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Piccoli risparmiatori senza patrimoniale

Se la tassazione delle rendite finanziarie può equivalere a un’imposta patrimoniale, per ragionarne serenamente occorre considerare l’integralità degli effetti dell’intreccio fra tributi e inflazione. Condivisibile l’intento di tenere i piccoli risparmiatori fuori dall’aumento dell’imposta. Si può introdurre un meccanismo di opzione: il contribuente sceglie tra applicazione dell’imposta sostitutiva da parte della banca e indicazione delle rendite finanziarie nella propria dichiarazione dei redditi. Complesso calcolarne gli effetti sul gettito.

Il centrosinistra ha annunciato l’intenzione di portare dal 12,5 al 20 per cento l’aliquota dell’imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie. Il centrodestra critica la proposta, bollando la manovra come un’imposta patrimoniale surrettizia che impoverirà tutti, a cominciare dai piccoli risparmiatori. Il centrosinistra ribatte che non si tratta di imposta patrimoniale e che i piccoli risparmiatori non saranno toccati.
Entrambi i punti meritano una riflessione.

Patrimoniale o no?

L’imposta sostitutiva sulle rendite finanziarie colpisce i rendimenti del patrimonio e non il patrimonio stesso. In via di principio, se il patrimonio non rende, l’imposta non è dovuta.
Perché chiamarla imposta patrimoniale, allora? Perché se i rendimenti sono inferiori o pari all’inflazione, l’imposta sostitutiva intacca il valore reale del patrimonio.
Semplificando, se l’inflazione è al 5 per cento e il rendimento è del 5 per cento, prima del prelievo fiscale a fine anno il risparmiatore avrà un patrimonio di 105, che corrisponde a un valore reale (al netto dell’inflazione) di 100. Se l’imposta sostitutiva è pari a 1 (il 20 per cento di 5), il patrimonio finale scende a 104, che corrisponde, in termini reali, a qualcosa in meno di 100. Ecco che il patrimonio, sempre in termini reali, è stato decurtato dall’imposta sostitutiva.
Questo è vero per tutte le imposte che gravano sui rendimenti del capitale. In un sistema fiscale nominalistico, cioè non corretto per l’inflazione, si tratta di problema ricorrente che può addirittura avere effetti convenienti per il contribuente, ad esempio se questi può dedurre gli interessi passivi.
Nell’ambito della tassazione del reddito da lavoro, l’effetto negativo dell’inflazione è legato alla progressività delle aliquote e si chiama “fiscal drag“. Il correttivo previsto dalla normativa non è mai stato applicato dal centrodestra.
Sarà anche vero, allora, che la tassazione delle rendite finanziarie equivale a un’imposta patrimoniale, ma per ragionarne in modo sereno occorre considerare l’integralità degli effetti derivanti dall’intreccio fra tributi e inflazione. Ma chi ha “abolito” il correttivo al “fiscal drag” non gridi allo scandalo se l’aliquota di tassazione dei redditi da capitale sale un pochino.

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I piccoli risparmiatori

L’innalzamento dell’aliquota toccherebbe, in linea di principio, tutti i risparmiatori.
D’altro canto, già oggi l’imposta sostitutiva tocca tutti, grandi e piccoli risparmiatori, con la sola eccezione di chi evade tenendo i soldi all’estero, nascosti al fisco.
Mi pare condivisibile l’intendimento di tenere indenni i piccoli risparmiatori dell’aumento dell’imposta.
Ma il punto è: come farlo? E poi, una volta deciso come fare, quali saranno gli effetti sullo sperato maggior gettito?
In teoria, si potrebbe pensare a un sistema in cui le rendite dei piccoli patrimoni non si tassano, o continuano ad essere tassate al 12,5 per cento. Oppure, l’aliquota del 20 per cento si applica solo alle rendite che eccedono un determinato ammontare, che resta tassato al 12,5 per cento (oppure è esente del tutto).
Il problema è che una delle caratteristiche più apprezzabili, e assolutamente da preservare, del sistema di tassazione delle rendite finanziarie è che l’imposta è applicata e versata all’erario direttamente dalle banche.
L’aliquota unica fa sì che ogni banca applica l’imposta sulle rendite che questa conosce; non esiste pertanto alcun incentivo fiscale a suddividere il patrimonio in più banche. Se le aliquote fossero diverse (o se esistesse un “patrimonio minimo” esente) l’incentivo a rivolgersi a più istituti diversi per pagare meno imposte sarebbe irresistibile. E assai modeste sarebbero le probabilità di controllo da parte della pubblica amministrazione.
Che fare, allora?
Si può ipotizzare un sistema in cui il contribuente possa optare per la non applicazione dell’imposta sostitutiva da parte della banca. In questo caso, il contribuente dovrebbe indicare le rendite finanziarie nella propria dichiarazione annuale dei redditi e applicare le imposte dovute.
Sarebbe allora agevole stabilire una quota di rendita esente da imposta, restando comunque inteso che, sull’eccedenza, resterà applicabile l’imposta sostitutiva all’aliquota prevista in generale. Ma sarà il contribuente a versarla all’erario (e in modo nominativo) e non più la banca.
I controlli sarebbero agevoli: basta richiedere che la banca segnali all’amministrazione finanziaria i dati del contribuente che ha esercitato l’opzione e le rendite finanziarie da questi percepite.

