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I sindacati e le pensioni private

La portabilità del contributo datoriale è questione insidiosa sotto il profilo politico-sindacale e giuridico. Obiettivo esplicito della legge delega era la parità concorrenziale tra le diverse forme pensionistiche complementari. Ma così il principio di libera concorrenza impone di trasformare un obbligo contrattuale valevole nei rapporti tra le parti contraenti, in un obbligo a favore di qualunque fondo pensione. Ora si tratta di trovare una terza via tra la violazione dell’autonomia contrattuale delle parti sociali e l’infedeltà alla delega.

L’approvazione del decreto che avrebbe dovuto consentire il decollo del “secondo pilastro” del sistema pensionistico italiano, dodici anni dopo il suo varo, è stata impedita, il 6 ottobre, dal coagularsi, nel Consiglio dei ministri, di una serie di questioni irrisolte. La più insidiosa, sotto il profilo politico-sindacale non meno che sotto il profilo strettamente giuridico, è quella della portabilità del contributo datoriale.

Libertà di scelta, portabilità del capitale accantonato, portabilità del contributo datoriale

Oggi, i lavoratori ai quali si applica il contratto collettivo (nazionale o aziendale) istitutivo di un fondo pensione “contrattuale”, se decidono di aderire a una forma pensionistica individuale anziché al fondo contrattuale, come la legge italiana consente loro di fare fin dal 2000, non possono pretendere che il datore di lavoro versi al fondo “non contrattuale” i contributi che sarebbe stato tenuto a versare a quello “contrattuale”. Analogamente, decorso il periodo minimo stabilito dalla legge, o a seguito di cessazione o mutamento del rapporto di lavoro, se decidono di abbandonare il fondo contrattuale per aderire a un fondo pensione istituito da un’azienda bancaria o assicurativa, hanno sì diritto a trasferirvi l’intero capitale accantonato nel fondo di provenienza, ma non a pretendere la cosiddetta “portabilità” del contributo contrattuale gravante sul datore di lavoro.
Questo in virtù di un elementare principio del diritto dei contratti, in base al quale i diritti e gli obblighi creati dal contratto valgono solo tra e per le parti contemplate nel contratto, e non per parti “terze”. Per capovolgere questo principio, sarebbe stata necessaria una norma eccezionale che, in deroga a esso, rendesse l’obbligo contrattuale autonomo rispetto alla sua fonte, e lo rendesse operativo nei confronti di terzi soggetti.
Lo schema di decreto varato lo scorso luglio dal Governo obbligava, appunto, il datore di lavoro a versare il contributo contrattuale al fondo individuale eventualmente prescelto dal lavoratore: sia che si trattasse di adesione ab initio, conseguente al conferimento del Tfr, sia che si trattasse di trasferimento volontario.
A tutte le associazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro, salvo quelle del settore finanziario-assicurativo (ma è da presumere che queste abbiano indossato, nell’occasione, i panni degli intermediari finanziari, piuttosto che quelli dei datori di lavoro firmatari di contratti collettivi), ciò è parso iniquo e lesivo della propria autonomia negoziale: hanno quindi chiesto al Governo di modificare il testo in modo che il contributo previsto dai contratti collettivi potesse essere versato alle forme non contrattuali solo se ciò fosse previsto dagli stessi contratti collettivi, e non in via automatica e autoritativa.
Questa richiesta è stata accolta sia dal nuovo schema di decreto presentato il 12 settembre dal ministro del Welfare, sia, benché con una certa prudenza, dalle competenti commissioni parlamentari. Il Consiglio dei ministri del 6 ottobre, però, ha ritenuto che il nuovo testo ministeriale fosse contrario al principio della “parità concorrenziale” fra tutti i fondi pensione, e ha rinviato di un mese l’approvazione del decreto.
La vicenda ha del paradossale non solo sotto il profilo politico, ma anche sotto il profilo giuridico. È innegabile che la parità concorrenziale tra le diverse forme pensionistiche complementari fosse un obiettivo esplicito della delega, e che la “portabilità” del contributo del datore di lavoro ne fosse uno dei corollari. Quindi ha ragione chi dice che il decreto, se varato nella versione gradita alle parti sociali, non sarebbe fedele alla delega che il Parlamento ha conferito al Governo nel 2004.
Il punto è, però, che quella delega è inattuabile nei termini in cui era stata pensata. Il legislatore delegante aveva effettivamente ritenuto che il principio di libera concorrenza nel mercato finanziario imponesse di trasformare un obbligo contrattuale valevole nei rapporti tra le parti contraenti, in un obbligo a favore di qualunque fondo pensione al quale il lavoratore liberamente aderisca o si trasferisca; e male fanno il ministro del Welfare, le commissioni parlamentari e le associazioni di rappresentanza dei lavoratori e delle imprese, adesso, a negarlo.

