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Tutto (o quasi) quello che vorreste sapere sulla tassazione delle attività finanziarie

Il vice-ministro Visco annuncia che il Governo armonizzerà la tassazione delle rendite finanziarie, con una aliquota unica del 20 per cento.
Riproponiamo per i nostri lettori un’analisi che spiega gli effetti di questo provvedimento.

In questi giorni vi sono state roventi polemiche sul futuro della tassazione delle attività finanziarie, ma spesso l’informazione è stata parziale o fuorviante. Proviamo a rispondere alle domande più frequenti e sfatare alcuni luoghi comuni.

 

I redditi di capitale sono tassati oggi in Italia? Come?

 

I redditi di capitale e diversi (interessi, dividendi e plusvalenze) percepiti da un normale risparmiatore (una persona fisica che non esercita attività di impresa) sono già oggi tassati nel nostro paese, ma con aliquote diverse. Sui depositi e conti correnti bancari e postali e sulle obbligazioni private con scadenza inferiore a diciotto mesi vi è una imposta sostitutiva dell’Irpef, prelevata alla fonte con l’aliquota del 27 per cento. Sugli interessi sui titoli del debito pubblico, sui buoni postali e sulle obbligazioni con scadenza superiore a diciotto mesi, l’aliquota è invece il 12,5 per cento. La stessa aliquota è applicata anche ai dividendi e a tutte le plusvalenze, purché, nel caso di dividendi e plusvalenze azionarie, l’azionista non detenga partecipazioni qualificate (in caso contrario una quota, pari al 40 per cento del loro valore è tassata in Irpef). L’aliquota del 12,5 per cento è applicata al risultato netto di gestione dei fondi comuni e delle gestioni patrimoniali.

 

Vi sono buoni motivi per cambiare la tassazione delle attività finanziarie?

 

La presenza di due aliquote non ha alcuna giustificazione razionale, né sotto il profilo dell’equità (perché chi ha interessi da depositi bancari o postali dovrebbe pagare di più di chi detiene obbligazioni?), né dal punto di vista dell’efficiente funzionamento del mercato (la tassazione non dovrebbe interferire sulle scelte finanziarie degli individui, che dovrebbero essere guidate solo dalla convenienza economica).

I motivi per unificare il tutto in un’unica aliquota non sono tanto quelli di recuperare gettito, quanto quelli di rendere più coerente e razionale il sistema di imposizione diretta dei redditi.

 

Quale sarebbe il livello ottimale per un’aliquota unica sui redditi finanziari?

 

Non vi è un livello ottimale. La scelta va fatta tenendo conto del tipo di sistema impositivo che si vuole adottare. Se si volesse adottare, ad esempio, un’imposizione non sul reddito ma sul consumo (“imposta sul reddito spesa”), tema spesso dibattuto nella letteratura economica, i redditi di capitale dovrebbero essere esentati. Nessun paese si è mosso però finora in questa direzione.

I redditi di capitale sono spesso tassati con regimi proporzionali, fuori dal regime progressivo che grava sui redditi di lavoro. Mediamente quindi sono meno tassati rispetto ai redditi di lavoro.

La scelta di una aliquota intermedia, fra le due attualmente esistenti (12,5% e 27%) è motivata dalla volontà di ridurre la distanza fra il prelievo sui redditi finanziari, da un lato, e quello sui redditi di lavoro (tassati con le aliquote Irpef dal 23 al 43 per cento) e delle società di capitali (tassati con l’Ires al 33 per cento e l’Irap al 4,25 per cento), dall’altro.

 

Come è la tassazione negli altri paesi europei?

 

Per quanto riguarda gli interessi il modello di tassazione prevalente nella Unione Europea non è più l’imposizione ordinaria (imposta personale e progressiva sul reddito), ma un insieme variegato di regimi sostitutivi e separati. Nell’Europa a 25, gli interessi rimangono assoggettati al regime ordinario di tassazione solo nel Regno Unito e Slovenia e, per opzione del contribuente, in Belgio, Francia e, in parte, in Germania.