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Effetti sul gettito

Resta infine da stabilire quali possano essere gli effetti sul gettito derivanti dall’esenzione fiscale per i piccoli risparmiatori.
Si tratta di esercizio complesso, in quanto la stima dipende non solo dal nuovo livello dell’aliquota e dell’ammontare della quota esente, ma anche, e soprattutto, dall’andamento dei mercati finanziari.
A complicare ulteriormente i calcoli c’è la difficoltà di stimare il numero dei soggetti che effettivamente eserciteranno l’opzione. Come già detto, oggi il contribuente non è soggetto ad alcun adempimento fiscale e l’imposta è prelevata, in modo anonimo, dalle banche. Il calcolo di convenienza dell’opzione potrebbe essere assai difficoltoso e la necessità di includere le rendite nella propria dichiarazione dei redditi potrebbe dissuadere molti dall’esercitarla.

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15 commenti

  1. M.P.

    L’Italia è una della nazioni con il più alto tasso di evasione fiscale: perché, dunque, prima di aumentare le imposte sul risparmio non si attua una vera strategia repressiva (si veda il modello penale americano) al fine di far pagare le tasse a chi non le ha mai pagate? Perchè prima non raccogliere (o almeno tentare) l’enorme gettito evaso e dopo, solo DOPO, verificare se è effettivamente il caso di aumentare le tasse al già tartassato popolo dei risparmiatori italiano, che le ha sempre pagate, rectius, dovute pagare? Le proposte inaccetabilmente fumose avanzate trasversalmente da buona parte della classe politica italiana, oltre a non fissare la soglia del patrimonio del piccolo risparmiatore, sembrano implicare una valutazione negativa del risultato della più volte propugnata lotta all’evasione. Mi permetto inoltre di evidenziare come passare dal 12,5 al 20%, oltre a rappresentare un chiaro disincentivo al risparmio, non è affatto “pochino”, se si ha l’onestà di ammettere come il galoppante costo della vita – frutto di posizioni monopolistiche spesso assunte proprio da chi le tasse non le ha mai pagate, altro che euro! – sia spesso sopperito nei bilanci della maggioranza delle famiglie italiane dal contenuto rendimento dei titoli “sicuri” su cui il popolo del piccolo e medio risparmio italiano – nella costante, buia incertezza del futuro nazionale – è sempre stato tradizionalmente costretto, suo malgrado, ad investire (non a caso l’indice del risparmio italiano è fra i più alti del mondo).
    Infine, vorrei far notare come il regime alternativo al sostituto d’imposta ipotizzato dall’Autore, fosse in realtà già previsto dall’ordinamento, pur non essendo normalmente richiesto data la complessità di gestione degli oneri fiscali da parte del risparmiatore medio.

  2. cesare riillo

    scuserete la mia ingenuità ma:
    se guadagno 1000 euro come lavoratore perchè ho una tassazione diversa da chi guadagna 1000 da rendite finanziarie?

  3. GCL

    Buongiorno La Voce e Dott. Manzitti.
    Personalmente credo che l’armonizzazione avrebbe il vantaggio di ridurre dal 27% al 20% la ritenuta alla fonte sui depositi bancari. Vantaggio temo non venga evidenziato a sufficienza, considerato che per accedere ad una rendita finanziaria bisogna disporre di un patrimonio che abbia almeno una certa cosnsistenza. Credo che abbassare al 20% l’aliquota sui depositi per i piccoli risparmiatori avrebbe un effetto positivo che andrebbe a compensare l’aumento sui bond.

