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L’articolo 18 in tribunale

L’analisi empirica rivela che nelle cause di licenziamento relative all’articolo 18, la maggioranza delle decisioni prescindono dalla conoscenza delle situazione di fatto. Subordinare il licenziamento a un’autorizzazione amministrativa ovvero al placet del consiglio di fabbrica, come avviene in alcuni paesi europei, permetterebbe di rendere l’azione del tribunale più mirata sui contenuti e più efficace. E si creerebbe uno spazio importante per le trattative tra le parti, senza asimmetrie informative e atteggiamenti opportunistici.

In quasi tutti i paesi il licenziamento di un lavoratore deve trovare un’adeguata giustificazione, sia essa basata sul comportamento del lavoratore stesso, sia, invece, dovuta a circostanze tecnico-economiche indipendenti dal comportamento.

E perché il licenziamento sia legittimo, la giustificazione dev’essere approvata da organi pubblici, in Italia dal tribunale.

 

Procedura e contenuto

 

Valutare l’efficacia, e il contenuto nei fatti, dell’attività svolta da tali organi è essenziale: da un lato, per analizzare i riflessi sulle decisioni di assunzione o di licenziamento da parte delle imprese, dall’altro allo scopo di saggiare l’effettivo grado di protezione in tal modo assicurato ai lavoratori.

Un caso di particolare interesse in questo senso è, per l’Italia, quello che riguarda il tema dell’articolo 18 della legge 300/70, lo Statuto dei lavoratori: probabilmente del tutto al di là dei suoi meriti o demeriti, è stato il punto focale del più rilevante scontro sociale degli ultimi anni.

analisi empirica delle sentenze del Tribunale di Roma evidenzia sorprendentemente che nelle controversie relative all’articolo 18 è assolutamente preponderante l’incidenza degli aspetti procedurali e processuali rispetto a quelli di contenuto. Il mancato rispetto delle procedure fissate dalla legge, la nullità del ricorso per i più disparati vizi o l’incapacità del lavoratore di dimostrare il fatto estintivo del rapporto costituiscono, infatti, il leitmotiv di molte sentenze.

La maggioranza delle decisioni prescindono, cioè, dalla conoscenza delle situazione di fatto posta alla base del licenziamento.

 

I dati

 

L’analisi effettuata ha avuto come obiettivo quello di esaminare le sentenze in materia di licenziamenti pronunciate dal Tribunale civile di Roma (primo grado di giudizio) sui ricorsi presentati nell’anno 2001. Più precisamente, su circa la metà degli stessi, perché per le restanti controversie è intervenuta una conciliazione. (1)

È possibile distinguere le cause di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, da un lato, e quelle per giustificato motivo oggettivo, dall’altro. Le prime hanno condotto a 140 pronunce, mentre le seconde hanno determinato l’emissione di circa un migliaio di sentenze.

La prima distinzione rilevante è quella tra pronunce favorevoli al lavoratore ricorrente e pronunce a lui contrarie:

favorevoli      44 per cento

contrarie       56 per cento

La seconda distinzione riguarda le imprese aventi più o meno di quindici dipendenti:

sopra i 15      52 per cento

sotto i 15      48 per cento

La terza distinzione necessita di alcune precisazioni. Non sempre il giudice competente a risolvere la controversia esamina lo specifico comportamento tenuto dal lavoratore, in quanto è chiamato preliminarmente a decidere delle questioni pregiudiziali, quali la natura del rapporto di lavoro, il fatto estintivo del rapporto, il rispetto delle forme prescritte per l’irrogazione della sanzione espulsiva. Sono state, così, suddivise le sentenze a seconda che il giudice si sia arrestato alla risoluzione delle questioni pregiudiziali ovvero sia sceso nel merito del comportamento tenuto dal lavoratore. Nella prima ipotesi, la sentenza è definita come di tipo procedurale, mentre, nell’altro caso, si avrà una sentenza di tipo sostanziale:

tipo procedurale       68 per cento

tipo sostanziale        32 per cento

Se le prime due statistiche sono più equilibrate, altrettanto non si può dire per la terza, nella quale le decisioni procedurali rappresentano i due terzi del totale.

Suddividendo i dati tra le imprese con meno di (o esattamente con) quindici dipendenti e quelle con un numero superiore e combinando le varie distinzioni, si può osservare come la ripartizione sia nettamente sfavorevole per i lavoratori delle imprese più piccole, stante la difficoltà, da parte del lavoratore, di dimostrare che il fatto estintivo del rapporto sia determinato dal licenziamento.