I regimi di tassazione separata o sostitutiva prevedono generalmente una sola aliquota di tassazione (anche se in molti paesi, soprattutto fra i nuovi entranti, sono previste esenzioni per varie tipologie di interessi) il cui livello varia fra il 10 e il 35 per cento, ma è generalmente non inferiore al 15-20 per cento (ad esempio, 27 per cento in Francia, 31,65 per cento in Germania al di sopra di una soglia esente, dal 20 al 40 per cento nel Regno Unito, 28 per cento in Finlandia).

Nei paesi nordici, che applicano sistemi cosiddetti di dual income tax, l’aliquota sui redditi di capitale coincide con l’aliquota base dell’imposta personale progressiva sul reddito.

Fissare una aliquota superiore al 12,5 per cento può provocare una fuga di capitali?

L’enfasi posta su questa eventualità va sicuramente ridimensionata. In primo luogo, perché l’aggravio medio per il contribuente sarebbe limitato, in quanto l’aliquota sui depositi bancari e postali si riduce corrispondentemente. In secondo luogo, perché anche se si investe all’estero, occorre pagare le imposte in Italia, con le stesse aliquote applicate ai redditi di capitale interni. Se non lo si fa, è perché si evade. Ma vi sono strumenti crescenti di controllo e contrasto di questo tipo di evasione. Vi è un sistema di monitoraggio interno sui movimenti di capitale da e per l’estero. Dal luglio 2005 è poi in vigore una direttiva europea che prevede lo scambio di informazioni automatico fra paesi sul pagamento di interessi a contribuenti europei. I paesi che non vi hanno aderito, applicano una ritenuta alla fonte del 15 per cento, che aumenterà progressivamente fino al 35 per cento, con retrocessione del 75 per cento del gettito al paese di residenza del percettore. Anche importanti paesi, non appartenenti alla Unione, hanno aderito all’accordo e operano una ritenuta alla fonte ai livelli indicati (per esempio, Svizzera e Liechtenstein), o concorrono allo scambio di informazioni (come Monaco e San Marino). Certo, sfuggendo al monitoraggio e cioè utilizzando canali illegali, si può sempre andare alle Cayman o altro paradiso fiscale in cui la direttiva non si applica ma ci si va già adesso e, semmai, non solo per risparmiare il 12,5 per cento di imposta.

Leggi anche:  Votare tutti per pagare meno tasse?

 

Se si aumentasse l’aliquota sugli interessi dei titoli pubblici non si correrebbe il rischio di un aumento dei rendimenti lordi che lo Stato deve garantire ai sottoscrittori, con il risultato che il Governo pagherebbe con la mano sinistra quello che ha raccolto con la mano destra?

 

I titoli del debito pubblico sono per lo più detenuti da soggetti esteri (55 per cento) e per il 20 per cento da banche e imprese. Per questi soggetti l’aumento dell’aliquota del 12,5 per cento non avrebbe alcun effetto. I risparmiatori (persone fisiche residenti) per i quali l’aumento dell’aliquota del 12,5 per cento ha effetto detengono meno del 16 per cento dei titoli pubblici (il restante 9 per cento è nelle mani dei fondi comuni). Difficilmente la loro domanda sarà in grado di influenzare le condizioni di offerta, e ciò a maggior ragione a seguito del progressivo allineamento dei tassi di interesse lordi fra paesi, reso possibile dall’adesione del nostro paese all’Unione monetaria europea. Non si creerebbe una convenienza a modificare la composizione del portafoglio, perché la nuova aliquota sarebbe applicata ai redditi di tutti i tipi di attività finanziaria.

 

È possibile che un’eventuale riforma delle aliquote si applichi in modo retroattivo?

 

No. Eventuali nuove aliquote si applicherebbero solo ai nuovi redditi di capitale. Dunque, l’imposta non sarebbe retroattiva. Anche per quanto riguarda le plusvalenze, come si è fatto in passato, per evitare la tassazione retroattiva si calcolano le plusvalenze maturate fino al momento dell’introduzione della nuova aliquota in modo da assoggettare al nuovo regime solo quelle maturate dopo tale data.

 

Che differenza c’è fra tassare anche i redditi futuri di titoli già oggi in circolazione o limitare la tassazione solo ai redditi derivanti da titoli emessi dopo una eventuale riforma?