  4. Simeone Russo

    Inutile sottolineare che non sono un esperto di finanza pubblica, ma dai rudimenti che ho appreso all’università mi sembra di capire che l’equità, orizzontale e verticale, e la capacità di gettito dell’imposta che si va qui analizzando sono sicuramente i cardini del ragionamento.
    In questo senso, l’imposta patrimoniale, sulla rendita finanziaria, o come vogliamo battezzarla,
    presenta certamente tutti i limiti evidenziati in letteratura collegati al presupposto dell’imposta che è l’esistenza del patrimonio stesso( o meglio la verifica della sua esistenza e consistenza). Non vorrei pagare qualcosa in meno sullo 0,1% di interesse riconosciuto al mio c/c e pagare poi il 50% in più sui miei dividendi e plusvalenze di piccolo azionista mentre un manager o un amministratore pubblico con maggiori discrezionalità riesce a limitare l’applicazione del criterio di capacità contributiva!
    Pagare meno, pagare tutti è davvero un utopia?
    Perchè non si mette una tassa sulla speculazione immobiliare o sui mutui erogati?
    Perchè non si incentiva il risparmio, non lo si difende e si crea una cultura finanziaria per lo sviluppo che allarghi la base imponibile?
    Perchè non si tassano gli appartamenti vuoti?
    (solo nel mio condominio ce ne sono due, ma tutto il mondo è paese). Perchè non si vanno a prendere con le mani nel sacco gli evasori, specie quelli che risaltano per la loro condotta? Forse perchè sarebbe troppo equo? Allora lasciate le mie tasse così come sono!

  5. Marco Dore

    Altri prima di me hanno richiamato il fatto che già esiste la possibilità (era anzi inizialmente il regime ordinario) di fruire del regime dichiarativo sollevando la banca (o più in generale l’ “intermediario”) dall’onere di operare le ritenute del 12,5%. Non mi è comunque chiaro come il ricorso a questa opzione possa eliminare il fenomeno elusivo della ripartizione del patrimonio presso più intermediari.
    Mi chiedo piuttosto se non sarebbe praticabile la strada di mantenere l’attuale tassazione al 12,5% rendendola però a titolo d’acconto per operare poi un’eventuale definitiva tassazione al 20% in dichiarazione ove l’ammontare delle rendite percepite superasse una certa soglia. Mi pare comunque rimanga il problema di rapportare all’anno i proventi maturati su periodi pluriennali. In altri termini, è il concetto di rendita che mi pare poco adatto a descrivere ed affrontare il problema della tassazione delle attività finanziarie.

    • La redazione

      Alcuni commentatori hanno giustamente ricordato come già oggi il contribuente può optare per applicare l’imposta sostitutiva nella dichiarazione dei redditi. Tuttavia, questa possibilità esiste solo per talune marginali tipologie di redditi. In particolare, ne sono esclusi i redditi derivanti dall’impiego del risparmio maggiormente diffusi tra le famiglie, come gli interessi sui depositi e conti correnti bancari e postali, gli interessi sui titoli del debito pubblico e sulle obbligazioni dei “grandi emittenti”, i dividendi su azioni quotate e i proventi derivanti dalla partecipazione a fondi comuni di diritto italiano.
      L’aumento dell’aliquota dell’imposta sostitutiva (ad esempio al 20%) non accompagnata dall’estensione generalizzata della possibilità di applicare l’imposta in sede di dichiarazione annuale non consentirebbe, a mio parere, di tenere indenni dall’aumento i piccoli risparmiatori. Garantendo ai contribuenti invece l’opzione di calcolare e versare l’imposta sulla totalità (o sulla quasi totalità) delle rendite finanziarie, si rende possibile stabilire quote esenti dal’imposta (o dall’incremento della relativa aliquota): sarà il contribuente stesso a fare i calcoli nella propria dichiarazione dei redditi. Oggi questo non è possibile
      Marco Dore si domanda come sia possibile conciliare fenomeni elusivi con l’opzione generalizzata. Io immagino un obbligo posto a carico di tutti gli intermediari di comunicare periodicamente all’amministrazione finanziaria i dati (codice fiscale e ammontare del reddito) del contribuente che ha esercitato l’opzione. Sarebbe sufficente un semplice controllo incrociato per controllare se il contriuente ha presentato la dichiarazione, o se questa è fedele. E la ripartizione del patrimonio presso più intermediari sarebbe inefficace

