Lavoce.info

Miti e realtà sulla tassazione delle rendite

Nel nostro paese, i redditi delle attività finanziarie sono tassati con aliquote diverse: 12,5 per cento e 27 per cento. Una differenziazione ingiustificata sotto il profilo dell’equità e sotto quello della neutralità del prelievo. La necessità di arrivare a un’aliquota uniforme è condivisa sia dal centrodestra che dal centrosinistra. Ma su quali livelli? La scelta non può essere il risultato di considerazioni estemporanee, ma richiede di definire prioritariamente il modello di tassazione che si vuole adottare. E l’aumento di gettito non può essere la sola finalità.

Il Governo è da tempo diviso sulla tassazione delle cosiddette “rendite finanziarie“. Anche se un aumento dell’aliquota del 12,5 per cento, attualmente riservata agli interessi diversi da depositi bancari e postali, ai dividendi e plusvalenze su partecipazioni non qualificate e ai fondi comuni, è stato per ora escluso dalla Finanziaria, il dibattito continua. Vediamo di valutare i pro e i contro di una politica di questo tipo e soprattutto di mettere in evidenza come l’aumento di gettito non possa essere la sola finalità di un intervento di riforma in questo campo.

Alcune premesse

Nel nostro paese, i redditi delle attività finanziarie sono tassati con aliquote diverse: 12,5 per cento e 27 per cento.  Questa differenziazione di aliquote non è giustificata, né sotto il profilo dell’equità, né sotto quello della neutralità del prelievo. La necessità di arrivare a un’aliquota uniforme è condivisa sia dal centrodestra che dal centrosinistra.
Molto diversa è stata però sino ad ora l’opinione circa il livello preferibile per tale aliquota.
Mentre il Governo di centrosinistra ipotizzava a suo tempo una convergenza verso un’aliquota del 19 per cento, intermedia fra le due esistenti, quello di centrodestra prevedeva, nella legge delega di riforma del sistema erariale (legge 80/2003), un’aliquota unica al più basso dei livelli attuali: il 12,5 per cento.

Timori infondati

I motivi a favore di una tassazione molto contenuta dei redditi finanziari, illustrati dall’attuale Governo nella relazione alla legge delega, e che ritornano periodicamente nel dibattito, sono fondamentalmente due.
Vi è innanzitutto il timore che l’aumento della tassazione sostitutiva del 12,5 per cento possa determinare una fuga di capitali verso gli altri paesi (che, come il nostro, non prelevano alcuna tassazione sui non residenti) rivelandosi un boomerang non solo per l’erario, ma anche per il paese nel suo complesso.
Questo timore sembra eccessivo. Infatti, la sensibilità della maggior parte dei sottoscrittori al differenziale di tassazione fra interessi interni ed esterni – anche in ragione dell’esistenza di misure quali le ritenute di ingresso e il monitoraggio dei flussi di capitali da e per l’estero – è meno marcata di quanto si tenda a fare apparire. Va poi ricordato che nel luglio 2005 è entrata in vigore una direttiva europea che ha la finalità di rendere possibile ai singoli Stati tassare i propri residenti per gli interessi percepiti all’estero. Questo risultato discende dalla previsione di un adeguato scambio di informazioni fra paesi membri. (1)
Nonostante i limiti della direttiva, è evidente che essa costituirà un disincentivo alle fughe di capitali.
Un altro timore, anch’esso largamente infondato, è che, a fronte di un aumento dell’imposta sui titoli pubblici, lo Stato si trovi costretto a corrispondere tassi di interesse più elevati per poter collocare la propria offerta di titoli. Anche in questo caso il provvedimento si rivelerebbe un boomerang: al maggior gettito dell’imposta corrisponderebbero maggiori spese per interessi.
Ci si dimentica però che i soggetti interessati dall’aumento della tassazione detengono meno di un quarto dei titoli in circolazione: difficilmente la loro domanda sarà in grado di influenzare le condizioni di offerta, e ciò a maggior ragione a seguito del progressivo allineamento dei tassi di interesse reso possibile dall’adesione del nostro paese all’Unione monetaria europea. Questi soggetti, inoltre, difficilmente troverebbero conveniente rivolgersi ad altri investimenti finanziari, posto che comunque la nuova aliquota sarebbe applicata uniformemente a tutti i tipi di reddito da attività finanziaria.