 

Se si limitasse la nuova aliquota ai soli titoli emessi dopo l’entrata in vigore della riforma si creerebbero differenze di trattamento tra titoli di vecchia e di nuova emissione, facendo un bel regalo in conto capitale (e cioè nella valutazione dei titoli) a chi ha titoli più vecchi, come è puntualmente avvenuto nel 1986, al momento dell’introduzione della tassazione sui titoli pubblici. Alla differenza attuale per durata del titolo, se ne sostituirebbe un’altra per data di emissione. Inoltre questo periodo di transizione si protrarrebbe per circa un trentennio, creando segmentazioni sui mercati secondari. Diventerebbe più complessa anche la tassazione dei fondi comuni, tassati sul risultato di gestione. Per motivi di equità e di efficiente funzionamento dei mercati è dunque decisamente preferibile estendere la riforma anche ai titoli già in circolazione.

 

Aumentare la tassazione sui titoli pubblici significherebbe colpire i piccoli risparmiatori?

 

I titoli pubblici sono una componente minoritaria del risparmio delle famiglie; rappresentano secondo l’ultimo bollettino economico della Banca d’Italia solo il 5,6 per cento delle attività finanziarie detenute dalle famiglie. Per affrontare il problema dell’equità della riforma proposta occorre considerare l’insieme di queste attività.

 

Quali sono allora gli effetti redistributivi della riforma?

 

Per rispondere a questa domanda occorre tener presente che la ricchezza finanziaria è nel nostro paese molto concentrata. Sulla base dei dati ricavabili dall’ultima inchiesta della Banca d’Italia sui redditi e la ricchezza delle famiglie italiane, corretti per tener conto delle note sottostime che emergono in questo tipo di rilevazioni campionarie, si evince che il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede, da solo, il 40 per cento dello stock di attività finanziarie (con l’esclusione di riserve assicurative e fondi pensione) dell’insieme delle famiglie, contro il solo 1,2 per cento posseduto dal 10 per cento delle famiglie più povere. Uniformare le aliquote a un livello intermedio (ad esempio, il 19-20 per cento) avrebbe quindi sicuramente effetti redistributivi positivi.

 

Si può fissare una esenzione per i piccoli risparmi?

 

Generalmente l’esenzione ai piccoli risparmiatori viene concessa nell’ambito di una tassazione personale, non di una tassazione sostitutiva, come la nostra, perché richiede di conoscere i redditi finanziari complessivamente ricevuti dal singolo risparmiatore. È comunque possibile studiare forme di esenzione, attraverso meccanismi di opzione per la tassazione ordinaria o di certificazione dell’imposta pagata da parte degli intermediari.

 

Quanto sarebbe il gettito che si potrebbe ottenere da una riforma di questo tipo?

 

Le stime del gettito atteso vanno prese con molta cautela, in quanto in larga parte dipendono dalle ipotesi che si fanno circa la rilevanza delle plusvalenze, che sono però una componente con un andamento molto erratico. Vi è poi difficoltà a stimare la tassazione dei fondi comuni, i quali stanno ancora sfruttando, in compensazione, ingenti crediti di imposta maturati in passato, a seguito delle minusvalenze conseguite sui mercati azionari.

Si parla comunque di una cifra compresa fra i 2,5 e i 4,2 miliardi. Di questi, meno di 400 milioni arriverebbero dalla tassazione dei titoli pubblici.

                                                                                                                                          

Ma se la nuova aliquota fosse applicata in modo uniforme a tutti i redditi di capitale e diversi, inclusi dividendi e plusvalenze azionarie, non si avrebbe un fenomeno di doppia imposizione, posto che dividendi e plusvalenze azionarie possono avere già subito un primo livello di tassazione in capo alla società?

 

Già oggi vi è doppia imposizione, ma questa aumenterebbe se ci si limitasse ad aumentare l’aliquota del 12,5 per cento anche sui dividendi e sulle plusvalenze azionarie. Una volta il problema non si poneva, perché c’erano delle compensazioni, che riducevano la tassazione complessiva (societaria e personale) sugli utili di impresa: la dual income tax in capo alla società e il credito di imposta ai dividendi, in capo al socio. Oggi questi correttivi non ci sono più. Se si vuole evitare di penalizzare le società che si finanziano con capitale proprio sul mercato dei capitali, occorrerà una riforma più organica che coinvolga anche la tassazione del reddito delle società. E’ questo un aspetto spesso trascurato nel dibattito, che meriterebbe maggiore attenzione .

