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Perché restano piccole imprese

In Italia ogni anno viene creato e distrutto un gran numero di imprese. Ma questo processo non tende necessariamente a dirigere risorse verso quelle più produttive e con maggiori potenzialità di sviluppo. I costi associati alla “creazione distruttrice” non sono perciò affiancati dai potenziali benefici in termini di produttività e occupazione. Rimuovere i vincoli all’investimento innovativo e alla crescita d’impresa, incluse le soglie dimensionali oltre le quali vengono meno sussidi e agevolazioni, sono dunque due aspetti prioritari di politica industriale.

L’articolo di Riccardo Faini apparso su lavoce.info il 19 settembre offre nuovi spunti di riflessione sul ruolo delle piccole imprese nell’economia italiana. Questa analisi è particolarmente importante nel dibattito più ampio sulle prospettive di crescita del nostro paese e sui vincoli strutturali all’innovazione e progresso tecnico. Negli ultimi anni ci siamo abituati a diagnosi sempre meno esaltanti sullo stato di salute della nostra economia: la crescita del Pil si è attestata su valori modesti; le imprese italiane sembrano perdere quote del mercato internazionale e gli istituti di previsione economica sono spesso costretti a rivedere al ribasso le loro stime sulla crescita. Ma è importante soprattutto se si guarda a quello che sembra un inesorabile declino del “progresso tecnico”. Quest’ultimo, che può essere approssimato con l’evoluzione della produttività totale dei fattori, cioè la crescita del valore aggiunto di un paese legata a un migliore utilizzo di capitale e lavoro, è diminuito costantemente dagli anni Ottanta e si attesta negli ultimi anni su valori relativamente modesti rispetto a molti paesi Ocse. (1) In altre parole, uno dei motori fondamentali della crescita economica, se non è ancora in panne, arranca.

Il fattore ambientale

Faini sottolinea un punto importante: forse la politica industriale del nostro paese si è crogiolata troppo su quel miracolo italiano rappresentato dalle piccole imprese a conduzione familiare e non si è occupata dei vincoli alla crescita dimensionale e all’innovazione che in un mondo globale diventano sempre più rilevanti. Guardando ai dati per un gruppo di paesi Ocse, l’articolo rileva in primo luogo come le piccole imprese non siano un fenomeno esclusivamente italiano: quelle sotto i venti addetti rappresentano in tutti i grandi paesi Ocse più dell’ottanta per cento del totale. Nota però che nel comparto manifatturiero l’Italia ha una quota di piccole imprese relativamente alto rispetto ad altri paesi Ocse e che in questo settore le piccole imprese assorbono, tra l’altro, una quota superiore della manodopera totale. Faini sottolinea inoltre come non sembra esservi una relazione diretta tra piccole imprese, conduzione familiare e limitata crescita dimensionale. I fattori che scoraggiano la crescita dimensionale e l’innovazione sono forse da ricercarsi nel business environment in cui le aziende operano.
Mi permetto di aggiungere ulteriori elementi a questo dibattito, basandomi su analisi comparative del quadro normativo e istituzionale da un lato, e delle dinamiche d’impresa dall’altro.

Alla buona partenza non segue lo sprint

Rispetto al business environment, l’ultimo rapporto della Banca Mondiale sulla “Pratica degli affari” (Doing Business) ha una conclusione inquietante: l’Italia è al settantesimo posto di una graduatoria di centocinquantacinque paesi, penultimo tra i paesi Ocse (davanti solo alla Grecia) e addirittura dopo molti paesi in via di sviluppo, tra cui Zambia, Kenya e Bangladesh. Se si guarda nel dettaglio, si comprende quali siano le anomalie del sistema italiano che pongono il paese in un così forte svantaggio rispetto ai suoi partner internazionali. In particolare, a supporto del messaggio di Faini, non sono i vincoli amministrativi e burocratici legati alla creazione d’impresa che penalizzano l’Italia, ma i vincoli alla crescita dimensionale della nuova impresa.
L’Italia, infatti, si colloca relativamente bene nel confronto internazionale rispetto al tempo necessario alla registrazione di una nuova impresa e al suo relativo costo. Setting up a new business richiede, secondo lo studio, un numero di giorni inferiore rispetto alla media Ocse, un costo leggermente più elevato, ma un capitale minimo sotto la media. Al contrario, lo studio della Banca Mondiale suggerisce che l’assolvimento delle pratiche necessarie all’ottenimento di licenze e permessi richiede in Italia un tempo che è venti volte quello medio dei paesi Ocse, con un costo medio dieci volte superiore. Non sorprende poi, visto il dibattito nel nostro paese e le svariate analisi di organismi internazionali, che il rapporto della Banca Mondiale punti l’indice sulle persistenti rigidità del mercato del lavoro, – in particolare sulle procedure di licenziamento individuale e collettivo dei lavoratori con contratti permanenti.
Altra nota dolente riguarda le procedure per il rispetto dei contratti tra privati, uno degli aspetti fondamentali delle relazioni tra impresa, creditori, fornitori e clienti. Secondo i dati del rapporto, le procedure per il rispetto di un contratto richiedono in Italia un tempo di espletamento cinque volte superiore alla media, con un costo del 70 per cento più alto.