Leggi anche:  Per un fisco più giusto tassare il capitale

L’aumento del gettito non dovrebbe essere il principale obiettivo

Recentemente, la proposta di unificare la tassazione dei redditi finanziari a un livello sensibilmente più alto rispetto al 12,5 per cento, con la finalità principale di reperire gettito per la copertura delle più diverse esigenze, è comparsa ripetutamente anche nel dibattito all’interno della maggioranza.
L’aumento del gettito non può però essere il principale obiettivo cui finalizzare un intervento di riforma della tassazione dei redditi finanziari. Da un lato infatti, l’andamento ballerino dei mercati finanziari, in particolar modo per quanto riguarda le plusvalenze, rende arbitraria ogni previsione circa tale aumento. Dall’altro, la scelta del livello della aliquota non può essere il risultato di considerazioni estemporanee, ma deve dipendere dal sistema di imposizione societaria e più in generale diretta (sui redditi di capitale, impresa e lavoro) che si intende adottare.

La discussione che bisognerebbe fare

L’innalzamento dell’aliquota del 12,5 per cento sugli interessi sarebbe sicuramente auspicabile, per motivi di equità: la scala delle aliquote dell’imposta su tutti gli altri redditi parte da un’aliquota minima del 23 per cento.
I redditi finanziari tassati al 12,5 per cento includono però anche i dividendi e le plusvalenze. I dividendi sono utili che hanno già subito l’Ires in capo alla società. Lo stesso accade alle plusvalenze azionarie, nella misura in cui esse riflettono l’esistenza di utili accantonati a riserva. Diverso è il caso di plusvalenze di altra natura, che andrebbero pertanto tenute opportunamente distinte (come già accade nella tassazione delle plusvalenze per le società di persone). Con un’aliquota al 23 per cento, i redditi provenienti da investimenti, finanziati con capitale proprio e già tassati in capo alla società, sopporterebbero un’aliquota complessiva, senza contare l’Irap, del 48,41 per cento, addirittura più alta dell’aliquota massima che sosterrebbero gli azionisti che detengono quote rilevanti del capitale. (2)
Le società di capitali con azionariato diffuso sarebbero discriminate anche rispetto alle società di persone e alle imprese soggette a Irpef, i cui utili resterebbero tassati con aliquote che vanno dal 23 al 43 per cento. Non sarebbe certo una politica idonea ad allargare il ricorso al mercato da parte delle imprese, a diffondere il capitale azionario tra il pubblico dei risparmiatori, a rafforzare il sistema produttivo e stimolare la crescita dimensionale delle imprese.

Leggi anche:  Sul concordato c'è un dovere di trasparenza

C’è una soluzione?

La soluzione a questi problemi richiede di definire prioritariamente il modello di tassazione che si vuole adottare.
Ad esempio, nel programma del precedente Governo di centrosinistra, l’aliquota proposta per la tassazione, uniforme, dei redditi finanziari era pari all’allora aliquota base dell’Irpef (il 19 per cento) e, nell’ambito del prelievo societario, alla tassazione riservata al rendimento “normale” del capitale proprio, in virtù del meccanismo della Dit. Il sistema verso cui si tendeva era un sistema di tassazione duale, analogo a quello dei paesi nordici, in cui a tutti i redditi di capitale (finanziario e reale) è riservato un prelievo omogeneo, coordinato con quello a cui vengono assoggettati i redditi di lavoro. Si potrà concordare o meno con un sistema di questo tipo, ma certamente va riconosciuto che ha una sua ben precisa razionalità e coerenza.
Qualsiasi sia il sistema adottato, per non penalizzare gli investimenti in capitale di rischio, la riforma della tassazione delle rendite finanziarie dovrebbe uniformare, e aumentare in media, la tassazione degli interessi e di quelle plusvalenze che non sono il riflesso di utili trattenuti e già tassati presso l’impresa. Il “normale” rendimento del capitale proprio (il costo opportunità di investire nel capitale di rischio) andrebbe invece opportunamente detassato. In questo contesto di più ampia riforma, i recuperi di gettito attesi potrebbero facilmente rivelarsi un miraggio.