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14 commenti

  1. raffaello lupi

    Condivido sostanzialmente quello che scrivete, ed aggiungo solo alcune considerazioni. Una tassazione piu’ modesta dei frutti dei titoli obbligazionari si giustifica perchè “sono investimenti” mentre i depositi sono solo i soldi sotto il materasso del terzo millennio. questo “favor” verso gli investimenti c’entra poco con la misurazione “neutra” della capacità economica. Detto questo, il convitato di pietra è l’inflazione, perchè la ricchezza monetaria è l’unica, tra quelle con qualche rilevanza macroeconomica, ad essere falcidiata dall’inflazione. Non tenere conto dell’inflazione è comunque sperequato. Perchè non ne parliamo? Ultima cosa i fondi pensione e la previdenza complementare. Portare al 20 anche la tassazione su questi soggetti? Io non saprei, voi che dite? Ciao. Raffaello

  2. Ludovico Miseso

    Nota l’avversione al rischio degli italiana, avremo un bel travaso di risorse dedicate agli investimenti (azioni, fondi comuni, ecc) a conti correnti e depositi bancari; così ingrasseremo gli utili delle banche e daremo loro una delega a fare investimenti rischiosi, poi per lo più non possono farlo per legge (ad es. non possono prendere più del 15% di partecipazione in un azienda) e così daranno i soldi ad un ricucci qualsiasi che rischi per loro. Un bel risultato, disastroso.

  3. Stefano Parravicini

    Mi piacerebbe sapere il perchè della diversa tassazione tra i conti correnti bancari (27%) e le altre rendite, solo per capire se ancora sussistono le ragioni della differenzazione.

    Il recupero di reddito dato dalla eventuale minore tassazione degli interessi dei conti correnti bancari è ridicolo visti gli interessi minimi corrisposti, generalmente 0,50 % o meno, quindi gli investitori avranno sicuramente un aumento di tassazione.

    Cordiali saluti
    Stefano Parravicini

  4. Cesare Sacchi

    Care Amiche , siete bravissime. Complimenti.
    Vorrei ricordare il monito di Luigi Einaudi, scritto nel 1958
    “ricordo il paragone che mi raccontò un saggio ginevrino… che aveva due case di uguale valore, una in Svizzera e l’altra in Francia (e diceva) <>.
    Einaudi concludeva:
    “Tutto si lega, l’imposta e l’uso dell’imposta, la capacità e la rettitudine dei governanti e l’ossequio alla legge dei governanti. All’errore della legge tributaria fa contrappeso la frode fiscale . Chi non vuole la frode non deve volere l’errore”.
    Il saggio di Ginevra avrebbe mai pensato di portare all’estero i suoi capitali?
    E non l’avrebbe fatto un saggio danese che mi diceva: <<È vero, paghiamo tante tasse ma abbiamo ottime strade, scuole valide, ospedali sicuri e pensioni dignitose>>
    So bene che il tanto sognato modello danese non funzionerebbe dalle nostre parti. Ma possiamo chiedere che il futuro governo cominci subito a costruire strumenti fiscali adatti ai tempi (a dire il vero, da quanto leggo, la questione riguarda tutte le grandi economie, Stati Uniti, compresi ). Ripensando magari a rimettere al centro di una rinnovata logica tributaria l’imposta sul reddito consumato da voi ricordata.

  5. filippo ravalico

    articolo molto utile, chiaro e completo. ma non e’ una novita’. peccato per l’associazione Cayman / canali illegali: gratuita (che sui “paradisi” fiscali servirebbe ben altro genere di informazione) e anche sbagliata (che, se ho ben capito, nelle Cayman la direttiva si applica eccome, con gran beneficio per gli operatori locali nella serrata competizione con, tra i molti, i cugini in Bermuda).
    saluti
    filippo ravalico
    ps
    non avendolo ancora fatto, ringrazio comunque le autrici, i collaboratori piu’ o meno regolari e tutta la redazione per il servizio reso alla comunita’.

