I risparmi nella spesa pensionistica si devono per intero ai meccanismi del sistema contributivo, cioè alla legge Dini del 1995. Gli effetti finanziari della riforma Maroni sono circoscritti alla fase di transizione, al periodo in cui gradualmente il sistema contributivo sostituisce il precedente calcolo retributivo. I risparmi ricollegabili all’innalzamento rigido dell’età pensionabile iniziano nel 2008 e assumono una certa consistenza nei vent’anni successivi. Grave non aver rideterminato nel 2005 i coefficienti di trasformazione.

Nei dibattiti televisivi della recente campagna elettorale, il ministro Tremonti ha affermato che il Governo di centrodestra, tra le molte altre iniziative degne di nota, ha fatto la “miglior riforma delle pensioni di tutta Europa”, come – a detta del ministro – si poteva leggere nei rapporti redatti dalla Commissione in sede di confronto dei sistemi previdenziali. La “miglior riforma d’Europa” permetterà dunque alla nuova compagine ministeriale di rilassarsi, almeno su questo fronte? O invece, come per quasi tutto ciò che riguarda la spesa pubblica, ci sarà ancora molto da fare e, presumibilmente, da soffrire?

La demografia

In Italia, le modifiche nella struttura della popolazione si presentano molto più accentuate rispetto alla media europea per tre fattori: l’invecchiamento delle generazioni del baby boom, l’allungamento della vita, la caduta dei tassi di fertilità. Nei prossimi anni si avrà una consistente diminuzione della popolazione in età di lavoro e un aumento degli ultra sessantacinquenni. (1)
Il tasso di dipendenza demografica (persone dai 65 anni in su rapportati alla popolazione tra 15 e 64 anni) è previsto aumentare dall’attuale 28,9 al 62,2 per cento nel 2050 (contro il 51,4 per cento della media dell’Europa allargata). Per il tasso di dipendenza economica (popolazione da 65 anni in su rispetto agli occupati tra 15 e 64 anni), la differenza con la media europea è ancora maggiore, registrando l’Italia un aumento dal 48,7 al 92,7 per cento, mentre l’Europa dei 25 sale dal 37,2 al 70,2 per cento.

La spesa: passato e futuro

Gli andamenti finanziari del sistema pensionistico sotto il profilo “consuntivo” riguardano gli anni 1989-2005, caratterizzati dalle principali riforme dei Governi Amato, Dini e Prodi e dai primi interventi del Governo Berlusconi. A partire dal 1993 fino allo stesso 2001 vi è stato un sostanziale rallentamento dei ritmi di crescita del rapporto tra spesa pensionistica e Pil, grazie a una più ridotta dinamica della spesa non solo in termini nominali per la minore inflazione, ma anche in termini reali. (2) Tale tendenza ha cominciato a invertire il segno a partire dal 2002, vuoi per l’intervento riguardante l’aumento delle maggiorazioni sociali che ha contribuito a sostenere temporaneamente un ritmo di crescita maggiore di quello previsto, vuoi soprattutto per il progressivo marcato rallentamento della crescita del Pil.
L’andamento prospettico della spesa basato su previsioni a medio termine (fino al 2010), mostra che, cessati gli effetti delle misure sull’età di pensionamento, i tassi di crescita della spesa pensionistica dovrebbero riprendere a salire, su livelli però più bassi rispetto a quelli sperimentati fino alla metà degli anni Novanta. Con tale dinamica, il rapporto tra spesa pensionistica e Pil avrebbe potuto stabilizzarsi con una crescita reale del prodotto lordo intorno al 2 per cento che, al momento attuale sembra tuttavia difficilmente ottenibile. L’ultima proiezione di lungo termine (al 2050), effettuata con il modello della Ragioneria generale dello Stato per il confronto con gli altri paesi europei (3), mostra infatti un’evidente modifica nel profilo del periodo 2005-2010, rispetto alla proiezione che la stessa Ragioneria ha utilizzato per calcolare gli effetti della riforma Maroni, la legge n. 243/2004 , dal momento che la previsione conteneva ancora le ottimistiche ipotesi di crescita del prodotto avallate a quella data dal Governo.
Nel lungo periodo, comunque, il peso della spesa per pensioni sul Pil, pur restando tra i più elevati in Europa, mostra una relativa stabilità, intorno al 14 per cento. (4)
La Ecofin rileva però che i risparmi si devono per intero ai meccanismi del sistema contributivo, cioè alla legge Dini del 1995, mentre non vi è alcuna sottolineatura dei risultati della legge Maroni. Gli effetti finanziari di tale legge sono infatti circoscritti alla fase di transizione, ossia il periodo in cui gradualmente il sistema contributivo sostituisce il precedente calcolo retributivo. I risparmi ricollegabili alla principale misura, ossia l’innalzamento rigido dell’età pensionabile, iniziano al 2008 e assumono una certa consistenza (in progressione fino a un massimo di 0,7 per cento del Pil) nei vent’anni successivi. Negli ultimi anni (dal 2038 al 2050), la proiezione mostra invece un peggioramento legato essenzialmente alla sopravvivenza di persone pensionate a un età media più alta, che beneficiano perciò di un trattamento medio più elevato.
Va aggiunto che nell’ultima versione (2005) del confronto europeo è stata apportata una significativa modifica delle ipotesi demografiche e macroeconomiche che definiscono lo scenario evolutivo. Merita di rilevare la straordinaria coincidenza del profilo della nuova proiezione con quella ottenuta con lo scenario di base 2001, aggiornato per comprendere gli effetti della riforma Maroni. I due andamenti sono infatti quasi sovrapponibili, salvo per il primo periodo (fino al 2018 circa) in cui è dominante l’effetto dell’innalzamento rigido dell’età pensionabile per i trattamenti del vecchio regime retributivo. Le nuove proiezioni sono corredate di un’analisi di “sensitività”, che mostra effetti sensibili solo per un diverso andamento della produttività (+0,25 per cento): questo darebbe una riduzione di spesa per pensioni sul Pil significativa, paragonabile per incidenza a quella prospettata dalla riforma Maroni, seppure con il punto di massimo della spesa spostato in avanti di circa un decennio.