(1)
Per gli interessi pagati in Belgio, Lussemburgo e Austria, che non hanno aderito subito allo scambio di informazioni e nei principali paesi terzi (primo fra tutti la Svizzera), è prevista l’applicazione di misure “equivalenti”: una ritenuta alla fonte inizialmente pari al 15 per cento, ma destinata a crescere fino al 35 per cento, il cui gettito deve essere retrocesso, per il 75 per cento, al paese di residenza del percettore.

(2) Nel qual caso, tipico delle società a ristretta base azionaria, i dividendi vanno inclusi per il 40 per cento nell’imponibile dell’imposta personale e assoggettati a Irpef con aliquota massima del 43 per cento.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Sul concordato c'è un dovere di trasparenza

Precedente

Ferrovie e dintorni

Successivo

I sindacati e le pensioni private

13 commenti

  1. Ugo Celauro

    Secondo noi, bisogna eliminare qualsiasi imposta sui redditi di qualsiasi origine per ridurre i costi di finanziamento, semplificare la gestione dei tributi e concentrare l’attenzione del prelievo fiscale esclusivamente sulla ricchezza reale (mobile ed immobile) e sui movimenti di capitale verso l’estero.
    In tal modo si abbandonerebbe l’assurda pretesa di essere equi ed efficienti nel controllare le infinite modalità di formazione del reddito e si aspetterebbe pazientemente ed infallibilmente la materializzazione dei vantaggi conseguiti al momento del loro investimento.
    La ricchezza finanziaria dovrebbe essere lasciata libera di circolare per svolgere al meglio, in termini di costi, la sua alta funzione sociale di incentivazione e soccorso alle attività imprenditoriali ed ai consumi.
    Solo così si potrebbe realizzare interamente ed in forma perfetta l’efficienza ed equità fiscale, facendo riferimento alla effettiva capacità contributiva del cittadino.
    Suggeriamo, quindi, di approfondire questa ipotesi, da cui potrebbe scaturire un ordinamento moderno basato su un’unica imposta annuale, in sostituzione della pletora caotica delle imposte attuali.

    • La redazione

      L’esistenza di una pluralità di imposte non è solo frutto di patologie dei sistemi tributari, ma è, entro certi limiti, funzionale alle diverse finalità che alle imposte sono assegnate: non solo, anche se prioritaria, quella, cosiddetta fiscale, di finanziare la spesa pubblica, ma anche
      quelle, extrafiscali: stabilizzazione economica, incentivazione economica, correzione di distorsioni o inefficienze del sistema economico (si pensi alla carbon tax).
      Secondo il lettore sarebbe equo tassare la sola ricchezza mobile e immobile. Questo vorrebbe dire non tassare il consumo e penalizzare quindi solo quelli che “risparmiano”? Come si tasserebbe quella parte di ricchezza che è rappresentata da gioielli, opere d’arte, o che è detenuta
      all’estero?
      Sarebbe poi efficiente tassare quella parte di ricchezza che costituisce il patrimonio delle imprese? Un’imposta di questo tipo esisteva ma è stata eliminata in Italia (con l’introduzione dell’Irap) anche perchè sfavoriva le imprese che si finanziano con capitale proprio rispetto a quelle che si finanziano con debito (e quindi non era neutrale e cioè non era efficiente)
      Insomma, non esiste una soluzione facile ai problemi della tassazione, e non esistono scappatoie. Il sistema fiscale deve essere il più possibile ispirato a criteri intelligibili e condivisi, ma non potrà mai essere ad un tempo equo, efficiente e così semplificato come il lettore auspica.
      M.C. Guerra

  2. Domenico Alba

    In questi giorni si sente molto parlare di questo argomento:il più delle volte a sproposito.Alcuni dicono che le rendite non siano tassate a dovere e che godano di un regime di favore a confronto degli altri redditi.Questa è una affermazione quanto meno imprecisa e parte da un assunto sbagliato:le rendite finanziarie sono tutte uguali.Una cosa è il guadagno dello speculatore che compra il titolo ENEL a 6,70 € e lo rivende dopo pochi giorni a € 7,10 ed un’altra cosa è il risparmiatore che investe la liquidazione in titoli ENEL perchè,con i dividendi,rimpingua la pensione. Come è possibile tassare queste rendite allo stesso modo? Non è chi non veda che si tratta di soggetti e di presupposti molto diversi tra loro.
    C’è da considerare,poi, che la tassazione al 12,5%
    sui dividendi crea una chiara duplicazione di imposta sui redditi societari che sono già stati tassati in capo all’azienda. Non per niente i precedenti governi avevano mantenuto il meccanismo del credito di imposta sui dividendi!
    Mi pare comunque giusto tassare la speculazione in maniera maggiore della rendita.
    Proporrei perciò di tassare al 25% le operazioni speculative (quelle di compravendita titoli che si compiono nell’arco di 12 mesi),di lasciare al 12,5% le operazioni non speculative (oltre i 12 mesi) e di ripristinare il meccanismo del credito di imposta sui dividendi per un ammontare massimo di 24.000 € annui. Lasciando l’imposizione sugli interessi di titoli di stato e obbligazioni al livello attuale.
    Grazie per aver ospitato il mio contributo.

