Mi pare che nel contributo dell’8 maggio, Maurizio Benetti e Gabriele Olini abbiano centrato bene diverse questioni. Non sarà solo la differenza di oneri contributivi a favorire l’uso improprio dei dispositivi d’inserimento al lavoro da parte delle imprese, ma è certo che le convenienze economiche pesano, e molto, nelle decisioni dei datori di lavoro. Al minor costo previdenziale del lavoro parasubordinato o autonomo si aggiunge poi il vantaggio della flessibilità, non quella necessaria, comprensibilmente ricercata dalle imprese, ma quella resa possibile e quasi suggerita dall’attuale regolazione.
Il problema è che nessuno regala niente: se la contribuzione vale poco, varranno poco anche le prestazioni; e se la flessibilità è elevata, si volteggia senza rete. Il vantaggio di alcuni sarà pagato dalla collettività e dalla parte più debole dei lavoratori. Occorre dunque intervenire su quelle convenienze, regolare la flessibilità, premiare i comportamenti socialmente virtuosi delle imprese, rivedere il sistema delle tutele in un mercato del lavoro profondamente mutato. Non correzioni, ma un quadro d’interventi coerente, che va ben al di là della legge 30.

Lavoro parasubordinato

Vi è una massa di lavoratori autonomi prevalentemente “involontari” poco garantiti sotto il profilo previdenziale e con nessuna tutela economica in caso di mancanza di lavoro. L’unica strada per moderare il ricorso a questi rapporti di lavoro è abbattere il differenziale che sfiora i 15 punti percentuali con il lavoro dipendente. Per quanto riguarda la domanda di tutela per i periodi senza lavoro, se la diffusione resta quella attuale, la risposta non è semplice. Se la platea dei co.co.pro si riduce, sarà agevolata.

Lavoro incentivato

L’Italia è tradizionalmente un paese che ricorre molto agli incentivi economici per promuovere l’occupazione, in particolare giovanile. (1) In via di principio, le sottocontribuzioni per l’apprendistato, quelle che intendono agevolare l’inserimento e il reinserimento al lavoro dei disoccupati sono una misura ragionevole e in qualche caso appropriata. È l’utilizzo anomalo, peraltro stigmatizzato a livello europeo perché in contrasto con la normativa dell’Unione, a far mutare il giudizio. (2) Di fatto, le imprese considerano le sottocontribuzioni un risarcimento degli eccessivi oneri impropri sopportati piuttosto che uno stimolo ad accrescere la domanda di lavoro. Inoltre, poiché gli sgravi contributivi riguardano il flusso di nuovi assunti, ciò incentiverà le imprese ad attuare il ricambio occupazionale: di conseguenza, a pagare saranno spesso i lavoratori meno giovani, anche perché sono sempre meno utilizzabili gli ammortizzatori sociali in deroga (mobilità lunga, prepensionamenti).

Lavoro a termine

Non si può non riconoscere che la precarietà del lavoro nella prima parte della vita attiva è preferibile alla disoccupazione. Ma è altrettanto certo che una sequenza prolungata di lavori a termine, per di più scarsamente retribuiti, finisce per riflettersi negativamente sulla condizione del lavoratore. La mancanza di autonomia economica influenzerà le scelte di vita, compresa quella non irrilevante di avere figli. (3) È ragionevole ritenere che un lavoratore a termine costi di più alla collettività in quanto “consumerà” più interventi pubblici di un lavoratore stabile sia per sostenere il suo reddito, nella forma di un’indennità di disoccupazione ordinaria o più frequentemente con requisiti ridotti, che interventi di politica attiva.

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Convergenza – unificazione delle aliquote previdenziali

Oltre a favorire un uso improprio dello strumento, le aliquote attualmente in vigore per i parasubordinati finiscono per deprimere l’ammontare della pensione cui si avrà diritto per l’effetto combinato del metodo contributivo e per la tutt’altro che rara discontinuità dei nastri lavorativi individuali. Si potrebbe elevare di 10 punti percentuali l’aliquota contributiva attualmente in vigore per coloro che non hanno un’altra posizione previdenziale attiva. Con l’occasione, ma la questione ha un rilievo più generale, potrebbe essere riesaminato il contributo rispettivo di datori e lavoratori.