  6. M.P.

    Giustissimo avvicinare la tassazione su reddito da lavoro e da risparmio: ma aumentare la tassazione su quest’ultimo è davvero l’unica strada? Non sarebbe più corretto ridurre i prelievi sul primo? E comunque – ribadisco – PRIMA di introdurre nuovi balzelli non è più logico accertare quanti pagano le tasse correnti e, conseguentemente, battersi perché i moltissimi furbi non la facciano sempre franca? Mi sembra che le stime d’evasione evidenziate nell’articolo di A. Zanardi del 2-11-2005 siano comprensibili anche alle menti ingenue: i margini del possibile introito per le casse dello Stato sono enormi, tali forse da giustificare oltre ad un mantenimento della attuale tassazione sulle rendite finanziarie anche una riduzione della tassazione del lavoro. In argomento si prendano in considerazione anche i continui, inascoltati richiami della Corte dei Conti alla costante incapacità di raccogliere il gettito fiscale localmente prodotto. D’altra parte, mi rendo conto che sostanzialmente e politicamente è molto più comodo prendersela con i contribuenti che subiscono il prelievo alla fonte e che non hanno la possibilità (o il “diritto”?) di evadere – ovvero i lavoratori dipendenti ed i risparmiatori (i più lavoratori che con i sacrifici di una vita hanno potuto accumulare una certa sicurezza per loro e per i loro figli, altro che rentiers!) – piuttosto che contrastare la diffusissima evasione nel settore d’impresa e del lavoro autonomo.

  7. roberto prato

    Purtroppo la demagogia delle ali di estrema sinistra (premetto che voterò un partito dell’Unione), fà si che possa venire ipotizzata una misura che, se da una parte ha una sua logica di equità essendo il reddito da lavoro tassato con aliquote più alte, dall’altra risulta inefficace ed addirittura dannosa per le finanze pubbliche.
    Infatti se passiamo a valutarne gli effetti abbiamo:
    una diminuizione di gettito da CC, depositi a risparmio, depositi postali, C.arancio e simili-
    Un’inevitabile aumento dei tassi di interesse sui titoli di stato, neutralizzando di fatto il maggior gettito.
    La possibilità di compensare minusvalenze create col 12,5% con un’aliquota al 20%.
    Una cosa è colpire i grandi movimenti di capitale (vedi immobiliaristi, ecc.) ed una creare un meccanismo che alla fine crea confusione, burocrazia e gettito incerto.
    Sarebbe bene, invece pensare come aiutare tutti coloro che a causa dei vari crack, dovuti anche alla mancanza di vigilanza, hanno notevoli minusvalenze, che debbono cercare di recuperare in soli quattro esercizi.
    Saluti
    Roberto Prato

  8. Salvo

    Partendo dal presupposto che in Italia l’evasione fiscale sui redditi da lavoro non dipendente è alta credo che una proposta ragionevole di tassazione delle rendite finanziarie è la seguente:
    Tutti i redditi non da lavoro (rendite finanziarire, affitti, etc.) dovrebbe essere tassati in maniera progressiva come quelli da lavoro ma non sommandoli a quelli.
    In questo modo non si penalizzerebbero i lavoratori dipendenti che mediamente dichiarano redditi da lavoro più alti dei lavoratori autonomi. Inoltre aumenterebbero le entrate poichè la maggior parte dei risparmi e degli immobili si trova nelle mani degli evasori fiscali.

  9. Gianni

    Ovviamente l’articolo ignora del tutto il fatto che sono i redditi da lavoro a essere troppo tassati. A tal punto da costringerne molti lavoratori al lavoro nero e in particolare quelli meno produttivi il cui salario cioè è quindi molto basso. E’ del tutto irrazionale quindi di aumentare altre forme di tassazione solo perchè alcune sono particolarmente alte. Non dubito che mi si porteranno i soliti confronti con il resto dell’Europa ma evidentemente non hanno nessun significato: se l’EU decidesse l’esproprio di qualsiasi reddito sarebbe forse razionale o giusto? A parte che solo la competizione tra governi UE potrà dare qualche chance di crescita ai vari paesi.