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Le cose non fatte

La stabilità della spesa pensionistica sul Pil nel lungo periodo è quindi conseguenza solo della riforma Dini (legge 335/95), che peraltro ha lasciato aperta una seria, e per ora irrisolta, questione di adeguatezza dei trattamenti pensionistici, soprattutto per le carriere lavorative discontinue, i salari più bassi e i lavoratori autonomi. Il profilo della curva, nella fase di transizione fino al 2050, è stato parzialmente modificato dalla riforma Maroni, che ha innalzato rigidamente l’età pensionabile nel 2008 con un “gradino” secco. La riforma, però, non ha per nulla affrontato la questione dell’adeguatezza delle pensioni. Inoltre, pecca di equità sulla restrizione dei requisiti per la pensione e peggiora l’adattabilità del sistema, rendendo più difficile gestire le problematiche di reddito e di lavoro per le persone oltre i cinquant’anni (avere esteso l’innalzamento dell’età alle pensioni contributive non ha neppure motivazioni dal punto di vista dei risparmi finanziari). Infine, come dimostrano le nuove proiezioni del confronto europeo, la riforma ottiene risultati che, almeno nel medio termine, sarebbe possibile raggiungere con un mix di strumenti di politica economica e del lavoro opportunamente indirizzati.
Tutte le proiezioni della Ragioneria, comprese quelle che misurano gli effetti finanziari della riforma Maroni, sono ottenute assumendo per intero le norme di funzionamento del sistema pensionistico. La legge Dini ha espressamente previsto al comma 11 dell’art. 1 una procedura che “sulla base delle rilevazioni demografiche e dell’andamento effettivo del tasso di variazione del Pil di lungo periodo rispetto alle dinamiche dei redditi soggetti a contribuzione previdenziale” rideterminasse, ogni dieci anni, i coefficienti di trasformazione da adottare per il calcolo dei trattamenti pensionistici. La legge Dini è del 1995. Quindi, nel 2005 si sarebbe dovuta aprire questa procedura che invece, nella tormentate e non sempre chiare discussioni sulla riforma dei sistemi obbligatorio e complementare, è rimasta irresponsabilmente silente. Il modello della Ragioneria, in passato, ha già fornito simulazioni che indicano cosa accade al rapporto tra spesa pensionistica e Pil in assenza di adeguamento dei coefficienti. In esse si vede che l’effetto è un peggioramento del rapporto di quasi due punti percentuali che, inevitabilmente, ridimensionano ancora di più lo stentato 0,7 per cento di risparmi conseguibile dalla riforma Maroni.
In conclusione, se consideriamo l’incidenza relativamente scarsa e la temporaneità di altri provvedimenti, come il famoso “bonus” per il posticipo del pensionamento, le diverse incoerenze, soprattutto dal punto di vista fiscale, presenti nel provvedimento riguardante l’apporto del Tfr ai fondi di previdenza e i già ricordati problemi riguardanti l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici per diverse categorie di lavoratori, l’impressione è che, al di là delle roboanti affermazioni dell’onorevole Tremonti, per il nuovo Governo ci sia ancora molto da faticare sul terreno della previdenza sociale.

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(1)
Proiezioni Eurostat.
(2) Dati del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale presso il ministero del Welfare.
(3)Public pension system projections – Italy’s fiche” 13 January, 2006.
(4) Vedi anche Ecofin (Economic Policy Committee – Working Group on Ageing Populations, Report on the Impact of ageing populations on public spending, Febbraio 2006)

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