  3. Giancarlo Perasso

    Continuo a non capire perche’ nessun economista suggerisca di trattare le “rendite” finanziari come reddito e quindi di cumulare le rendite agli altri redditi e poi calcolare l’Irpef sul totale, invece di insistere su una witholding tax. E’ un sistema che funziona in tanti altri paesi ma in Italia sembra sia improponibile. Come scrivono le autrici nel paragrafo “timori infondati”, i timori di fughe di capitali sembrano ridotti e quindi non riesco a capire perche’ (da un punto di vista economico, le ragioni politiche/elettorali sono chiare) nessuno proponga questo accorpamento tra rendite e redditi. Grazie di un’eventuale risposta.

    • La redazione

      La proposta è in realtà dibattuta fin dai tempi dell’introduzione dell’Irpef, perché è da allora che i redditi di capitale sono stati in larga parte esclusi dall’imposizione personale progressiva. In linea di principio essa garantirebbe, come ci ricoda il lettore, una maggiore equità del sistema. Ciononostante, in particolare per quanto riguarda gli interessi, l’imposizione ordinaria (imposta personale e progressiva sul reddito) non è più il modello di tassazione prevalente nella Ue a 25: rimane solo in Spagna, Regno Unito e Slovenia e, per opzione del contribuente, in Belgio, Francia e, in parte, in Germania, paersi che però generalmente prevedono esenzioni di vario genere e piani di risparmio agevolati fiscalmente. Una delle ragioni principali a favore dei regimi sostitutivi riguarda il fatto che in presenza di inflazione i redditi finanziari nominali sopravvalutano quelli reali (vedi anche il commento del lettore qui sotto). Inoltre le aliquote dell’Irpef potrebbero portare facilmente la tassazione ad un livello, il 39-43%, che in un regime di libertà di circolazione dei capitali, come quello in cui viviamo, potrebbe generare spinte all’evasione fiscale (attraverso la fuga in paesi extra Ue, esclusi dalla direttiva) maggiori di quelle odierne perché amplierebbe di molto il differenziale di tassazione. Sono poi molte le difficoltà pratiche di applicazione di una tassazione personale e progressiva che tratti uniformemente tutti i redditi di capitale (interessi, dividendi, plusvalenze) e che eviti doppie imposizioni sugli utili già tassati presso l’impresa e percepiti sotto forma di dividendi e guadagni in conto capitale.
      Molto meno problematico rispetto al passato sarebbe invece l’accertamento dei redditi di capitale (argomento storicamente portato a sostegno di regimi di tassazione anonimi alla fonte): la direttiva comunitaria rende infatti possibile la segnalazione degli interessi percepiti da non residenti. Si tratterebbe di estendere un meccanismo di rilevazione di questo generE anche agli interessi dei residenti. Occorrerebbe però estendere la segnalazione anche alle plusvalenze ottenute nel regime del risparmio amministrato. Nel caso del gestito (individuale) si dovrebbe segnalare l’intero risultato di gestione. Nel caso di gestito (collettivo) si dovrebbe segnalare l’aumento di valore delle quote. Ciò potrebbe dar luogo a complicazione amministrativa e potrebbe accentuare il rischio di fenomeni di elusione del tipo intestazione fittizia.
      Anche a prescindere dall’inclusione in Irpef dei redditi finanziari, la loro segnalazione al fisco potrebbe avere la funzione di rendere possibile una più adeguata prova dei mezzi per le politiche sociali che è fondamentale per impostare un welfare al tempo stesso universale (rivolto cioè a tutti i cittadini) e selettivo (che tenga in conto della condizione economica del beneficiario).