Rimodulazione della spesa pubblica per le politiche del lavoro

Operando sulle convenienze economiche, dovrebbe essere possibile “pilotare” il sistema lavoro verso una assetto più convincente ed efficiente. La perdita di peso del lavoro parasubordinato e la riduzione dell’area del lavoro incentivato dovrebbero favorire inizialmente la crescita del lavoro a termine. Questo non può essere l’obiettivo finale del disegno riformatore, ma va considerato un passo in avanti in termini di chiarezza del mercato del lavoro, di maggiore tutela previdenziale dei lavoratori deboli. Il passaggio più delicato sarà comunque la rimodulazione della spesa per incentivi individuando la priorità nella stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Parte delle risorse oggi destinate agli sgravi contributivi potrebbe essere utilizzata per ridurre in misura modesta ma strutturale il costo del lavoro alle dipendenze per tutte le imprese, limitando però l’applicazione alla platea di lavoratori che percepiscono una retribuzione inferiore a un determinato ammontare (per esempio 40mila euro/anno ), parte per finanziare la riforma degli ammortizzatori sociali e parte per impieghi mirati, e in particolare per investimenti formativi. (4)

Differenziazione delle aliquote extraprevidenziali

L’ammontare della contribuzione all’assicurazione per la disoccupazione involontaria che vale poco meno del 2 per cento della massa salariale potrebbe essere differenziato a seconda che si tratti di assicurare lavoratori a termine o lavoratori stabili. Nel primo caso, il contributo per il finanziamento delle politiche attive del lavoro e la tutela economica della disoccupazione potrebbe essere maggiorato di 1,4 punti percentuali rispetto all’assetto attuale, dall’1,61 al 2 per cento l’ordinario, dallo 0,30 all’1,30 per cento il contributo addizionale. (5) L’importo risultante dalla maggiorazione contributiva sarebbe restituito al datore di lavoro nel caso in cui il rapporto di lavoro venga stabilizzato prima o entro la scadenza contrattuale.

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L’adeguamento dei contributi previdenziali degli autonomi

Come fanno giustamente notare Benetti e Olini, l’aumento dei contributi previdenziali degli autonomi sembra importante per due ragioni: le aliquote attualmente in vigore non sono certamente aliquote di equilibrio e il loro adeguamento porterà loro vantaggi nelle prestazioni.

 

(1) Più di 5 miliardi di euro l’anno pari a 10mila miliardi delle vecchie lire secondo i dati contenuti nel Rapporto di monitoraggio del ministero del Lavoro.
(2) L’Italia ricorre agli incentivi all’assunzione assai più degli altri paesi europei. È proprio questo ricorso anomalo che toglie senso al confronto con gli altri paesi per quanto attiene alla spesa per le politiche attive del lavoro.
(3) Il costo elevato degli alloggi e la mancanza di esternalità limitano fortemente la mobilità territoriale dei giovani a fini di formazione o per lavoro.
(4) La precarizzazione dei rapporti di lavoro ha messo in crisi il modello della formazione continua. Una nuova e impegnativa strategia potrebbe quella del sostegno alla domanda individuale di formazione. Ma questo richiede un sistema pubblico all’altezza della sfida, più qualità e più concorrenza tra le proposte formative, azioni di sistema appropriate. Comunque, deve emergere la consapevolezza che la fase attuale non è favorevole alla formazione: la leggerezza dei rapporti di lavoro non promuove gli investimenti formativi e dovendo scegliere a cosa rinunciare, gli individui scelgono comprensibilmente più reddito rispetto a più formazione;
(5) Il contributo dello 0,30 per cento finanzia oggi in parte i fondi interprofessionali per la formazione continua.

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