  6. Giuseppe Corbisiero


    Vorrei far presente che, come a più riprese è stato messo in luce soprattutto da politici di centrosinistra, la maggior parte degli italiani è oggi più povera, che i loro redditi reali sono paurosamente diminuiti (tutto ciò con l’aiuto dell’attuale governo, mai preoccupatosi di contrastare la sempre maggiore sperequazione nella distribuzione della ricchezza); e che per una buona parte di questi italiani il possesso di qualche titolo finanziario (in gran parte dello Stato o postale) rappresenta l’unico elemento di sicurezza per il futuro, quando non anche l’unica risorsa cui attingere per sostenere le sempre maggiori spese.
    Non mi sembra allora che sia questa la strada giusta per una maggiore equidistribuzione dei beni, soprattutto considerando come Prodi vorrebbe impiegare gli introiti.
    Con questo denaro si vuole ridurre il costo del lavoro per le imprese. Ma siamo sicuri che sia il costo del lavoro ad impedire alle nostre imprese di essere competitive con quelle estere? Che ciò basterà ad evitare che queste chiudano i battenti a seguito della concorrenza che ricevono dai competitori europei e non? Dunque, possiamo dire con certezza che a seguito di questa manovra aumenterà la domanda di lavoro, unica possibilità per i lavoratori di trarre, seppure in misura minima rispetto agli industriali, beneficio da tale politica?
    Non credo che questo provvedimento basti a rimettere in moto il disastrato cantiere Italia, e che dunque l’impiego giustifichi una maggiore povertà di italiani che già non se la passano bene. O perlomeno reputo giusto che queste persone si avvalgano del diritto di difendersi non votando Prodi, anche contro gli incoraggiamenti non si sa quanto disinteressati di numerosi professionisti.

  7. G. Corbisiero

    Vorrei poi sottoporre un ultimo elemento all’attenzione degli autori, se la redazione sarà così gentile da accettarlo malgrado abbia già espresso la mia opinione su un’altro punto: nel momento in cui un risparmiatore sottoscrive un titolo finanziario, ciò che a lui interessa è il rendimento al netto delle tasse, pertanto è in base a tale valore che accetta il contratto. Cambiare la tassazione su titoli già emessi, anche senza operare retroattivamente, moralmente corrisponde a tradire l’impegno dello Stato nei confronti del sottoscrittore di pagare il tasso di interesse indicato nel regolamento. E se la legge lo consente, commette un errore.
    Ma anche tralasciando quest’ultimo punto, ossia se sia giusto o meno che la legge permetta un tale comportamento, un provvedimento di questo tipo non può che provocare sfiducia da parte dei risparmiatori nell’investire nuovamente in titoli in cui i rendimenti indicati potrebbero in futuro rivelarsi nuovamente fittizi. Tutto ciò, se proprio non dovesse portare a una fuga di capitali all’estero, tramite canali legali o non (i capitali dei piccoli risparmiatori(=i fessi?) non fuggiranno di certo alle Cayman, ma probabilmente saranno i soli), avrebbe come probabile effetto diminuzione dell’investimento finanziario in generale. Non so quanto ciò sia desiderabile, soprattutto se ancora maggiori fondi fossero dirottati nel “mattone”.
    Che ne dite, per evitare questo rischio vogliamo “armonizzare” anche in quest’altro campo paventando la dissoluzione del diritto di proprietà?

  8. Alberto Lusiani

    Non sono d’accordo con l’affermazione categorica che la presenza delle due aliquote esistenti, 12.5% e 27% non avrebbe alcuna giustificazione razionale. Questa e’ solo un’opinione, per quanto dignitosa.

    Personalmente sono convinto che sia opportuno avere tassazioni differenziate che correttamente distinguano tra redditi speculativi (es. scalping, stock option, rivendite immobiliari a breve), e il pensionato che riceve magrissime cedole semestrali dei CCT in cui ha investito la pensione. Per quanto semplicistica e incompleta, la tassazione esistente correttamente tassa piu’ i guadagni a breve (presumibilmente speculativi) rispetto agli investimenti a lungo termine (presumibilmente rendita di un risparmiatore avverso al rischio).