 

 

    Sotto 15

  Sopra 15

Contrari

67%

54%

Favorevoli

33%

46%  

 

Se si distinguono le sentenze per motivo soggettivo e per giusta causa tra contrarie e favorevoli, da un lato, e di tipo procedurale e sostanziale, dall’altro (con una piccola presenza di casi definiti “altro”), in caso dei Ms si ha:

 

 

Contrarie

Favorevoli

Procedurali

72%

55%

Sostanziali

25%

40%

Altro

3%

5%

 

Le sentenze di tipo procedurale sono, quindi, tendenzialmente negative per i lavoratori, mentre la situazione migliora quando si passa alle sentenze di tipo sostanziale. È, infatti, nettamente più frequente il caso del lavoratore, impiegato in un’impresa con meno di quindici dipendenti, che non è in grado di provare di essere stato licenziato, rispetto al caso del datore di lavoro di un’impresa con più di quindici dipendenti, il quale non riesce a dimostrare di averlo licenziato con la procedura prevista.

Ripetendo lo schema nel caso Gc, si ha:

 

 

Contrari

Favorevoli

Procedurali

60%

70%

Sostanziali

40%

10%

Altro

0%

20%

 

 

Una riforma possibile

 

Da un’indagine comparatistica si evince che, nell’àmbito delle legislazioni europee, si possono enucleare due diversi modelli di risoluzione delle controversie:

a)                 un modello preventivo, nel quale si subordina il licenziamento a un’autorizzazione amministrativa ovvero al placet del consiglio di fabbrica. Molti paesi, tra i quali l’Austria e i Paesi Bassi, hanno adottato questo modello.

b)                 un modello successivo, nel quale la definizione della controversia avviene attraverso un controllo a posteriori dell’atto di recesso. 

La soluzione preventiva è plausibile, in quanto potrebbe consentire ai giudici di conoscere in maniera più approfondita la situazione di fatto su cui saranno eventualmente chiamati a pronunciarsi. D’altro lato, potrebbe risolvere un’ulteriore patologia dell’attuale sistema: l’ingresso nel cosiddetto sommerso di molti lavoratori in attesa della pronuncia della sentenza. Il principio dell’effettività del danno spinge, infatti, il lavoratore a non rivelare lo svolgimento di un nuovo lavoro. L’introduzione di una norma di tal genere potrebbe generare un beneficio anche per l’impresa, che risente delle lungaggini processuali, le quali determinano, peraltro, l’impossibilità di calcolare gli effettivi costi del licenziamento.

Un eventuale processo di fronte al giudice del lavoro avrebbe dunque tempi più contenuti, perché i svolgerebbe su prove già acquisite dalla Direzione provinciale del lavoro. Non solo ne sarebbe agevolato il compito del giudice, ma, al contempo, si porrebbe un argine a tutte le possibili astuzie dei legali, tese ad allungare i tempi del processo. La decisione della Dpl, che non avrebbe effetti vincolanti, permetterebbe, poi, alle parti in causa di scegliere la soluzione migliore per risolvere la controversia. Si creerebbe, in ultima analisi, uno spazio importante per le trattative tra le parti, senza asimmetrie informative e atteggiamenti opportunistici. Resta, naturalmente, un problema di non poco conto: il salto di qualità organizzativo necessario per creare una struttura pienamente funzionante.

 

 

(1) Il dato rispecchia un analogo trend nazionale.

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  1. barbara balboni

    Dall’articolo emerge un dato molto significativo: in una città come Roma il numero delle cause di lavoro aventi ad oggetto dei licenziamenti è relativamente basso; sarebbe importante vedere quanto queste cause incidano sulla percentuale totale delle cause di lavoro, che costano soldi, fatica e frustrazione proprio ai lavoratori ed alle imprese.
    Verrebbe probabilmente fuori che la maggior parte delle cause di lavoro pendenti riguardano controversie con gli enti previdenziali, e che forse è questo l’ambito che andrebbe razionalizzato, con effetti economicamente importanti e benefici diffusi.

  2. Gianluca Cocco

    L’analisi mostrata nell’articolo, per quanto circoscritta al tribunale di Roma, costituisce un’ulteriore conferma del fatto, emerso in precedenti analisi empiriche, che la normativa sui licenziamenti non produce alcun effetto soglia e soprattutto il numero di controversie che i giudici sono chiamati a dirimire è talmente irrisorio che il problema di una riforma non dovrebbe neppure porsi. Ci si dovrebbe preoccupare piuttosto degli effetti di una circolazione errata di informazioni su questo argomento. La tesi che la normativa attuale produce un’effetto scoraggiante per le assunzioni da parte di imprese con un organico di quasi 15 dipendenti o che al sud i giudici sarebbero meno clementi con i datori di lavoro in virtu del maggiore disagio sociale dei ricorrenti (vedi tesi del Prof. P. Ichino) non trova alcun fondamento empririco. Anzi viene sconfessata da autorevoli analisi empiriche. La diffusione di queste informazioni tra i datori di lavoro potrebbero paradossalmente produrre esse stesse un effetto scoraggiante per le assunzioni. Purtroppo, nell’ambito delle politiche del lavoro, questo tema non è l’unico per il quale sia emersa una necessarietà infondata di una riforma.
    Gianluca Cocco

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