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Misura antitrust o vincolo illiberale alla contrattazione collettiva?

Ma si comprende che lo facciano. Solo un’interpretazione unilaterale, e in sostanza paradossale, di quel principio poteva far ritenere che imponesse ai soggetti collettivi che istituiscono un fondo pensione contrattuale, di consentire che il contributo da essi liberamente posto a carico dei datori di lavoro e a vantaggio del fondo contrattuale, possa in futuro valere a vantaggio di una forma pensionistica concorrente. D’altra parte, solo a chi concepisce il sindacato come organismo investito di una funzione pubblica, anziché come libera associazione di lavoratori, può sembrare una sorta di abuso di posizione dominante che esso si industri di massimizzare il proprio interesse organizzativo, sfruttando il legittimo vantaggio competitivo derivante dall’essere in grado di negoziare, in qualità di rappresentante di lavoratori, con le imprese e i loro rappresentanti, un onere finanziario a carico dei datori di lavoro.
Del resto, per quanto a mia conoscenza, in nessun paese del mondo il principio di “portabilità” del contributo contrattuale alla previdenza volontaria opera nella maniera voluta dal legislatore delegante italiano: ossia come “portabilità” non del solo importo maturato (e del Tfr), ma anche dell’obbligo datoriale di versare al fondo pensione il contributo che il contratto collettivo destinava al fondo contrattuale.
Quanto al diritto comunitario, è vero che la contrattazione collettiva non gode di una totale immunità dalle regole comunitarie del mercato e della libera concorrenza (vedi il parere di Pietro Ichino ); ma è vero anche che le indicazioni della Corte di giustizia comunitaria non sono univoche, se proprio quella Corte ha affermato che, a certe condizioni – ossia, quando si tratti di salvaguardare un “servizio di interesse economico generale” e di assicurare l’adempimento della “specifica missione sociale” affidata alla previdenza complementare – è legittimo perfino imporre per legge l’adesione ai fondi creati dai contratti collettivi. (1)

In arrivo un “decreto di pentimento” sulla previdenza complementare?

In conclusione, parti sociali, ministro del Welfare e Parlamento “versione 2005” hanno buone ragioni da vendere; mentre il Parlamento “versione 2004” ha voluto qualcosa di solo apparentemente politically correct, ma sostanzialmente iniquo e illiberale. Solo che quel “qualcosa” era vincolante per il Governo, come con condivisibile fermezza nota ancora Ichino.
Ancora una volta, insomma, questo Governo ha parlato ideologicamente, per poi ingranare una pragmatica marcia indietro: ricordate la circolare Maroni sulle cococo?
Si tratta, adesso, di trovare una terza via tra la padella della violazione dell’autonomia contrattuale delle parti sociali, e la brace dell’infedeltà alla delega. Quale che sia la soluzione, pare inevitabile che il Parlamento torni a occuparsi della questione.

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(1) Cgce 21.9.1999, relativa ai fondi pensione olandesi.