  4. Giorgio Troi

    Tassazione del risparmio finanziario
    Sorprende che il dibattito sulla tassazione delle rendite finanziarie (una volta si diceva, einaudianamente, del risparmio) voglia ignorare il fatto che il tasso di rendimento reale sulle attività finanziarie (depositi e titoli obbligazionari, la componente principale del risparmio finanziario delle famiglie) è spesso negativo.
    Semplifichiamo al massimo con un esempio concreto, arrotondando le cifre.
    Un bond a medio termine risk-free, rende al più, ottimisticamente, il 3% lordo, non oltre (altrimenti bisogna aumentare la durata con tutti i rischi che ne conseguono). Su questo 3% viene applicata la ritenuta del 12,5%, ovvero 0,375%.
    L’inflazione attualmente è di circa il 2%. Il rendimento reale lordo, al netto dell’inflazione, è quindi inferiore all’1%. Da questo rendimento lordo viene defalcata l’imposta dello 0,375%. Il fisco si prende quindi circa il 38% del rendimento reale, che non mi sembra tanto poco. Se poi il ragionamento si fa sui c/c bancari, con rendimenti irrisori e aliquota del 27%, viene evidenziata una voracità ficale ancora maggiore, consistente in una tassazione delle perdite.
    Portare l’aliquota al 19% significherebbe tassare al 55-60% i rendimenti reali, che poi sono quelli da considerare, se il riferimento sono criteri di equità.
    Ovvio che l’esempio sopra riportato mantiene la sua validità anche se dovessero aumentare i rendimenti monetari, perché ciò avverrebbe solo in concomitanza con un innalzamento delle tensioni inflazionistiche e termini reali del problema rimarrebbero immutati.
    Se si ragiona in termini monetari, nominali, si occulta quella che di fatto sarebbe in molti casi una patrimoniale sulle attività finanziarie. Per di più, sui ceti sociali più deboli, i più propensi ad investire il titoli obbligazionarie e in depositi.
    Insomma, va bene discutere sulla fiscalità delle attività finanziarie, ma mi sembra un errore molto grave e singolare ignorare l’illusione monetaria.

    • La redazione

      Il tema che lei giustamente ricorda non è affatto assente dal dibattito.
      Al contrario, il fatto che in presenza di inflazione la tassazione sopravvaluti il rendimento reale delle attività finanziarie è una delle ragioni principali per cui si è optato per la loro non inclusione in Irpef (vedi anche risposta al commento del lettore qui sopra) Ovviamente la risposta migliore a questo problema sarebbe l’indicizzazione del sistema. Indicizzazione che dovrebbe riguardare anche il reddito di impresa e tutti i redditi personali soggetti al fiscal drag. Le difficoltà a seguire questa strada sono d’altronde note.
      Risolvere il problema semplicemente ricorrendo ad una tassazione contenuta ha però delle ovvie controindicazioni, per esempio per quanto riguarda la tassazione delle plusvalenze: molta parte delle plusvalenze speculative, conseguite sfruttando gli andamenti favorevoli dei mercati borsistici, non sono certo imputabili all’inflazione!

  5. Marco Palmieri

    Non capisco perché si continui a bollare come ingiustificata la differenza fra i tassi sulle attività finanziarie, visto che il 27% su depositi e conti correnti altro non è che un pungolo a non lasciare languire i soldi in banca o in posta, costringendo i pochi che se lo possono permettere a tradurre gli stessi in investimento, con chiaro beneficio dell’intero sistema economico.
    Né mi sembra così certo che il pericolo di una fuga dei capitali all’estero sia trascurabile: ciò potrà essere vero per il risparmiatore con poche migliaia di euro accantonati, ma non così per il grosso investitore, che vedrebbe i propri averi decurtati a fronte del prospettato, considerevole aumento. Visto anche che la direttiva europea è facilmente aggirabile, riguardando solo le persone fisiche e non quelle giuridiche…!
    Inoltre, bilanciare la tassazione sul reddito da capitale e quelle sul reddito da impresa e lavoro (giustificando la scelta attraverso un recupero di competitività internazionale: come se si potesse in questo modo eguagliare il costo di uno “schiavo” cinese o rumeno…) potrà apparire una manovra adeguata per i Paesi nordici, ove l’evasione fiscale è ai minimi, mentre in Italia (mi pare drammaticamente significativa a riguardo la tabella riportata nell’articolo di Zanardi) si tradurrebbe soltanto in una – ennesima – sperequazione a danno dei contribuenti che non hanno la possibilità (il diritto?) di evadere: ovvero i lavoratori dipendenti, gli stessi che negli anni hanno reso, loro malgrado, l’Italia il primo Paese al mondo per tasso di risparmio, in altre parole, la base che con i propri consumi tiene ancora in piedi la traballante economia italiana.
    In conclusione se si vuole effettivamente riformare il sistema fiscale in maniera costruttiva, ci si accerti prima che le tasse vengano pagate dai più! Si guardi agli Stati Uniti ove l’evasione fiscale è reato, oltre che socialmente riprovevole, duramente perseguito. Altro che popolo di “furbetti del quartierino”!