    La tassazione del risparmio è poi particolarmente vergognosa e ingiusta: solo dal risparmio dipende il futuro nostro standard di vita. Sono questi che rendono possibile infatti gli investimenti e tutti noi sappiamo verso quale catastrofe si avvia la previdenza pubblica.

    Inutile ricordare poi che l’obiettivo di tassare “i furbetti del quartierino” ha già lasciato il posto a soglie di esenzione di 50,000 euro magari concentrarti solo su BOT e CCT: che rappresentano in genere spese improduttive.
    Infine si può facilmente vedere la demagogia del provvedimento: pochi risparmiano rispetto alla totalità degli elettori. Si tratta quindi di generare nuovo gettito colpendo coloro che elettoralemnte contano poco.

  10. Silvio

    A mio avviso non ha alcun senso paragonare i redditi da lavoro alle rendite finanziarie e pretendere di arrivare ad un avvicinamento delle aliquote fiscali. Infatti occorre tenere presente che i risparmi hanno già pagato quanto dovuto ancor prima di formarsi e quindi significherebbe pagare due volte. Inoltre mi sembra che per ogni emissione di titoli viene specificato il regime fiscale che verrà applicato per la durata del titolo. Non mantenerlo significherebbe rompere un contratto con chi ha acquistato tali titoli. In ogni caso sulle future emissioni occorrerebbe, per mantenere la competitività dei rendimenti, aumentare i tassi.

  11. raffaello lupi

    Caro Andrea, ma cosa suggerisci di fare per l’inflazione, che pure tu reputi un problema reale. Mettiamo che la franchigia di cui si parla sia 5.000 euro. Ora, se un tizio gioca in borsa 5.000 euro e ne guadagna altri 5.000, raddoppiando il capitale, non paga nulla. Uno che ha 500.000 euro e compra btp al 2 percento, che neppure ripagano dall’inflazione, riceve 10.000 euro e ci paga le imposte. Ditemi voi se non è una imposta patrimoniale. Il fiscal drag non c’entra, perchè il reddito di lavoro, anche se scattano le aliquote, è sempre nuova ricchezza. Invece l’inflazione distrugge il capitale, ed è assurdo tassarla in capo a chi non puo’ dedurre interessi passivi. Chi si arricchisce al di là dell’inflazione sarà pure contento di pagare il 25 -30 percento sull’eccedenza. Ma equiparare chi guadagna il 2 percento in un anno quando l’inflazione è al 2 percento, e chi lo guadagna in un giorno assurdo. Non è questione di “favor” per il risparmio, per l’accumulazione, per i fondi di investimento, per la previdenza integrativa. E’ solo questione concettuale di tassare in base alla capacità economica, e fino a che non recupera l’inflazione non c’è capacità economica per chi non puo’ dedurre gli interessi passivi. Un correttivo per salvaguardare queste “perdite finanziarie” senza appesantire la gestione da parte degli intermediari è calcolare per ogni posizione di risparmio amministrato, un bonus globale consuntivo da utilizzare per abbattere i successivi capital gain o rendite finanziarie.

    • La redazione

      Caro Raffaello, come sai bene i rapporti tra sistema tributario e inflazione sono assai complessi. Io ho solo voluto dire che l’imposta sulle rendite finanziarie non è una patrimoniale e che tassare il rendimento nominale può essere iniquo allo stesso modo in cui è iniquo non correggere gli effetti dell’inflazione su un sistema di tassazione progressiva del reddito.
      Sono, come te, poco persuaso della proposta di stabilire l’esenzione sulla base della dimensione del patrimonio. E’ molto meglio ed equo stabilire una esenzione riferita al reddito. Se si volesse idealmente proteggere un capitale di 100.000 euro e se il rendimento “risk free” fosse il 3% annuo, si potrebbe prevedere che i primi 3.000 euro di rendita sono esenti (salvo poi decidere se debbano essere esenti del tutto o esenti soltanto dall’aumento dell’aliquota).
      Non si potrebbe però demandare agli intermediari di applicare loro stessi lo sconto fiscale: la tentazione di suddividere il patrimonio per moltiplicare lo sconto sarebbe irresistibile. Il “bonus” fiscale proposto da qualcuno (anche da te, mi pare) ha il grave difetto di non tenere conto dei cosidetti “incapienti”. Per tenere conto di questi ultimi, il “bonus” dovrebbe diventare un vero e proprio credito d’imposta rimborsabile; ed il sistema sarebbe davvero complesso. Ecco perché mi sono sentito di fare la proposta che hai letto nel mio breve intervento; sapevo che gli intermediari non avrebbero gradito, ma non ne ho trovato una migliore.