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I confronti internazionali, specialmente quando riguardano complessi quadri normativi e procedurali, sono sempre difficili. Si potrebbe argomentare che l’indicatore del Doing Business su licenze e permessi, facendo riferimento al settore delle costruzioni, non è completamente rappresentativo del quadro generale in cui operano le imprese italiane. O come gli indicatori sulle procedure per il rispetto dei contratti non tengano sufficientemente conto dei diversi sistemi giurisprudenziali dei vari paesi. Il confronto esteso ai paesi in via di sviluppo è anche complicato dal fatto che molte imprese in questi paesi operano nel cosiddetto settore informale, dove norme e procedure amministrative sono in misura più o meno grande ignorate. In realtà, anche l’Ocse, pur usando una diversa metodologia e un set di indicatori parzialmente diverso da quello di Doing Business, classifica l’Italia agli ultimi posti per quanto riguarda le regolamentazioni sul mercato dei prodotti. Gli indicatori dell’Ocse rilevano significative riforme negli ultimi anni (1998-2003). Ma queste riforme non sono state sufficienti a far risalire posizioni all’Italia perché i partner internazionali hanno fatto altrettanto, se non di più. (2) In sintesi, pur con tutte le precauzioni del caso, questi confornti internazionali sullo stato del business environment italiano evidenziano possibili vincoli allo sviluppo delle nostre imprese.

Con questi elementi di confronto a livello internazionale si può meglio interpretare il dato sottolineato da Faini. Le piccole imprese non crescono nel nostro paese, non solo per una preferenza verso il piccolo a conduzione familiare, ma anche perché è costoso espandere l’impresa, assumere nuovi addetti e adottare tecnologie innovative che, pur potendo apportare miglioramenti produttivi, richiedono una maggior esposizione finanziaria e rischi addizionali.

Un motore che non gira

Ma quali sono gli effetti sul sistema economico delle piccole imprese che non crescono?
I dati micro rivelano come in tutti i paesi Ocse le nuove imprese tendano a essere più piccole della media di quelle esistenti. (3) Concentrandoci sul settore manifatturiero, possiamo notare come le differenze emergono quando si guarda alla produttività delle imprese che entrano nel mercato e alla loro evoluzione nei primi anni di vita. In Italia le start up partono bene, con livelli di produttività del lavoro simile, se non superiore, a quello delle imprese già esistenti. Negli Stati Uniti, al contrario, la produttività delle start up è mediamente inferiore a quello delle imprese esistenti. Ma il processo di selezione del mercato negli Stati Uniti sanziona le imprese meno produttive molto di più di quanto non avvenga in Italia e negli altri paesi europei.
Negli Stati Uniti se una nuova impresa ha il consenso del mercato, cresce rapidamente e raggiunge la dimensione media del settore, altrimenti esce e rimette in circolazione le risorse per nuovi progetti d’investimento. In Italia anche le nuove imprese che passano il test del mercato hanno una crescita dimensionale molto più contenuta. Allo stesso tempo, le imprese che escono dal mercato sono nettamente meno produttvive della media negli Stati Uniti, mentre le differenze in Italia sono più moderate.
In altre parole, il processo di “creazione distruttrice” evocato da Joseph Schumpeter come motore fondamentale del progresso tecnico sembra non funzionare a pieno nel nostro paese: molte piccole imprese sono create, ma quelle più produttive non sembrano in grado di espandersi e acquisire nuove quote di mercato. Allo stesso tempo, la selezione del mercato è meno efficace con le imprese meno produttive. Le differenze sono ancora più marcate se ci si concentra sui settori a più alto contenuto tecnologico – quelli cioè con più elevate potenzialità di crescita produttiva. Nel settore high tech le nuove imprese americane entrano già con produttività superiori alla media di quelle esistenti – e le imprese che sopravvivono il test del mercato raddoppiano il numero di addetti nei primi anni di vita. In Italia, ma anche in alcuni altri paesi europei, anche le start up del settore high tech hanno crescite dimensionali più contenute.
In sintesi, l’Italia sembra avere alcuni degli aspetti della “crescita distruttiva” evocati da Schumpeter. In particolare, un gran numero di imprese sono create e distrutte ogni anno, ma questo processo non tende necessariamente a dirigere risorse verso le imprese più produttive e con maggiori potenzialità di sviluppo. In queste circostanze gli inevitabili costi associati alla creazione distruttrice non sono affiancati dai potenziali benefici in termini di produttività e occupazione. Rimuovere i vincoli all’investimento innovativo e alla crescita d’impresa, incluse le soglie dimensionali oltre le quali vengono meno sussidi e agevolazioni, sono, come ricordava Faini, due aspetti della politica industriale su cui forse è tempo di concentrarsi.