  6. Ugo Celauro

    Questi sono i nostri suggeriment, in breve:
    1) ‘Patrimonializzare’ il reddito in base ad una coerente valutazione della capacità di flusso nel tempo, sommarlo al patrimonio, ottenere la capacità contributiva del soggetto di imposta ed applicare un’unica imposta annuale;
    2) Data la difficoltà di rilevare il reddito, specialmente in soggetti con redditività complessa, aspettare la materializzazione dei guadagni, tassare patrimonio e movimenti di capitale verso l’estero;
    3) Nei prezzi vendita sarebbe sempre presente una componente fiscale che deriva dalla pressione fiscale sul produttore, distributore e dettagliante, ma in una misura variabile secondo scelte elastiche, dettate dal mercato;
    4) I beni godrebbero di una maggiore facilità di circolazione, perché non pagherebbero l’Iva all’acquisto, ma subirebbero un’imposta annuale relativa all’entità della ricchezza complessiva del possessore;
    5) L’imposizione patrimoniale richiederebbe la istituzione di una borsa, da affiancare all’attuale già operante, per rendere pubblico e trasparente il valore dichiarato per i singoli beni, sui quali applicare le regole di borsa con qualche aggiustamento per limitarne la turbolenza;;
    6) La Borsa Cespiti Fiscali può essere creata facilmente con i dati residenti nei registri della pubblica amministrazione, delle assicurazioni, delle banche, evitando l’intervento di commissioni tecniche;
    7) Le imprese quotate in Borsa dovrebbero essere assoggettate ad imposta in proporzione al valore di mercato, altrimenti in proporzione al valore degli immobili, impianti, attrezzature, brevetti e concessioni in uso, escludendo il relativo finanziamento, essendo questo un aspetto da regolare privatamente con gli enti finanziatori o fornitori;
    8) In definitiva, Lo Stato dovrebbe fare riferimento più prudentemente alla fisicità dell’oggetto di imposta e vantare su di esso il diritto reale di prelievo, a di sopra di tutti i titoli che possono essere contrapposti ad esso.

  7. Raffaello Lupi

    Perfettamente d’accordo con chi ritiene che il problema sia tener conto dell’inflazione. Tassare al 12,5 percento un interesse del 2 percento annuo vuoll dire tassare una “perdita finanziaria” non una “rendita”. Per chi realizza un 2% in una settimana la tassazione attuale è invece ben poca cosa.
    Si dice che indicizzare è troppo complicato, se si coinvolgono le imprese, ma per le imprese una mancata indicizzazione puo’ essere giustificata in quanto esse deducono interessi passivi nominali. Per le imprese, trovare un accettabile compromesso tra precisione e semplicità, per gestire l’inflazione, mi sembra impossibile. Per i risparmiatori, tassati attraverso gli intermediari, sarebbe invece facilissimo indicizzare i costi degli investimenti e prevedere un “bonus da inflazione” spendibile come le minusvalenze, magari (per semplicità di gestione una volta l’anno). Insomma, ci sono ampi margini per tassare le rendite finanziarie, ma non le perdite finanziarie.