  12. Dario Stevanato

    La questione delle “franchigie” alla base è duplice, in quanto può essere riferita sia all’inflazione che alla detassazione dei piccoli patrimoni. Depurare il rendimento dall’inflazione è una esigenza che riguarda tutti i contribuenti, e non dipende dal complessivo ammontare dei redditi percepiti. Il meccanismo potrebbe operare mantenendo l’attuale struttura di prelievo incardinata sulla ritenute alla fonte effettuate dagli intermediari, che dovrebbero applicare l’imposta soltanto sulla parte del rendimento che supera – diciamo – l’inflazione programmata. Questo toglierebbe argomenti a chi accusa il centrosinistra di voler introdurre una patrimoniale: l’innalzamento delle aliquote avrebbe cioè come contropartita una tassazione dei rendimenti al netto dell’inflazione, e non più al lordo.
    Altro è la detassazione delle rendite dei contribuenti a basso reddito, che pure potrebbe essere introdotta, ma che richiede nuove strutture di applicazione dell’imposta.
    Il suggerimento di Andrea Manzitti merita di essere valorizzato: a quanto ne so, ad esempio, in Francia è possibile rinunciare all’imposizione sostitutiva alla fonte, e includere i rendimenti dei titoli di stato nella dichiarazione dei redditi, godendo anche, in certi casi, di un abbattimento in funzione della situazione familiare del contribuente. Si tratta di pensare ad un meccanismo che concili il prelievo alla fonte da parte delle banche, con un sistema di abbattimenti da utilizzare nella dichiarazione dei redditi (potrebbe ad esempio essere dato un credito di imposta da far valere in sede di calcolo dell’imposta personale progressiva). Sono per ora solo degli spunti, ma varrebbe la pena di approfondirli

  13. raffaello lupi

    Nell’intervento di Stevanato e nella risposta di Manzitti prendono forma due aspetti intrecciati, ma distinti: uno riguarda la salvaguardia dell’integrita’ del capitale rispetto all’inflazione, che sussiste a prescindere dall’importo del reddito, e riguarda concettualmente anche i risparmiatori con dieci milioni di euro.
    Un aspetto diverso riguarda i piccoli redditi che, di fronte a un aumento della sostitutiva, il contribuente potrebbe trovare conveniente inserire in irpef, in modo da far valere la “no tax area”, la propria aliquota inferiore, le spese mediche, le detrazioni per i figli a carico. Mi pare che la proposta di Andrea Manzitti riguardi questo aspetto, e mi pare che vada benissimo (magari esigenze di gettito e di cautela fiscale potrebbero rendere opportuno un piccolo prelievo di acconto da parte degli intermediari, da conguagliare in dichiarazione dei redditi).
    Il bonus che io proponevo voleva essere invece uno strumento per tenere conto dell’inflazione senza complicare la gestione amministrativa dell’imposta da parte degli intemediari. La mia proposta è lasciare tutto com’è in corso d’anno, aumentando l’aliquota, e poi, alla fine riconoscere l’inflazione con un importo globale che puo’ essere speso per abbattere i successivi imponibili dell’imposta sostitutiva, un po’ come le attuali minusvalenze.
    La proposta di ammettere l’inserimento in IRPEF delle rendite si concilia bene con la considerazione dell’inflazione: gli intermediari forniscono a consuntivo i dati depurati dall’inflazione e io li dichiaro.
    Se non si tiene conto dell’inflazione, qui si cade in una surrettizia imposta patrimoniale, esistente già adesso, ma tollerabile a denti stretti vista la modestia dell’aliquota. Se si alza l’aliquota occorre fare qualcosa per l’inflazione (come prevedeva un ddl Visco del 1988), altrimenti avremo fughe di capitali e ulteriori spinte sull’investimento immobiliare, con effetti nefasti già commentati su “la voce”.

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