    Riguardo l’aumento dell’imposta al 12.5%, lo ritengo inappropriato se riferito a redditi da titoli di Stato e obbligazioni che rendono poco oltre l’inflazione. Senza correzione per l’inflazione, un aumento dell’imposta colpirebbe di fatto piu’ il piccolo risparmiatore rispetto a chi realizza profitti speculativi a breve, che sono molto piu’ alti del 2-3% dei BOT, e che vengono realizzati in tempi brevi in cui l’inflazione non ha tempo di accumularsi.

    E’ abbastanza ovvio almeno a me che, se non si vuole tener conto esplicitamente dell’inflazione, e’ almeno opportuno usare aliquote diverse in rapporto alla durata dell’investimento, sempre che non si vogliano colpire piu’ i meno abbienti detentori di obbligazioni sicure rispetto a chi movimenta grossi capitali in operazioni speculative ad alto rischio e a breve.

    Cordialmente,
    Alberto Lusiani

  9. Vincenzo M.

    Non sono d’accordo sull’affermazione che due aliquote sono inutili, perché un conto è tenere i soldi sul conto corrente o sul libretto postale, altra cosa è finanziare lo Stato (acquistando bot, cct, btp) o le aziende private (azioni). Uniformando l’aliquota al 20%, con i livelli di tasso attuali e con una curva dei tassi sostanzialmente flat, si crea una preferenza per la liquidità, cioè si incentiva il risparmiatore verso forme di risparmio “improduttive” per il sistema.
    In secondo luogo, con i tassi di rendimento attuali, che coprono a mala pena l’inflazione ufficiale ma certamente non quella reale, l’innalzamento della tassazione sui titoli di stato al 20% costituisce di fatto una piccola “patrimoniale”.
    Infine, il riferimento alla tassazione degli altri paesi risulta fuori luogo perché lo Stato Italia ha un rating inferiore rispetto agli altri partners europei, pertanto è costretta a pagare di più il proprio debito. Aumentando la tassazione non c’è più interesse per gli investitori istituzionali a preferire i titoli di stato italiani.
    La formula giusta sarebbe stata l’introduzione della “tassa sulla speculazione”, basata sul possesso temporale degli strumenti finanziari. Le operazioni di acquisto e vendita a breve e brevissimo termine (6-12 mesi) di titoli di stato o titoli azionari rientrano nell’ambito della speculazione e dovrebbero essere tassati con una aliquota alta, ad esempio del 30%. L’acquisto degli stessi titoli ma con un possesso temporale maggiore non costituisce più speculazione ma investimento pertanto essi non dovrebbero subire alcun aumento di tassazione.

  10. Emilio Mola

    Credo che la questione determinante, sia econominacamente che politicamente, della proposta fatta dall’Unione, sia quella della soglia di esenzione. Armonizzare la tassazione è infatti una scelta molto condivisibile. A patto che l’aumento dal 12 al 20% non coinvolga i piccoli risparmiatori. L’Unione ha proposto che l’aumento riguardi solo quelle attività finanziarie che ammontano ad oltre 100.000 euro. Ma in un regime sostitutivo quale è il nostro, può davvero essere fatta una cosa del genere? E se no, ci sono delle soluzioni? Quali?

  11. Luigi M.

    Ma tutti questi “esperti” che parlano della correttezza di avere aliquote differenziate per titoli di stato e altre rendite si sono domandati perchè ovunque all’estero non è così? solo loro sono i depositari della verità? e ancora: dato che l’unione ha sempre detto di considerare una sorta di franchigia per i piccoli patrimoni (che verosimilmente hanno anche rendite basse) quali sono i vecchietti che arrotondano la misera pensione con le cedole? quelli che hanno evaso nel passato (e hanno di conseguenza una pensione bassa) e posseggono un patrimonio di centinaia di migliaia di euro?
    o forse il problema sta nel fatto che gli attuali evasori si trovano a pagare finalmente un po’ di quelle tasse che evadono sistematicamente con l’IRPEF?

