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Il costo della pena

Sicurezza dei cittadini, efficacia della giustizia, umanità della vita nelle carceri sono temi affrontati con atteggiamenti emotivi, senza un approccio scientifico. Tanto che in due anni sono state approvate due norme di segno opposto, una volta a vuotare automaticamente gli istituti penitenziari, l’altra a una espiazione solo carceraria della condanna. Si continua comunque a ignorare la necessità di accompagnare i provvedimenti con investimenti: per le strutture di sostegno e controllo agli ex carcerati in un caso, per l’edilizia penitenziaria nell’altro.

Ciclicamente, in occasione di ogni campagna elettorale o di qualche fatto di cronaca eclatante, si torna a parlare di sicurezza dei cittadini, efficacia della giustizia, umanità della vita nelle carceri. Problemi che sono abitualmente affrontati con un approccio in cui tendono a prevalere atteggiamenti emotivi, più ancora che fattori ideologici. Resta latitante, almeno nel dibattito pubblico, qualsivoglia traccia di analisi dei dati obiettivi.

Certezza e flessibilità della pena

Sono del tutto ignorate le interrelazioni dei vari fenomeni, né è compresa la loro rilevanza sulla qualità della vita quotidiana dei cittadini e i pesanti costi sociali correlati.
L’opinione pubblica è informata delle questioni e delle riforme concernenti la giustizia nella dimensione del processo penale, ma un cono d’ombra sembra avvolgere il mondo della esecuzione della pena.
Si tratta di una realtà tutt’altro che di nicchia: non solo coinvolge gli oltre 70 mila condannati, ma anche le migliaia di persone vittime di reati. Più in generale, la percezione del rischio criminale determina atteggiamenti e comportamenti concreti di tutti noi: non è difficile immaginare l’entità dei costi sociali connessi al fenomeno della microcriminalità, anche se sarebbe arduo misurarli esattamente.
Eppure, quando si parla di efficacia della giustizia e di lotta alla criminalità, non si sfugge dalla contrapposizione, che ha sapore di slogan, tra certezza e flessibilità della pena. Sostanzialmente, la certezza della pena (meglio, la sua rigidità) garantirebbe la sicurezza dei cittadini, ma porrebbe a rischio l’umanità della sua esecuzione, mentre la sua flessibilità si tradurrebbe in una forma di impunità criminogena, pur essendo meglio compatibile con una attuazione umanitaria della sanzione.

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Verifiche e investimenti

Ma una simile impostazione regge a una verifica operata con criteri scientifici, almeno in senso lato?
La efficienza del sistema è, evidentemente, correlata alla sua idoneità allo scopo, che per la sanzione penale è evitare la recidiva del condannato e la istigazione a delinquere per i terzi. Un discorso serio e obiettivo sulla materia non dovrebbe quindi prescindere da criteri di misurazione di tali fattori. Nonostante le apparenze, non è una rilevazione difficile.
Si tratta di assumere come base di elaborazione il numero di persone che hanno completato una pena espiata in forma alternativa alla detenzione (pena flessibile) in un periodo dato, verificare se e quante di queste persone ricadano nel delitto durante o dopo la misura. Il dato va confrontato con quello ottenuto da un campione di persone che nello stesso periodo abbiano espiato una pena solo carceraria (pena rigida). Il confronto tra i due dati mostra quale sia il risultato dei due sistemi, al di là di ogni preconcetto ideologico.
Visto il totale disinteresse che accompagna questi temi, non stupisce che una tale operazione non sia mai stata effettuata o, quantomeno, che gli esiti della rilevazione non siano stati resi adeguatamente pubblici.
Non è allora un caso che, nel giro di due anni, si succedano strumenti scoordinati e di segno sostanzialmente opposto come il cosiddetto indultino del 2003 e la legge ex Cirielli del 2005: il primo volto a un automatico svuotamento degli istituti penitenziari senza alcun serio intervento di supporto, sostegno e controllo delle persone scarcerate. E la seconda pensata per escludere l’espiazione della pena fuori dal carcere per i soggetti recidivi nel delitto.
Sui due interventi normativi, poi, non solo manca una analisi progettuale preliminare, ma anche un serio studio sulla possibilità di una loro attuazione concreta.
Continua infatti a sfuggire, se non nella cerchia degli operatori del settore, che la scelta verso una pena flessibile richiede investimenti cospicui in termini di strutture di supporto, sostegno e controllo. Mentre la scelta opposta comporta o condizioni di vita disumane all’interno degli istituti penitenziari o la necessità di onerosissimi interventi sulla edilizia penitenziaria.
Per rendersene conto, basta riflettere sul fatto che, dati ufficiali alla mano, attualmente sono 37mila le persone che espiano la pena fuori dal carcere: un numero elevatissimo e esattamente pari a quello di chi sconta la condanna in carcere. (1) Sono 37mila vicende criminali che necessiterebbero di supporto e controlli (e quindi, investimenti), e alle quali si può ragionevolmente ricollegare buona parte del tasso di reati commessi e una grossa parte del disagio personale e sociale di grandi aree del paese.
D’altra parte, la pena rigida, in parte attuata dal legislatore della legge ex Cirielli, andrebbe adottata solo una volta constatata l’inadeguatezza dell’altra, che al momento non risulta. E in ogni caso questa scelta imporrebbe di reperire strutture penitenziarie adeguate. Ipotizzando l’esecuzione penitenziaria per solo la metà delle persone che attualmente scontano la pena all’esterno, si dovrebbero trovare 18.500 posti in carcere. Si tratterebbe dunque di progettare la costruzione di trentasette nuovi istituti di grandi dimensioni, per un costo verosimile di diverse centinaia di milioni di euro.
Non si tratta dunque di riforme a costo zero, come normalmente si dice, ma a costo, enorme, traslato sui cittadini.

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(1) Statistiche ministero della Giustizia, I semestre 2005.

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  1. MATTEO SAVASTANO

    Personalmente ritengno che manchi assolutamente nel nosto ordinamento il concetto di effettività della pena. A fronte della minaccia di pene edittali veramente paurose previste dal codice penale ben raramente chi compie una rapina a mano armata passerà qualche giorno in regime di limitazione della libertà personale. Ciò crea allarme sociale e disaffezione alla legalità. Quasi mai si sente parlare di tutela delle vittime dei reati. Se un balordo e nullatenente mi brucia la casa, tutti noi ci preoccupiamo di processarlo e di garantirgli una pena possibilmente non detentiva (ammesso che non rientri nei limiti della sospensione condizionale ) volta al suo recupero sociale. Bene, ma al dannegiato, al padrone della casa distrutta che deve ancora pagare il mutuo cosa gli diciamo? cosa gli garantiamo?
    Ovviamente questo è un caso limite, ma quante volte prendiamo in considerazione la disperazone, il dolore delle vittime dei reati?
    Sicuramente non possiamo continuare a dire che per carenza di fondi e strutture carcerarie dobbiamo passare alle misure alternative alla detenzione, credo che si debba dire e sostenere che comunque l’autore di un reato sconterà una limitazione alla propria libertà, in carce o in regime di semilibertà, o in affidamento in prova al servizio sociale. E che in ogni caso non godrà di libertà piena, e che dovrà anche preoccuparsi del risarcimento alla vittima del proprio reato.
    Forse dimostrare che le pene vengono eseguite potrebbe anche aiutare a prevenire la commissione di numerosi reati. Oggi purtroppo è assai diffuso il convincvimento che c’è sempre un mezzo per farla franca, per sfuggire alle proprie responsabilità. Ciò è peggio del sovraffollamento delle carceri, perchè produce sovraffollamento di illegalità.

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