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(1)
Si veda Cohen, D., P. Garibaldi and S. Scarpetta (2004) “The ICT revolution: Productivity differences and the digital divide: A report for the Fondazione Rodolfo Debenedetti”, Oxford and New York, Oxford University Press.

(2) Si veda Conway, P., V. Janod and G. Nicoletti (2005), “Product market regulation in OECD countries: 1998 to 2003“, OECD Economics Department Working Paper No. 419.

(3) Si veda: Scarpetta, S., P. Hemmings, T. Tressel and J. Woo (2002), “The Role of Policy and Institutions for Productivity and Firm Dynamics: Evidence from Micro and Industry Data”, OECD Economics Department Working Paper No. 329. Bartelsman, E. S. Scarpetta and F. Schivardi (2005), “Comparative Analysis of Firm Demographics and Survival: Evidence from Micro-Sources in OECD countries”, Industrial and Corporate Changes, Vol. 14, No. 3.

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  1. Claudio Resentini

    Per quello che ne so, Schumpeter parlava di “distruzione creatrice” e non di “creazione distruttrice”. Se il primo termine evoca un processo negativo (la distruzione) che sembra avere un esito positivo (la creazione), il secondo evoca invece un processo positivo (la creazione) che ha un esito negativo (la distruzione).
    Ad ogni modo, per quanto riguarda la questione della presunta rigidità del mercato del lavoro italiano, credo che i processi reali in atto in Italia negli ultimi decenni in campo occupazionale siano meglio descritti con il primo dei due termini: in Italia infatti è da molto tempo che i posti di lavoro vengono sistematicamente distrutti, sacrificati sull’altare della lotta all’inflazione, dell’incremento della competitività, e degli innumerevoli altri feticci del culto neoliberista. Se non che a questa distruzione non pare aver fatto seguito una corrispettiva creazione, a meno che non si vogliano considerare posti di lavoro le “missioni” delle agenzie ex-interinali, le collaborazioni, le fatture delle “finte” partite IVA, il lavoro nero o “grigio”, e tutte le altre fantasiose forme di aggiramento dei diritti dei lavoratori (e conseguentemente dei corrispettivi doveri degli imprenditori) che, per altro, costituiscono altrettanti elementi di flessibilità, diciamo così “creativa”, all’italiana.
    Siamo davvero convinti che continuare ad insistere sulla flessibilità fino a consentire di assumere e licenziare chiunque in qualsiasi momento eliminando totalmente i posti di lavoro e trasformando il lavoro stesso in un mero input di produzione sia un buon servizio all’economia reale?
    I lavoratori sono anche consumatori. O no? O forse sarebbe meglio dire “erano” visto che anche in Italia, come nei “mitici” USA, stanno comparendo i “working poors”. A meno che non si consideri positivamente uno scenario di depauperizzazione che crei le condizioni per una sorta di proletarizzazione di tipo nuovo…
    Cordiali saluti.

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