  8. Ugo DOVIS

    Quando si parla di tassazione delle rendite finanziarie e si parla di aliquota fissa, occorre tener presente che una plusvalenza finanziaria può essere in certi casi, una equa remunerazione del capitale, in altri casi, un reddito di origine puramente speculativa (che produce ricchezza senza produrre sviluppo).
    La plusvalenza del primo andrebbe tassata con cautela, in quanto esso è una fonte di reddito per piccoli investitori, che in titoli mobiliari e, in certa misura, anche in immobili hanno investito i risparmi dai quali si aspettano un equo reddito o in casi di capitali maggiori, è una normale retribuzione del capitale di rischio (l’aumento di valore delle azioni di una s.p.a., che distribuisca scarsi dividendi ed effettui cospicui reinvestimenti, è in pratica la principale fonte della normale remunerazione del capitale).
    Quella che, invece, andrebbe fortemente tassata è la plusvalenza speculativa (esempi di questo tipo sono su tutti i giornali in questi tempi di scalate, opa, costruite con mezzi spesso al limite della legalità da furbetti, e furboni).
    Un elemento che permette di distinguere facilmente il primo tipo dal secondo è, per l’appunto il tempo.
    Una plusvalenza azionaria, ad esempio, del 20% maturata in 5 anni, rientra nella prima delle categorie sopra descritte, mentre la stessa plusvalenza del 20% maturata in due mesi rientra nella seconda.
    Una tassazione progressiva, pesata sulla variabile “tempo” sarebbe (almeno nel caso dei titoli mobiliari; meno nel caso di immobili) tecnicamente facile. Le banche già tengono un conto delle plus e minusvalenze sul conto deposito titoli dei loro clienti, e su di esse già applicano il prelievo fiscale. Sarebbero quindi in grado di calcolare tassazioni con fasce di aliquote anche articolate o complesse (così come si calcola un prezzo medio ponderale di carico, si potrebbe calcolare una data media ponderale di carico).

  9. raffaello lupi

    Torno sulla questione dell’indicizzazione (vedi il mio commento precedente e quelli di altri lettori) sulla quale c’è da costruire un compromesso tra precisione ed efficienza. In termini di precisione sarebbe forse preferibile concedere l’indicizzazione a tutti, comprese le imprese, ma questo diventa un argomento per chiudere il dibattito perchè si sa che indicizzare il reddito di impresa è troppo complicato. Si puo’ pero’ assumere che -per il reddito d’impresa- la deduzione degli interessi passivi “nominali”, non depurati dall’inflazione, rappresenti una compensazione forfettaria della mancata indicizzazione (salva la possibilità di introdurre un regime opzionale, in cui vedo però possibilità di arbitraggio su cui dovremmo approfondire). Concedere invece una indicizzazione ad alcuni investimenti finanziari privi della possibilità di dedurre gli interessi passivi mi pare invece fattibile o meritevole di discussione. Altrimenti, per non tassare troppo chi si limita a recuperare l’inflazione, finiamo per tassare troppo poco chi consegue rendimenti reali di tutto rispetto.

  10. giancarlo trani

    Ho letto il parere della commissione Visco, che sarebbe del parere ,per evitare la segmentazione del mercato (sic! come se non ci fosse mai stata) di aumentare l’aliquota di tassazione anche ai titoli di stato già emessi e non solo a quelli di nuova emissione.
    Questo porterebbe, a mio parere, ad una grave turbativa del mercato con perdita in conto capitale per i soli detentori dei btp, ed in particolare di quelli a scadenza lunga.quindi se un piccolo risparmiatore dovesse disinvestire, nonostante le cedole, dovrebbe accettare delle perdite in conto capitale. E’ il caso del btp 01-02-2037 4% collocato a 101,209 ed attualmente a 94 /95.Viceversa i cct , che hanno la cedola variabile collegata all’andamento dei bot a 6 mesi , nel giro di sei mesi vedrebbero di nuovo aggiornarsi la cedola alle condizioni di mercato e quindi non subirebbero , se non per un periodo limitato, un reale perdita di redditività.
    Del resto art 47 della costituzione tutela il risparmio, e quindi potrebbe essere anche incostituzionale questa retroattività, in quanto creerebbe disparità di trattamento fra titoli di stato a cedola fissa e variabile, e il risparmiatore, che si troverebbe a subire condizioni in corso d’opera con diversa incidenza.
    si aggiunga che in caso di retroattività ed aumento dei tassi, per avere una parità delle emissioni a 100 i valori facciali dei titoli saliranno ben oltre l’attuale 4% del btp più lungo con inevitabili riprecussioni negative sui prezzi di quest’ ultimo.
    Preciso, che si tratta di un parere di una commissione e che l’onorevole Prodi e Fassino in campagna elettorale smentirono categoricamente simili ipotesi.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén