una prospettiva di maggiore “democraticità”, la riforma societaria aveva imposto l’obbligo di rotazione per gli amministratori, con la indicazione di un tetto massimo di tre mandati consecutivi. Era quella una norma tecnicamente migliorabile, ma che mirava proprio a prevenire i rischi di autoreferenzialità degli organi di governo delle cooperative denunciati, è bene ricordarlo, dalle stesse organizzazioni di categoria. Tuttavia, un successivo decreto correttivo ha repentinamente “riformato la riforma”, abolendo la disposizione senza che si sia levata alcuna voce contraria.
Non vi è alcun dubbio che le regole di una governance “democratica” presentano costi di applicazione. Ma sono sacrifici che le cooperative devono necessariamente e con lungimiranza sopportare se vogliono crescere marcando la loro diversità organizzativa rispetto alle altre società.
Altrimenti, il pericolo è che il richiamo ai principi mutualistici diventi vuota retorica e che trovino sempre più ascolto le ragioni di chi le vuole “piccole e nane”.

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Un fallimento troppo “amministrato”

  1. Marco De Rossi

    Ho esperienza diretta di cooperative, perchè ne sono personalmente socio da 3 anni e perchè la mia famiglia è socia da molti anni di cooperative edilizie. Proverò a sintetizzare qualche osservazione che, com’è chiaro, richiederebbe ben altro spazio espositivo.
    In primo luogo le assicuro che i principi di democraticità e di partecipazione di cui parla sono del tutto teorici e che il ruolo dei singoli soci è molto limitato, anche nelle cooperative piccole (30 soci). L’unico momento di vera partecipazione è l’approvazione del Bilancio, che però può essere redatto in modo da risultare del tutto incomprensibile anche a chi conosce la materia. La richiesta di informazioni di carattere contabile, inoltre, rimane spesso senza risposte e molte altre cose limitano la partecipazione dei soci. Quasi come se si l’adesione fosse di tipo fideistico e che l’unica possibile scelta per i soci fosse quella di partecipare in modo accondiscendente oppure di uscire dalla società.
    Inoltre ho potuto leggere personalmente diversi statuti di cooperative – oltre a quella di cui faccio parte – che sono spesso redatti in modo da blindare la gestione nelle mani di chi ha promosso la cooperativa stessa.
    Un dato che, infine, andrebbe tenuto maggiormente in debito conto è che spesso queste cooperative raccolgono milioni di euro da privati cittadini, svolgendo nella sostanza una funzione di raccolta di pubblico risparmio, senza che ci siano adeguati controlli al riguardo. Al riguardo la vicenda del fallimento delle coop edilizie del Lazio sono state molto significative.
    Per questo ritengo che i proncipi della cooperazione siano condivisibili, come lei ha scritto, anche per attività e dimensioni grandi, ma che sarebbe necessario un maggior controllo ed una maggiore trasparenza sul loro operato, al di là delle critiche strumentali. E’ veramente assurdo, per fare un solo esempio, che le cariche sociali possano essere rinnovate senza scadenza: quale democraticità permette?

    • La redazione

      La ringrazio per le Sua osservazioni che però confermano l’utilità di adottare strumenti concreti, come quelli che propongo, per far sì che i principi di democraticità non si risolavano in comodi quanti inutili slogan. Aumentare il numero dei voti esercitabili per delega e mettere un limite ai mandati degli amministratori potrebbe proprio contribuire a prevenire quei fenomeni così diffusi che Lei denuncia. Aggiungo solo che il Suo commento suggerisce anche l’opportunità di un incremento della trasparenza e dell’informazione verso i soci, anche attraverso una sua semplificazione, in modo da rendere a tutti comprensibili le materie sulle quali decidere (ad esempio il bilancio) e quindi favorire un voto realmente consapevole.

  2. Marcello Costato

    Benvenuto questo articolo !
    Chiunque segua da anni le vicende e lo sviluppo del mondo cooperativo, avrà notato come, accanto ad un incremento delle dimensioni, dell’efficienza e delle economie di scala di queste imprese, sia cresciuto un management di alto profilo che assomiglia però sempre di più a quello di certe corporation americane ad azionariato diffuso, ove prevale l’interesse dello sviluppo.
    Questo articolo, prescindendo da polemiche correnti e da interpretazioni politiche, mi pare dia utili suggerimenti al mondo cooperativo perchè nei limiti della crescita, sappia anche essere, restando fedele alle sue tradizioni, un esempio per l’attuazione di quella che una volta veniva denominata “industrial democracy”
    Grazie, caro Francesco Vella
    Marcello Costato

  3. Marco Solferini

    Concordo pienamente con il fatto che i principi di mutalità e democrazia delle Cooperative non escono intaccati, di per sé, da un ingresso, magari ponderato, sui mercati più tipici della finanza, peraltro realizzabile anche con un minimo di ingegneria societaria per ovviare a qualche commistione di troppo. Tuttavia credo che la polemica estiva riguardasse non tanto la forma cooperativa in sé quanto, purtroppo certune coop in ragione della loro provenienza geografica. Questo ha certamente reso un argomento interessante, una polemica di quartiere. Le coop rappresentano un valore e un grande potenzialità ove è dato di riscontrare anche una italianità. Certamente sono meritevoli e declassarle a una serie B non è democratico.

    • La redazione

      Grazie per il commento. A prescindere dalle più svariate ragioni della polemica estiva, ciò che non è ammissibile è nascondere queste ragioni dietro una inesistente incompatibilità tra modello cooperativo e attività finanziaria, incompatibilità del tutto estranea al nostro ordinamento.

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