  12. Paolo Poggioli

    Ho letto con molto interesse il vostro articolo e con altrettanta attenzione i commenti dei lettori. Vorrei intervenire anch’io nel dibattito per precisare alcune questioni:
    1)non sono d’accordo con chi sostiene che l’aumento della tassazione dal 12,5% al 20% scoraggi gli investitori istituzionali. Ricordo che le società (tra cui i cosiddetti “investitori istituzionali”) non sono soggette alla cedolare secca del 12,5%. Quindi, come giustamente affermano le autrici, la riforma non c’entra nulla con questi soggetti e con i rating dello Stato Italia (abbastanza divertente questa definizione…)
    2)se fosse per me non introdurrei neanche la distinzione fra piccoli e grandi patrimoni: la tassazione è proporzionale e in quanto proporzionale chi ha di più paga di più, chi ha di meno paga di meno. Esempio: investo 10.000euro in bot e mi rendono il 2% lordo. Cedola staccata 200euro. tasse pagate con la vecchia tassazione 25 euro; tasse pagate con la nuova tassazione 40euro. Sono così scandalosi questi 15 euro in più, considerando che se invece di una cedola fosse una retribuzione da lavoro dipendente avremmo pagato il 23% nella migliore delle ipotesi?
    3)siamo sicuri di questo travaso di risorse dai titoli di investimento ai conti correnti a seguito della nuova tassazione?chi parla di avversione al rischio, per piacere, faccia i conti: preferisce (a parità di rischio, visto che i titoli di stato sono universalmente considerati risk-free) investire 10.000euro in bot/cct/… e guadagnare, invece di 175euro, 160euro (vedi esempio sopra) o lasciarli sul conto e guadagnare lo 0%?
    Quando si parla di numeri non mettiamoci di mezzo l’ideologia o l’idea politica di ognuno. I numeri non sono opinabili e come tale li si può considerare in maniera oggettiva.

  13. Nino Ruzic

    Gentili signore,
    non sarebbe piu semplice adottare il sistema nordico di tassazione, dove il reditto di attivita finannziarie viene sommat al reddito “da lavoro”? In tal modo l’equita sarebbe salvaguardata e ne guadagnerebbe la semplicita. In questo caso pure la soglia minima sarebbe garantita, visto che si potrebbe semplicemente alzare la soglia minima del reditto totale – che verrebbe a compredenre le attivita di lavoro(salariate) e quelle finanziarie.
    Una soluzione in tale senso avrebbe anche il pregio di rendere piu simili la tassazione del lavoro e del capitale.

  14. Stefano Raviol

    Per semplificare la tassazione su redditi da capitale e redditi diversi, oltre ad uniformare le aliquote, proporrei anche una uniformazione dei meccanismi di applicazione, eliminando la tassazione sul maturato, questo forse può non piacere agli attuali proponenti della riforma, ma a mio parere renderebbe più equa, anche come percezione da parte del contribuente, la tassazione, infatti realizzando una plusvalenza si è più disponibili a condividerla con qualcuno (lo Stato) più di quanto possa accadere con un guadagno che rimane sulla carta (tassazione sul maturato), oltre ad eliminare gli effetti distorsivi che ha sull’asset allocation il credito d’imposta per perdite pregresse, effetti distorsivi che hanno fatto sì che buona parte dei risparmi confluiti in fondi d’investimento siano sotto forma di sicav di diritto estero (guardate le numerose offerte di lavoro all’estero per laureati in materie economico-finanziarie da parte di branch estere di banche italiane).
    Rimandando a quanto scritto dal Prof. Lupi, secondo me si dovrebbe procedere alla completa esenzione delle plusvalenze realizzate dai fondi pensione, questo per tre motivi:
    -l’attuale limite di 5000 euro di versamenti annui fa sì che non siano favoriti i grandi patrimoni;
    -si darebbe effettivo impulso al terzo pilastro nell’ottica della progressiva riduzione delle prestazioni pensionistiche;
    -la rendita percepita alla fine della contribuzione sarebbe comunque tassata in via ordinaria (come le attuali pensioni).
    Inoltre oramai la finanza è una vera e propria industria, che dà lavoro qualificato a migliaia di persone, e non risente se non in via indiretta, di fenomeni come la cocorrenza asiatica nel manifatturiero, possibile che non ce ne si renda conto?

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