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  1. Michele Squeglia, Prof. a contratto di diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano

    Se è indubbio che la materia della portabilità del contributo datoriale costituisce un argomento centrale della riforma sulla previdenza complementare al vaglio dell’Esecutivo, meno scontato è ritenere se la soluzione approdata negli ultimi mesi nelle aule di Palazzo Chigi sia giuridicamente, oltre che politicamente, sostenibile. La soluzione che imponeva al datore di lavoro di versare il contributo individuato dalla contrattazione collettiva a una forma complementare diversa da quella individuata da quest’ultima, intendeva certo rispondere alle accuse di immobilismo che avevano collocato il nostro paese, quanto a libertà di scelta dei lavoratori in materia pensionistica, nella soffitta della storia. Ebbene, della nuova strategia (salvaguardare la corsia preferenziale dei fondi pensione contrattuali) non si può dare un giudizio positivo avendo a confronto il testo della legge delega e le assillanti pronunce comunitarie in ordine alla parità concorrenziale tra le forme pensionistiche complementari. Tuttavia, nel valutare l’attuale versione del testo del decreto legislativo, occorre tenere presenti gli aspetti di natura giuridica che vanno al di là della pura opportunità politica. Sotto questa angolazione, condivisibilmente TURSI ha sottolineato il carattere esitante e contraddittorio che caratterizza l’attuale fase di attuazione della legge delega, che vedrebbe interessato il principio di libera concorrenza dei fondi pensionistici italiani. Sembra affacciarsi la possibilità di una terza via, probabilmente costituita dalla portabilità a tempo del contributo datoriale dai fondi contrattuali alle altre forme integrative, che pare rappresentare uno specchio fedele delle contraddizioni italiane, sospesa tra una machiavellica “virtù” –l’abile propensione alla negoziazione politica- e un’altrettanta machiavellica “fortuna” –il convincimento di tutte le parti sociali della necessità di addivenire all’emanazione di una riforma previdenziale complementare non più differibile.

  2. Domenico Polizzi - delegato aziendale di Fondenergia

    La violazione dell’autonomia negoziale e l’erroneo principio di parificazione dei fondi pensione

    Mai come in questa legislatura i principi del diritto sindacale sono stati messi così a dura prova; è stato fatto in occasione dei due più importanti interventi di politica legislativa del lavoro fortemente voluti dall’attuale maggioranza di governo: il d.lgs. n.276/2003 e la legge delega n.243/2004.
    Nel caso del d.lgs. n.276/2003, la sensazione avvertita è di un’autonomia collettiva “ipertrofica”, costretta ad intervenire secondo tempi e modi dalla legge predeterminati. La legge delega per la riforma della previdenza complementare ci propone invece un modello di autonomia collettiva a sovranità limitata: il contratto può produrre effetti anche nei riguardi di soggetti diversi da quelli pattiziamente designati, qualora sopraggiunga un interesse pubblico che i titolari della contrattazione collettiva non avevano peraltro alcuna competenza a valutare. Senza voler prescindere da queste premesse ci si può chiedere se il corrente dibattito sulla riforma previdenziale o, meglio, sul ruolo che le Forme di Previdenza Private ed i Fondi Negoziali devono avere nel contesto della riforma, non sia, in ogni caso, viziato alla base da una errata interpretazione della diversa natura delle due categorie di soggetti. Da un punto di vista strettamente economico non vi è dubbio che le Forme di Previdenza Private si collochino all’interno della componente del mercato che prende il nome di “offerta”. I soggetti che hanno istituito tali forme (assicurazioni, banche etc.) hanno inteso creare dei veri e propri prodotti da offrire a chi ne faccia domanda, al legittimo scopo di ricavarne un profitto. I Fondi Negoziali non hanno per scopo il conseguimento del profitto ma quello della soddisfazione di un bisogno, quello previdenziale, e vengono costituiti dagli stessi soggetti che li alimentano e che ne beneficeranno. Anche da questa visuale si rafforzano le posizioni di chi oggi sostiene che la delega sia inattuabile, nei termini in cui è stata pensata.

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