La riforma della Banca d’Italia presentata dal Governo compie il solo “miracolo” di lasciare tutto come prima, aggravando la situazione. Si definisce il mandato a termine, ma manca la disciplina transitoria per garantire un rapido ricambio. Molta incoerenza anche sulla questione della collegialità nell’esercizio dei poteri di vigilanza. L’intervento sull’assetto proprietario della Banca previene un conflitto di interessi che non c’è. Per infilarsi in un labirinto: come valutare le quote di partecipazione che le banche dovranno cedere allo Stato.

Non sappiamo ancora quale sarà l’esito del braccio di ferro con il Governatore, ma sicuramente la riforma presentata dal Governo come frutto di un accordo dovuto a un ulteriore miracolo di “San Silvio”, un miracolo lo ha effettivamente compiuto: quello di lasciare tutto come prima aggravando una situazione già di per sé difficile.

Il vero “segnale istituzionale”: la norma transitoria

Una volta definito, finalmente, il mandato a termine si è rinunciato a qualsiasi tentativo di introdurre una rigorosa disciplina transitoria in grado di garantire un rapido ricambio nella conduzione della Banca d’Italia: le infinite discussioni e la crisi istituzionale di questi giorni si sarebbero potute evitare con un coraggiosa e coerente normativa che avrebbe, questa sì, lanciato un “segnale istituzionale” inequivocabile. E bisogna tener presente che l’ormai tanto famoso, quanto poco letto, parere della Banca centrale europea del dicembre 2004 non impediva affatto l’inserimento di una equilibrata norma transitoria, ancor più giustificata quando la riforma non riguarda solo la figura del Governatore, ma investe l’intera struttura di governance, introducendo profonde trasformazioni che meritano di essere operative in tempi rapidi.
Ed è veramente bizzarra, a proposito di credibilità internazionale, la rinuncia a una norma transitoria nel timore di un parere contrario della Bce mentre contemporaneamente la stessa Bce chiede di intervenire.
Analoga pavidità e totale incoerenza emerge dalla cosiddetta collegialità. Se, come recita la dotta citazione della relazione presentata dal ministro del Tesoro, “bisogna avere fede nelle banche centrali e non nei banchieri centrali in quanto individui” non si capisce perché si attribuisce al direttorio soltanto il potere di fornire pareri lasciando i poteri decisionali in capo al Governatore. Qualcuno dimentica che per natura i poteri di vigilanza bancaria conservano sempre un certo spazio di discrezionalità: la migliore prevenzione contro un loro utilizzo patologico è una decisione realmente collegiale, possibilmente presa da soggetti competenti, autonomi e indipendenti.
Le proposte di emendamento della redazione di lavoce.info si muovono, opportunamente, proprio in questa direzione.

Conflitti inesistenti: il labirinto degli assetti proprietari

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Ogni miracolo, si sa, contiene qualcosa di misterioso e anche quello di “San Silvio” non si smentisce. Si è deciso infatti di intervenire sull’assetto proprietario della Banca d’Italia per prevenire un conflitto di interessi che, come schiere di commentatori avevano ribadito in tutte le salse, non esiste e non è mai esistito.
Le quote di partecipazione detenute dalle banche, che notoriamente nella storia non hanno mai consentito a queste la benché minima possibilità di incidere sugli indirizzi di vigilanza, né su qualsiasi altro aspetto dell’attività della Banca d’Italia, vengono ora trasferite allo Stato o ad altri enti pubblici. A prescindere da ogni facile ironia su come nel nostro paese si adottano draconiane misure di intervento sulla proprietà nei conflitti di interesse inesistenti, mentre per quelli veri si utilizzano linee decisamente più accomodanti, per usare un eufemismo, , non si capisce cosa succederà: tutto è rinviato a un comodo, e appunto misterioso, regolamento governativo.
Il problema è come valutare le quote di partecipazione che le banche, secondo l’emendamento approvato dal Consiglio dei ministri, dovranno cedere allo Stato. Il capitale nominale della Banca d’Italia è pari a 156mila euro, suddiviso in quote del valore di 0,52 euro ciascuna, e il dividendo che la Banca paga ogni anno ai detentori delle quote è di 15.600 euro (il 10 per cento del capitale nominale). Quest’ultima cifra rappresenta la redditività attuale dell’asset per i detentori delle quote di partecipazione (per contro, la Banca ha pagato nel 2004 un dividendo di 15,3 milioni di euro al Tesoro). Una possibile stima del valore economico delle quote è stata prospettata da Marco Panara su Repubblica: valutare le quote di partecipazione alla stregua di un titolo che dà una rendita annua perpetua di 15.600 euro, vale a dire poco più di 300mila euro (circa 1 euro per ciascuna quota), utilizzando un tasso di interesse del 5 per cento.
Una soluzione che guardasse alla sostanza delle cose dovrebbe partire dalla premessa che, in considerazione delle particolari caratteristiche dell’organizzazione istituzionale della Banca d’Italia, qualsiasi esborso dalle casse del Tesoro (o del patrimonio della Banca d’Italia) che andasse oltre queste valutazioni costituirebbe un impoverimento della collettività.
Le banche, tuttavia, hanno iscritto nei loro bilanci valori molto superiori e molto difformi tra loro: la valutazione di una singola quota varia da 41,3 euro per Banca Carige a 13.781 euro per Bnl. Vendere le proprie quote allo Stato al prezzo di 1 euro si tradurrebbe in pesanti minusvalenze.
Deve la collettività farsi carico di questo problema? La riposta dovrebbe essere negativa, tranne che in un caso. Secondo lo Statuto della Banca d’Italia, la partecipazione maggioritaria al capitale deve essere in capo a soggetti pubblici. L’errore è stato commesso all’atto delle privatizzazioni allorché non si è intervenuti per conservare questo assetto. Gli investitori che hanno acquistato le azioni delle banche privatizzate hanno pagato anche per le quote della Banca Centrale, al valore cui erano iscritte allora nei bilanci. Si dovrebbe, pertanto, riconoscere a queste quote un valore coerente con quello assegnato all’atto della privatizzazione, senza attribuire nessuna considerazione per ogni successiva rivalutazione delle quote. Appaiono però evidenti le sperequazioni tra banche che anche in questo modo si genererebbero.
Si tratta, quindi, di un bel pasticcio che ci terrà occupati per i prossimi mesi. Forse la soluzione migliore sarebbe mantenere lo status quo  (in questa direzione vanno gli emendamenti proposti da lavoce che separano proprietà e controllo) e rinviare le decisioni sull’assetto proprietario della Banca a una più approfondita riflessione. Si potrebbero allora prendere in considerazione altre proposte, decisamente meno rischiose e più equilibrate come quella, già avanzata nel passato, di trasformare la Banca d’Italia in una fondazione che ricompra le quote dalle banche per poi annullarle.
Risolta la questione della proprietà, diverrebbe superflua l’assemblea dei partecipanti al capitale di Banca d’Italia; lo Stato potrebbe nominare il consiglio superiore, con procedure che garantiscano la scelta dei relativi membri tra soggetti particolarmente qualificati, indipendenti e autorevoli. Lo Statuto andrebbe poi emendato per assicurare all’Istituto, nell’ambito dei poteri di autorganizzazione propri di ogni ente pubblico, gli spazi di autonomia funzionale e finanziaria inderogabilmente richiesti dall’ordinamento comunitario. D’altronde, è questo un modello adottato anche in altri ordinamenti.
La strada verso una coerente e rapida riforma delle Autorità di vigilanza è ancora lastricata di molti ostacoli, ma per superarli, più che i miracoli, serve, forse un po’ di buon senso.

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